Gabriella Greison e la sua grande intuizione: democratizzare la fisica

Ricordo bene quel giovedì pomeriggio. In Biblioteca c’era la presentazione del libro su Albert Einstein di una scrittrice che conoscevo poco.

Ma, ci andai, attratta dal grande genio della teoria della relatività e dalla simpatia che traspariva da una sua foto – la linguaccia più famosa del mondo –  e  con la speranza che non si parlasse di fisica.

Non eravamo tantissimi ma posso dire che l’attenzione mostrata dai presenti era come un velo di silenzio, ci avvolgeva tutti, catturati dalla capacità interpretativa di questa ragazza dai capelli ramati con outfit un po’ retrò, dagli occhi verdissimi, espressivi con una bella voce squillante, limpida.

IMG_7042Courtesy Archivio Greison ph. ©Marina Alessi

Recitava un monologo tratto da un suo libro “Einstein e io” edito da Salani, in cui con un linguaggio fresco, semplice e scorrevole raccontava la tormentata storia d’amore tra Albert Einstein e sua moglie, grande scienziata anche lei, Mileva Marić,  prima donna ad esser stata ammessa al corso di fisica al Politecnico di Zurigo,  – un corso per antonomasia maschilista. – Ma, la grande sorpresa fu che la scrittrice, oltre ad esser una fisica affermata, era anche attrice per giunta autodidatta, come scoprii in seguito.

Tutti eravamo chiusi in un silenzio quasi rigoroso, religioso. In realtà “contemplavamo”. Volevamo r/accogliere tutte le  parole.   Non volevamo perderne neanche una.

Sì, la sua voce  s’immergeva nei caratteri dei personaggi e diveniva coinvolgente,  compassionevole, concitata, energica, limpida, ironica, minacciosa, pacata, sottomessa, spaurita e poi vogliamo parlare della voce graffiante, originale, suasiva, virile di Giancarlo Giannini  – che penso riconoscerei anche se distante mille miglia – nelle vesti di Albert Einstein?  Forse, eravamo ipnotizzati.

IMG_7962Courtesy Archivio Greison – ph. ©Gianbattista Turla

La sua voce si diffondeva invadendo il nostro senso, l’udito e la nostra immaginazione quella di averli tra noi. Ammaliati da questa performance quando finii – quasi ci  rimanemmo male – io come spinta da una forza innaturale dissi: “Mi hai ricordato i monologhi di Franca Rame ai tempi dell’università”.

Mi sarei pestata la lingua. Da timida, improvvisamente ero diventata loquace. Applausi scroscianti, lunghi, lunghississimi come lo stupore e la meraviglia che aveva ammaliato un po’ tutti.

Ricordo le parole del direttore, Marco Ronchi,  dal sapore di una promessa “Verrà quest’estate” . Ed eccoci al firma copie e con una sfacciataggine che mai avrei creduto di avere le chiedo un’intervista.

Ero certa che non solo dai suoi testi ma dalla carica di energia, dalla capacità didattica, dalla sottile delicatezza con cui faceva introspezione psicologica dei personaggi che si legavano alla sua esperienza di vita, tutti avremmo potuto imparare qualcosa che forse era sfuggito.

Consiglio di leggere tutti i testi che lei cita, perché è una rarità trovare una fisica che trasmette con semplicità e leggerezza argomenti complessi, ma anche per  la riabilitazione della donna in un contesto storico che ancora la relegava ai margini.

E ancora, per la sottile ironia – con la quale Gabriella descrive i personaggi vissuti – in un’ epoca di grande fermento culturale e di innovazioni scientifiche. Infine per l’umanità che avvicina il fisico all’uomo normale, semplice, con i suoi limiti e sfumature caratteriali, riflessi del nostro essere umani. E ora, le sue parole.

Dalla tua lunga biografia si evince una vita subordinata ad una passione intensa verso tutto ciò che hai fatto e che fai, forse l’inquietudine dell’uomo moderno alla ricerca di un qualcosa che gli faccia capire e assaporare il vivere. Come se tu stessa non avessi trovato ciò che cercavi. O forse una sfida con te stessa. Comunque si denota la grande capacità di mettersi in gioco in attività lavorative con sfumature differenti.

Come ti ri/vedi se pensi agli anni in cui lavoravi in radio o facevi la reporter? Vuoi raccontarci qualcosa di questa esperienza?

È stato strano: quando mi sono laureata in fisica a Milano mi è venuto il desiderio grande di dire a tutti quanto è stato bello: i professori che ho seguito, con cui ho studiato, da cui mi sono fatta inebriare di racconti erano strepitosi. Loro mi hanno fatto vedere la fisica, prima – al liceo – non se ne ha minimamente la percezione di quanto tutto quello sia bello. Loro mi hanno fatto conoscere i grandi fisici del XX secolo come se fossero amici con cui parlare ogni giorno. Ed erano personaggi molto interessanti. Decisi di andare a Parigi per lavorare in un gruppo di ricerca internazionale, perché l’ambiente scientifico mi attraeva parecchio: e così è stato all’Ecole Polytechnique, dove ho conosciuto fisici molto in gamba e di livello eccezionale. Con il merito che prevaleva su ogni altro aspetto. Sono tornata in Italia con l’idea di portare il racconto della fisica, come lo avevo vissuto io, in una forma leggibile per tutti. Volevo creare la narrativa della fisica: che mancava in Italia, come in Europa. Mi proposi ai grandi quotidiani, ma mi presero per una spocchiosa pivella. Io dicevo: “ma io sono laureata in fisica”, insistevo con loro, dicendo che mancava questo punto di vista. Ma, niente.

E così entrai nelle porte che mi si aprivano più facilmente: quindi iniziai con Radio Popolare, e anche con Il Manifesto. Entrambi i posti sono stati accoglienti per me. Lì potevo fiorire. E iniziai il mio percorso. In Radio creai “42 la scienza in cerca di domande”. E sul quotidiano scrivevo. Crescevo di giorno in giorno. Divenni giornalista professionista. Nel frattempo presi l’abilitazione per l’insegnamento e insegnavo nei licei, fisica e matematica. Collaboravo anche con l’università. Dopo due anni così, potevo ancora continuare con la trasmissione e i miei articoli, se volevo, ma capii che per crescere ancora dovevo cambiare. E così entrai in altre porte che mi si aprirono. Radio Tre, poi Radio Due. E poi iniziai a scrivere di tutto, non solo di fisica e di scienza. Perché se uno ha la passione della scrittura, e gli piace scrivere, se con la scrittura esprime qualcosa che non c’è, se con la scrittura sta correndo in una prateria che sa solo lui qual è, non importa di cosa scrive. È una regola che mi hanno insegnato i grandi giornalisti.

L’amore per la scrittura si è palesato intorno ai 30 anni quando lavoravi a Radio Popolare. Allora facevi la giornalista e avevi pubblicato L’insostenibile leggerezza di Effenberg in cui parlavi del mondo che ruota attorno al calcio. Intorno al 2017 inizi a focalizzare la tua scrittura sul mondo legato alla fisica.

Quando hai sentito l’esigenza di riscrivere e narrare eventi come il Congresso di Solvay  del 1927 o storie di personaggi a cui hai dato un’anima e qualità umane che spesso non traspaiono dalle biografie?

Quando mi sono laureata in fisica avevo la fissa per la foto scattata nel 1927, la vedevo ovunque. Poi a Parigi, all’Ecole Polytechnique era una gigantografia all’ingresso. Era un’ossessione quella foto per me. E così appena capii che poteva essere il momento giusto, andai a Bruxelles e mi misi a fare le ricerche per approfondire quella foto. Ricerche che durarono anni. Andavo avanti e indietro dall’Italia in Belgio. Finalmente, quando le cose stavano cambiando e tirava l’aria giusta, capii che quelle ricerche potevano diventare un romanzo. Il romanzo è stato “L’incredibile cena dei fisici quantistici”, edito da Salani. Un buum pazzesco. È tutt’ora in continua ristampa. Pochi mesi fa ho anche registrato l’audiolibro per Audible.it .

E dopo il romanzo ho creato “1927 Monologo Quantistico”, perché alle presentazioni del mio romanzo nel 2016 venivano centinaia di persone, e allora un regista milanese (Emilio Russo) si è incuriosito e mi ha proposto di portare nel suo teatro il monologo che da sola portavo nelle librerie, negli auditorium. Facemmo un lavoro, e creammo la versione teatrale. Da allora abbiamo fatto oltre 170 repliche nei teatri di tutta Italia, quasi tutti sold out, soltanto a Milano siamo arrivati a 50 repliche. Continuiamo ancora, malgrado io sia poi arrivata a creare altri tre monologhi, da altrettanti romanzi. Sul mio sito www.greisonanatomy.com c’è il dettaglio di tutti questi miei lavori e dove trovarmi nel calendario, con tutte le prossime date. (clicca qui)

Courtesy Archivio Greison – ph. ©Gianbattista Turla

Hai lavorato 4 anni come reporter de Il Fatto Quotidiano occupandoti di varie tematiche estranee al tuo mondo di fisica. Interessanti i dossier sulla Silicon Valley, sul quartiere di Bruxelles in cui l’Isis recluta adepti e in vista dei Mondiali 2022 ti sei recata a Doha.

Ci vuoi parlare dell’esperienza che ti ha più colpita e che ti ha lasciato tracce indelebili. Non mi riferisco solo alle differenze socio-culturali ma al valore umano non visibile ma importante. Inoltre, come vivevi le tue trasferte all’estero?

Mi sono semplicemente incuriosita al mondo. Esattamente come mi ha insegnato la fisica. Io viaggio da sola fin da quando avevo 18 anni, quindi per me è stato naturale. Come ho detto prima, non importa l’argomento, se ti piace scrivere, lo puoi fare con tutti i temi. E quelli erano temi che mi incuriosivano, e c’era la notizia. E nessuno ne scriveva. Il fiuto per la notizia mi ha portato ovunque, è stato divertente. È stato un gioco, per me. Sono stata l’ultima ad aver intervistato Giulio Andreotti. Sono stata l’ultima ad aver intervistato Rita Levi-Montalcini. Sono stata l’ultima ad aver intervistato Margherita Hack. Pazzesco, non credi?

Hai visitato la Silicon Valley, centro avanguardistico dell’informatica e di tutto ciò che concerne l’web, dove a parte l’efficenza lavorativa si hanno ritmi di lavoro che limitano la vita privata. Cosa pensi al riguardo?

È molto interessante. Mi ha incuriosito parecchio, anche perché nessuno me la raccontava bene: dunque, ci sono andata di persona. E una volta che io vado in un posto, e trovo una notizia, è inevitabile che la scriva.

Analizzando quei sistemi lavorativi, per esempio Google che tu hai visitato, potresti suggerire elementi che potrebbero giovare ad avviare start up nella nostra isola?

Non so.

Dopo il periodo giornalistico sei ritornata alla tua vocazione/passione originaria. Raccontaci, anche tu folgorata sulla via del ritorno?

Non c’è una via di ritorno, perché in realtà non l’ho mai abbandonata. Ad un certo punto, è stato il momento di pubblicare “L’incredibile cena dei fisici quantistici”. Prima non era possibile. Prima, era come se i fisici dovevano parlare solo come i fisici accademici, quelli che Einstein chiamava i ‘paludati accademici’. Poi, il successo del libro di Carlo Rovelli ha aperto la strada, e io mi sono messa in scia. Avevo già tutto, avevo la storia che era una bomba, ero pronta. Ed ero donna. Un primato pure il mio.

La bellezza dei tuoi testi risiede oltre che in una scrittura coinvolgente, briosa a tratti leggera, ironica, nella semplicità con cui permetti a tutti noi di avvicinarci ad un mondo per complessità, rigoroso, impostato, rigido. O come noi pensavamo fosse. E così doni umanità a questi grandi scienziati. Ne accorci le distanze. Gli spazi si annullano e un po’ le differenze. Anche loro con menti acute e intelligenti sono simili a noi. E anche la loro vita è stata segnata da luci e ombre, un po’ come la nostra. Sembra quasi che tu gli permetta di rinascere. Epifanie di umanità.

C’era un progetto legato alla riscrittura? A parte le scoperte scientifiche che hanno migliorato la nostra contemponeità. Possiamo dire che i tuoi testi li hanno resi nostri contemporanei?

Sì, mi piace quando mi viene attribuita questa conquista. Questo primato. Ho creato una narrativa della fisica che non c’era. Dopo “L’incredibile cena” è stato il momento di “Sei donne che hanno cambiato il mondo” (per Bollati Boringhieri) da cui ho fatto nascere il monologo “Due donne ai Raggi X – Marie Curie e Hedy Lamarr, ve le racconto io”, lo porto anche a Vienna a marzo, nella città natale di Hedy. Dopo ho pubblicato “Hotel Copenaghen” (per Salani) sulla scuola di Copenaghen creata da Niels Bohr, un posto magnifico che non potevo non raccontare. Ecco le mie esigenze: scrivo romanzi perché ci sono storie che ‘non posso non raccontare‘. Poi ho pubblicato “Einstein e io” da cui ho fatto nascere “Einstein & me” il monologo teatrale sulla vita di Mileva Maric, ho fatto un lavoro con la regista (Cinzia Spanò) strepitoso, lei è bravissima, e io con lei di fianco ho imparato tanto: l’ho portato in due teatri da mille posti, pieni, è stata un’emozione che non ha eguali. Lo porto anche a Zurigo a fine marzo, esattamente dove ho fatto le ricerche, e poi anche a Novi Sad, nella città natale di Mileva, dove mi hanno invitato e dove tradurranno il libro in serbo. I cerchi si chiudono sempre. L’ultimo romanzo è “La leggendaria storia di Heisenberg e dei fisici di Farm Hall”, in cui racconto di una storia formidabile e che nessuno conosce, all’interno della villa di Farm Hall: il nuovo monologo debutta il 10 maggio al Teatro di Sori, è prodotto dal Teatro Pubblico Ligure e ha la regia di Sergio Maifredi. Farm Hall è stato il primo Grande Fratello coatto della storia, fatto solo con i fisici. A corredo faccio anche la storia di Lise Meitner, e l’approfondisco in uno spazio a parte. Il racconto delle grandi donne della scienza, visto il periodo che stiamo vivendo, è il mio faro.

IMG_9081Courtesy Archivio Greison – ph. ©Gianbattista Turla

Dai tuoi libri traspare una forza di semplificazione e umanizzazione straordinaria. Semplicità, coinvolgimento, capacità didattica sono i tre elementi che personalmente mi hanno colpito. Hai seguito corsi di scrittura creativa per definire i personaggi? Che ruolo hanno i dettagli?

I dettagli sono tutto. Ho lavorato su me stessa. Da sola. Autodidatta. Anche Einstein faceva così… L’ho fatto per tanti aspetti della mia vita. Anche quando volevo imparare ad andare su un surf da onda, guardavo ore, osservavo i più bravi, e poi emulavo.

L’analisi di forme matematiche sembra sorreggere dinamiche caratteriali, di personalità o sociali. Ovvero sembra che tu voglia tradurre le formule in istanti di vita. Lo trovo magnifico. Ci vorresti parlare di questi passaggi?

Si, parlo di formule, di teoremi e li mischio al lato umano dei fisici. Il mio racconto è sui fisici del XX secolo perché loro mi piacciono più di tutti gli altri: sono quelli che hanno creato il nostro mondo.

Dalla scrittura alla recitazione. Oggi incanti platee. Ricordo bene il tuo monologo tratto dal libro Einstein ed Io alla Biblioteca Simpliciana di Olbia che ha folgorato tutti i presenti. Rapiti dalle tue parole e quelle di Giancarlo Giannini. Seguendoti sui social tutta l’Italia sembra si stia innamorando della fisica merito dei tuoi libri e dei tuoi brillanti monologhi. Tutti sold out. Penso che il segreto dipenda oltre dalla capacità interpretativa, dall’empatia e molto dalla tua semplicità e umiltà, valori che ti hanno sempre contraddistinto.

Cosa pensi al riguardo? Perché questo amore verso la fisica? Inoltre per essere vincenti e realizzare i propri sogni, come nel tuo caso, quali suggerimenti daresti ai giovani d’oggi?

Ho lavorato molto sul mio modo di parlare in pubblico, sul linguaggio. All’inizio emulavo quelli più bravi di me. Inizio sempre così una cosa che non so fare. Per la scrittura, agli inizi, copiavo gli attacchi di Hemingway. Per il racconto orale, agli inizi ho trovato la mia ispirazione più grande in Carlo Lucarelli: sono sempre stata affascinata dai suoi libri, e dal suo modo di parlare. La gente a teatro mi diceva che gli ricordavo lui: eh certo, io a casa mi mettevo davanti allo specchio e cercavo di parlare come lui! Poi ho trovato la mia strada, ho lavorato su me stessa su come cambiare, su come trovare la personalità che mi rispecchiasse meglio. Ma continuo ad adorare Carlo Lucarelli, non ci posso fare niente, appena lo vedo in tv mi fermo e ascolto con molta attenzione cosa dice. Poche persone catalizzano la mia attenzione come lui: un’altra è Francesco De Gregori. Sogno un’ora a teatro con lui: lui che mi fa domande sulla fisica e io che gli faccio domande sulla vita, sulla sua spiritualità. A me mancano esattamente le cose che lui racconta, ho letto tutte le sue interviste. Lo stimo molto. Io nel camerino prima di ogni spettacolo canto le sue canzoni per caricarmi: una volta un tecnico simpatico mi ha ripreso e lo ha messo sui social: ti dico solo che quel video ha migliaia più visualizzazioni di quando parlo di fisica. Ma torniamo a me: ora ho creato la mia narrativa della fisica, e quindi posso esprimermi lì dentro. A teatro poi su di me hanno lavorato fior fiori di registi teatrali bravissimi, e di lunga esperienza: devo tantissimo a loro. La mia sicurezza sul palco, il mio modo di occupare gli spazi. Io continuo a crescere, inarrestabile, giorno dopo giorno, non mi fermo un attimo, di crescere, di imparare, vado sempre avanti. Sono fatta così.

Un consiglio da dare ai ragazzi? Gliene do tutte le volte che mi fermano dopo un monologo nei teatri. Dico a tutti di oziare. E poi: non state dove non potete fiorire.

L’eroine dei tuoi libri. Tra desiderio di emancipazione e soffocamento di una società maschilista. Ieri e oggi. Possiamo dire che le differenze si stiano armonizzando?

Sì, io racconto le donne del passato che hanno dato la possibilità a me e a tutte noi oggi di realizzare i nostri sogni. È come se ricevessimo un testimone da loro, e io lo porto in giro fiera nei teatri. Nel mio nuovo monologo “La leggendaria storia di Heisenberg e dei fisici di Farm Hall” c’è il racconto nella seconda parte di Lise Meitner, che potrebbe avere uno spazio tutto suo, se me lo chiedono. Le donne della scienza che racconto sono le mie eroine. E specchiandomi nelle loro vite vedo riflessa la parte di me stessa di cui prendermi cura come il più prezioso dei regali della vita.

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Courtesy Archivio Greison – ph. ©Marina Alessi

La vita come mezzo di conoscenza: con questo principio nel cuore si può non solo vivere valorosamente, ma anche vivere gioiosamente e gioiosamente ridere.” Con queste parole di Friedrich Nietzsche voglio sintetizzare ciò che si evince dalla vita di un’artista creativa con una weltanschauung  molto aperta e curiosa. Si può riflettere sulle implicite potenzialità della stessa. Ogni momento vissuto ci modifica. L’esperienza acquisita, sia positiva o negativa, aiuta ad intravvedere  sempre nuovi orizzonti e vivere la vita come una sorta di avventura e crescita,  a trovare quella forza che ci aiuta a ri/trovare nuovi percorsi alternativi. Ma con un grande faro davanti ai nostri occhi la passione autentica aiuta a districare i sogni. E infine a realizzarli. E per usare le parole di Gabriella verso i ragazzi “non state dove non potete fiorire”.

Ringrazio a nome di Olbia.it Gabriella Greison per la sua gentile disponibilità nel permettere questa intervista. La rincontreremo questa estate nella rassegna letteraria estiva della Biblioteca Sempliciana – Sul Filo del Discorso – con un nuovo brillante monologo teatrale. Non mancate!

©Lycia Mele Ligios 2019

Il profeta della modernità in mostra al MAN di Nuoro: Pierre Puvis De Chavannes

Dopo le celebrazioni per i  vent’anni  della fondazione – che in soli tre giorni hanno registrato oltre 1000 visitatori, – il Museo MAN propone tre  percorsi per la nuova stagione espositiva dal  15 marzo al 9 giugno 2019: una preziosa retrospettiva del grande artista francese del 1800, Pierre Puvis de ChavannesAllori senza fronde”; una mostra dal titolo “Personnages” su un’artista palestinese, amica del grande astrattista Mark Tobey, Maliheh Afnan,  in Italia poco conosciuta che libera significati di universalità, dignità e memoria storica,  un linguaggio visivo, oserei grafico,  dalle tonalità argillose,  bruciate, volti con tratti deformi,  misteriosi, molto espressivi di una sofferenza patita, resa da segni, linee quasi  spezzate che ricordano il dramma della diaspora subita;  infine “Il segno e l’idea”, l’esposizione di alcune opere, dell’inizio ′900, di alcuni artisti sardi della Collezione Permanente del MAN.

I curatori delle mostre sono, oltre al direttore Luigi FassiAlberto Salvadori, storico e critico d’arte,  per l’allestimento “Allori senza fronde” ed Emanuela Manca storica dell’arte del MAN per “Il Segno e l’idea”.

Ogni mostra rimanda a tracce del nostro passato tra riflessi di radici mediterranee, sfumature di intensità espressiva e segni che illuminano percorsi futuri. Ma ho deciso di scrivere tre articoli differenti pur nella consapevolezza che siano da considerare un unicum espositivo.

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Sottobosco c.a. 1870 – 1890 Courtesy Michael Werner Gallery

Avere in Sardegna una mostra del grande artista francese Pierre Puvis De Chavannes (1824-1898) é un evento straordinario per la rarità delle sue piccole opere, per il carattere didattico e antesignano delle stesse, presenti in mostra e soprattutto per aspetti figurativi e talvolta astratti riscontrabili in certi linguaggi visivi moderni e contemporanei.  Molti artisti, infatti, hanno attinto dal maestro tecniche, cromatismi, stesura colore, campiture.  Se andrete a vedere la mostra sarà divertente riconoscere  echi di Picasso, Gauguin, MatisseBalthus e altri artisti del ′900.

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Le Revermont c.a. 1870 – 1890 Courtesy Michael Werner Gallery

Purtroppo é ancora poco conosciuto e, nei testi scolastici, marginale. In Italia l’ultima sua mostra fu realizzata a Venezia nel 2002.  Forse perché il suo nome é legato a grandi opere murali che gli venivano commissionate per istituzioni,  musei e biblioteche, a Lione, Parigi, Marsiglia, ma anche all’estero, a Boston nella Public Library? Oppure  a tele singole ma sempre di grandi dimensioni? O per il suo antiaccademismo, anzi oserei anti ‘ismo’ in genere? Puvis De Chavannes è sempre stato un artista indipendente e coerente con il suo pensiero. Qui risiede quell’unicità e libertà della sua arte che svuota il significato del tempo ma acquisisce forza nell’applicazione e nello studio febbrile. Il suo amore per la pittura era quasi una devozione, come si evince dalle opere in mostra, instancabile e fedele alla ricerca della pura bellezza ed espressività con il colore.

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Bozzetto per lo sfondo di Visioni Antiche, 1884 – 1885Courtesy Michael Werner Gallery

Si avvicinò al mondo dell’arte in modo casuale. Nato a Lione nel 1824, il padre avrebbe desiderato che diventasse ingegnere come lui. Ma inseguito ad alcuni viaggi in Italia, venendo a contatto con gli artisti fiorentini del trecento, del quattrocento, i veneti del cinquecento, Raffaello, i seicentisti, iniziò ad apprezzare la bellezza dell’espressione artistica. Ciò lo spinse ad abbandonare gli studi per dedicarsi completamente all’arte. Fece un secondo viaggio in Italia per  studiare e  approfondire  le tecniche pittoriche, sempre più coinvolto emotivamente dal contemplare i grandi affreschi di Giotto e Piero della Francesca. Rientrato in Francia fu allievo presso gli atelier di vari artisti tra i quali Henri Scheffer, Eugène Delacroix e Thomas Couture ma sempre insofferente. Aveva le sue idee e le indicazioni degli altri non le tollerava. Si dice che con Delacroix spesso discutessero di questioni inerenti alle scelte cromatiche. Puvis amava utilizzare cromatismi tenui, eterei, diafani mentre Deloicroix amava i colori accesi, brillanti, forti e decisi. Alla fine continuò i suoi studi all’École des Beaux Art. Ma ebbe difficoltà ad inserirsi nel mondo artistico del periodo, per uno stile e linguaggio espressivo personale, distante dai canoni imposti dall’Académie française, peraltro molto rigidi. La sua futura moglie, la principessa Cantacouzène riconobbe che aveva del talento e lo aiutò ad affermarsi come artista.

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Schizzo per Il tagliapietra, 1892  – Courtesy Michael Werner Gallery

Iniziò a realizzare grandi opere murali legate a tematiche sociali del periodo storico in cui viveva – la  guerra, la pace, il lavoro. – In un secondo periodo invece, le opere diminuiscono le dimensioni e ciò che viene ritratto sembra ascriversi al di fuori di ogni sfumatura temporale. Si respira una sorta d’immobilismo in presenza di paesaggi bucolici. Quasi una “via di fuga” l’asimetria con rime armoniche e il recupero di una tradizione classica legata alla bellezza, alla purezza, all’eternità. Meno tematiche nazionaliste, ma schemi strutturali che esprimono una sospensione dello scorrere del tempo.

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Rivage, 1870 – 1890 – Courtesy Michael Werner Gallery

Le opere in mostra sono circa una novantina e comprendono disegni, schizzi, bozzetti, oli e acquarelli. Provengono da collezioni pubbliche e private internazionali. Hanno un valore  inestimabile perché ci aiutano a comprendere come il grande Puvis De Chavannes realizzasse le sue opere.  Un po’ stramare il tessuto, per capire la disposizione dei punti e fissarlo nella bellezza di uno studio o di un’intuizione. Vedere il grande talento nella resa finale dell’opera e quindi la capacità di integrarle in un opera architettonica in modo armonioso, che non appesantisse la struttura, che evidenziano una preparazione accurata  e meticolosa e  anche la libertà alla quale l’artista ha sempre aspirato nel realizzare opere su commissione. Era un uomo amato e stimato, molto disponibile con i suoi allievi ai quali insegnava a scrutare la “bellezza nell’anima delle cose”.

Tante le opere che preannunciano correnti più contemporanee quando il disegno scompare e appare il gioco del colore, quei cromatismi che danno forza espressiva. Oppure alcuni volti interpretati soggettivamente e altri che sfiorano un delicato realismo. Le figure solide si staccano da  campiture dense, opache forse di evocazione neobizantina. Una mostra che é una scoperta anzi riscoperta di un’artista dall’animo sensibile e, per utilizzare un verso di Emily Dickinson,  ‘un’anima al cospetto di sé stessa finita infinità’  che ha dato volto al tempo sospeso intriso di solitudini e malinconie. Nostalgia di un passato, dove bellezza è luce d’infinito.

Guazzo per Porta d’Oriente a Marsiglia 1868 – 1870 Courtesy Michael Werner Gallery

Eccellente il format editoriale del catalogo monografico  – dal color  rosa pallido gessoso amato dal maestro De Chavannes – impreziosito dalla cura delle descrizioni  e dalle bellissime ed intense riproduzioni delle opere, edito dal Museo MAN  in collaborazione con Michael Werner, con testi di Louise D’Argencourt,  Bertrand Puvis de Chavannes  e dei curatori, Alberto Salvadori e Luigi Fassi. Un vero gioiello!

©Lycia Mele Ligios

MAN – Museo D’Arte della Provincia di Nuoro

Via Sebastiano Satta 27, Nuoro

Orario continuato: 10 – 19 | lunedì chiuso

 

Carnevale di Tempio Pausania 2019: “edizione storica” tra esperienza e innovazione

Durante l’inverno nella graziosa cittadina di Tempio Pausania,  situata ai piedi del monte Limbara nel centro della Gallura, si organizza un Carnevale, per un periodo di  sei giorni, da giovedi grasso a martedi, tra i più divertenti e coinvolgenti della Sardegna.

È una festa mobile che si svolge generalmente tra febbraio e marzo, legata alla ricorrenza cristiana della Pasqua. Mesi di freddo intenso nei quali spesso nevica, rendendo il paesaggio più onirico che reale. Un vero incanto.

Ma lo stato del tempo poco incide sulla manifestazione per la caparbietà e la determinazione che caratterizza i tempiesi.   Infatti sorprende e contraddistingue lo spirito degli abitanti: un’energia che non conosce fatica, una vitalità mista a frenesia, un desiderio di divertimento sfrenato. Sentono e vivono questa festa come un rito dal quale  non ci si può astenere, anzi, tutta la popolazione ne rimane coinvolta.

Una ritualità che evoca antiche tradizioni. Troviamo echi del Carnevale nell’antica Grecia con le Dionisie in onore a Dioniso, dio del vino e della vita – intesa come vitalità, forza creatrice –  in cui tutta la comunità si fermava per partecipare attivamente e si abbandonava ad una sorta di euforia.

DSC_7074Re Giorgio, il re del Carnevale Tempiese 2019 – ph. ©LML

Successivamente nell’antica Roma si celebravano le  Saturnali in onore di  Saturno,     – divinità legata al ciclo vita-morte corrispondente alla divinità greca Cronos, dio del tempo –  di cui Marziale, Ovidio e altri autori latini scrissero nelle loro opere. Queste feste erano caratterizzate da un gran caos, confusione, dall’articolarsi di un mondo alla rovescia. I divieti o imposizioni ai quali fino a quel momento si ubbidiva,  venivano revocati. Si abbandonavano sovrastrutture che creavano malcontento e disagio. La libertà si esprimeva in ogni sua forma. Anche la struttura sociale veniva ribaltata. La società si armonizzava, si annullavano differenze di classe anzi alle volte si assisteva ad uno scambio dei ruoli. Si diveniva più solidali, più socievoli.

Il tema “Confusione” è stato scelto per il Carnevale di Tempio 2019.  Ho apprezzato molto questa scelta perché la parola, come significato/simbolo, rafforza il legame con la più antica tradizione ovvero con le antiche feste pagane  greco-romane,  le cui sfumature sono ancora ben visibili nella tradizione del Carnevale Tempiese. La parola di derivazione latina:   “con” insieme “fusus” fuso implica l’effetto del mischiare insieme. E questo è lo spirito che contraddistingue, per tutta la sei giorni, il carnevale: le differenze svaniscono in nome della libertà di pensiero, di ceto sociale, di genere. Una sorta di follia collettiva che in apparenza potrebbe sembrare priva di  senso, ma in alcuni casi, come vedremo dalle significative allegorie dei carri, è legata a pura razionalità e concretezza.

DSC_7109Mannena, moglie di Re Giorgio –  ph.©LML

I maestri carrascialai hanno svolto il tema con competenza. La realizzazione dei carri allegorici è stata lunga e impegnativa:  il disegno,  la struttura, la preparazione dei calchi,  la cartapesta,  le parti  meccaniche,  la decorazione e la finitura. L’abilità tecnica acquisita da anni di esperienza si evince nella ricerca di una tridimensionalità tipica della scultura, con intagli e sbalzi realizzati con molta attenzione, una lavorazione certosina, meticolosa. Il linguaggio cromatico è armonico, luminoso, vellutato. L’esito finale delle opere lascia spazio ad un equilibrio di proporzioni, di gradevolezza nelle forme e nelle palette scelte dai decoratori. I carri allegorici appaiono esteticamente molto curati. Oggi l’esperienza dei maestri carrascialai maturata negli anni è divenuta più completa e strutturata. Inoltre si assiste al passaggio di eredità delle conoscenze acquisite. I figli dei maestri proseguono il lavoro dei “padri” arricchendolo con nuove idee, nuove ricerche. Un lavoro encomiabile. Tutti volontari, ogni anno migliorano i propri linguaggi artistici. Non ci si inventa carrascialai, sono necessari tanti lunghi anni di apprendistato, di esperienza, di applicazione, senza tralasciare manualità e creatività.

Quest’anno sotto la direzione artistica del creativo Alessandro Achenza, – uomo scrupoloso e attento nel curare i più piccoli dettagli, di grande simpatia e umanità, con un’esperienza pluriennale nell’organizzazione di eventi   –  abbiamo assistito ad un Carnevale che merita di esser ricordato per la bellezza dei carri allegorici, per la puntuale  organizzazione e per la satira frizzante e intelligente.

Infatti la satira è un altro elemento che contraddistingue il Carnevale. Si ha una presa di coscienza collettiva dei problemi che affliggono la società.  Si elaborano  con ironia e  si denunciano proprio per quello spirito di ribellione, caratteristico del carnevale, in cui tutto è concesso. Il desiderio, nascosto sotto quel velo di sottile follia è  quello di cambiare e migliorare la qualità di vita di tutti. Dai latini ancora una volta un grande insegnamento “Ridentem dicere verum: quid velat?” Chi vieta di dire la verità scherzando? come scriveva Orazio nelle Satire.

Tanti i carri e i gruppi mascherati che hanno espresso con interessanti allegorie uno dei più gravi problemi che affligge il nord Sardegna legato alla Sanità. Con  l’apertura di un secondo ospedale ad Olbia,  il Mater,  altri ospedali rischiano di chiudere o ridimensionare il numero dei reparti; il numero del personale, – con grave disagio per gli utenti che devono percorrere lunghe distanze per un semplice esame diagnostico; – i ricoveri in cui si rende obbligatorio il trasferimento per mancanza di posti letto. Purtroppo,  tra questi c’è l’ospedale di Tempio Pausania.

Tra i vari gruppi “Mater Qatarru” si è distinto per satira e  creatività. Nel carro     figurativo c’era un viso sorridente, forse di chi ha appena commesso qualche furbata, vestito da emiro, seguito dalla sua corte con costumi molto belli e  curati.  Lo stesso gruppo ha realizzato una canzone che si può ascoltare su You Tube, inoltre, una ballata in rima che riporto integralmente perchè divertente, ben scritta che implica grande impegno nella scrittura. Con poche parole si è cercato di sintetizzare il malessere dei cittadini tempiesi, ormai, stremati da una situazione divenuta  insostenibile. Un brutto incubo di memoria kafkiana a cui è difficile credere.

Han sottratto posti letto/ senza minimo intelletto/ Han donato ai Qatarini/ tanti nostri bei soldini/ Arru il gran devastatore/ ha lasciato un gran fetore/ Mater Olbia ormai una reggia/ gli altri solo una scorreggia/ se ti ammali son dolori/ non si trovano dottori/ ma se hai un bel conto in banca/ l’assistenza non ti manca/ ci hanno tolto un gran diritto/ in virtù del gran profitto/ sul qatarru ruota tutto chi ha deciso è un farabutto.”

Il riferimento alla politica cittadina, subordinata ad una certa incompatibilità tra gli abitanti dello stesso palazzo, viene evidenziata nel carro Tempio Horror Circus – Lo show dei fenomeni –  in cui seguendo una satira che riflette il luogo comune del Carnevale, quale mondo alla rovescia troviamo il palazzo comunale divenuto un circo in cui gli animali hanno sembianze umane ma  enfatizzate forme caricaturali, che alla stregua degli animali si “esibiscono” in pericolosi giochi di potere. La figura femminile che sgambetta con tre gambe in posizione capovolta, sembra dimenarsi perché vorrebbe occupare la pedana più alta. Se i politici vengono definiti da natura animalesca di predominio e prevaricazione, in contrapposizione il popolo prende in mano la situazione e insorge perché stremato, e tutti s’improvvisano domatori di fenomeni da baraccone.

DSC_7333Tempio Horror Circus – ph.©LML

Un carro allegorico ben decorato che evidenzia l’antico sapere – con la presenza di libri rilegati in pelle a ricordare vecchi tomi di biblioteche storiche, – e alcuni simboli degli anni 90, è stato realizzato da Quelli del Karnevale. Il tema scelto La storia degli anni 90. Ho avuto modo di intervistare il rappresentante del carro e sono rimasta piacevolmente sorpresa dalle sue parole:

“Il sapere degli anni 90 non era su internet bensì sui libri. Sono nato nel 1988 e ricordo che quando ero piccolo con i miei amici giocavamo in piazza, all’aria aperta. La tecnologia ci ha distrutti, abbiamo perso la semplicità e i valori di una volta. A quei tempi c’era la lira come moneta ufficiale, il potere d’acquisto era maggiore. Si stava meglio. Tutti stavano meglio. Abbiamo pensato di ristamparla”.

DSC_7218DSC_7213La storia degli anni ’90 – ph.©LML

Parole che esprimono nostalgia, consapevolezza di una svolta epocale, che non ritornerà più. Internet ha permesso la globalizzazione, annullando le distanze, velocizzando l’acquisizione di nuove idee, ottimizzando conoscenze ma ha creato tanta solitudine, smarrimento e tanta insofferenza nei giovani. È necessario dare un orientamento ai più piccini, valutare tempi e modi di utilizzo per evitare l assuefazione e rimanere intrappolati nella rete. La stoffa dei costumi coloratissimi riflette la Pop Art con un fumetto le cui parole raddoppiate rafforzano la probabilità del desiderio/sogno di un passato che magicamente possa ritornare:  “Edizione straordinaria, edizione straordinaria sono tornati gli anni ’90”.

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La Storia degli anni ’90 – ph. ©LML

Dopo questo flash back – che induce a riflettere sulla capacità di analisi, sulla consapevolezza dell’evoluzione socio-economica  e sulla  maturità mostrata dai ragazzi, tutti giovanissimi, che hanno raffigurato uno spaccato di vita degli anni ’90, peraltro in modo molto realistico, – un’altro carro The Crazy Carnival  allude alla teoria della femminista Donna Haraway e propone come significati Il manifesto cyborg. Il riferimento penso sia legato alla nostra contemporaneità in cui il dualismo per esempio di genere viene superato in quanto tutto è riconducibile all’unità. Tra echi ermeneutici e filosofici questo carro induce a profonde riflessioni. I nostri confini di esseri umani sono stati modificati dalla scienza e dalla tecnologia. La studiosa analizza nella sua teoria il superamento uomo/macchina. L’uomo è divenuto un Cyborg. Anche il genere unificato prende atto di questa trasformazione. Un tema legato alla fantascienza a cui forse si contrappone il desiderio di semplicità, autenticità, valori, propri delle comunità  di altri tempi.

DSC_7704Il manifesto Cyborg (particolare) – ph. ©LML

Un carro molto curato nei dettagli. Al centro una figura irreale, un volto con lineamenti androgini, che evoca un robot. Una maschera che ha perso l’anima con gli occhi accecati dall’irrealtà dei suoi stessi sogni. La nostra società ci sta  trasformando in esseri irriconoscibili.  Non abbiamo più sembianze umane, subordinati alla forza travolgente di ciò che sta limitando le nostre capacità intellettive e disgregando società. Un tema antropo-sociologico interessante che denota originalità e ricerca.

Un gruppo storico, tra i maestri carrascialai, è quello de ‘La Cionfra’. Un termine dialettale che esprime quella satira arguta, spiritosa propria del Carnevale. Il tema proposto ‘È arrivata la mamma di lu solisi focalizza sul ruolo dell’antropomorfismo proprio delle tradizioni popolari.  Il tema rappresentato dal carro esprime energia e positività, allude al desiderio di un cambiamento. Ovvero, se la situazione politica locale non cambia, si provvederà a far un bel falò del palazzo comunale e di tutti i suoi abitanti. Dalla tradizione popolare si evoca la leggenda  “la mamma di lu soli”, raccontata ai  bambini quando la vita sociale si svolgeva “in carrera” – ovvero nelle strade – e  nelle piazze. Una consuetudine, ormai caduta in disuso, era quella di riposare dopo pranzo, specialmente durante l’estate, per recuperare energia e affrontare il resto della giornata. Per evitare che i bambini giocassero per strada con urla e schiamazzi si intimava loro il divieto di uscire. Infatti si raccontava che  per le strade si aggirava la terribile mamma del Sole che avrebbe bruciato o rapito tutti i bambini che avrebbe incontrato  per la via. In questo carro è concettualizzata la finalità del Carnevale quando alla fine della sei giorni, tutto il malessere cittadino viene attribuito al Re del Carnevale e, non prima di esser processato, verrà mandato al rogo. La mamma di lu soli interverrà bruciando tutto, per ricominciare un nuovo periodo più felice,  mentre  a Re Giorgio  si attribuiscono tutte le colpe diventando capro espiatorio dell’intera comunità. Il fuoco è quell’elemento che permette alla comunità di salvarsi, di riprendere la vita nella sua quotidianità e  prepararsi per la prossima festa.

DSC_7561È arrivata la mamma di lu soli – Ph. ©LML

Il carro è scenograficamente molto bello. Assistiamo ad una visione frontale che invade i nostri sensi, in particolare la vista, per una gradazione cromatica vivace. Nella palette dall’arancio al giallo si vedono altre sfumature che danno leggerezza e corposità alle pieghe del vestito. Con la raffigurazione dei raggi solari prevale l’asse verticale. Il linguaggio visivo esprime l’antropomorfizzazione del sole e di sua madre: una fantasia di personaggi inventati.  Si sente l’esigenza di sdoppiare il sole –  o forse suo fratello? – quasi per rafforzarne l’intensità dei refoli di vento caldo che provocheranno la fine di un disordine non più tollerato.

DSC_7596È arrivata la mamma di lu soli – Ph. ©LML

Il gruppo I Vampiri, ha preferito vagar per mare con il tema “I pirati del governatore” e hanno realizzato un  carro che allude alla speranza, alla voglia di superare le vicissitudini di una vita politica regionale alla deriva. E così con il neo eletto governatore della Sardegna al centro di un veliero molto colorato forse ci si illude di raggiungere il tanto sospirato Eden in cui l’amore trionfa e “dove scorrono fiumi di latte e miele” o forse fiele?

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I pirati del governatore – ph.©LML

La caricatura del personaggio riflette un’estetica buonista? Chi governa sembrerebbe un uomo affascinante, con un sorriso che ammalia. Vedremo se i nostri pirati arriveranno alla loro meta. Il gruppo aveva come protagonisti tantissimi bambini che hanno eseguito le coreografie in modo eccellente, ben preparati. Anche i costumi erano molto belli e curati.

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I pirati del governatore – ph.©LML

Spesso i temi dei carri rimandano a personaggi della politica locale o nazionale. Oppure, rivisitano situazioni di vario carattere legate alla contemporaneità. Tra questi si è distinto il carro del Gruppo Folk Città di Tempio con il tema Missione Monna Lisa. Il riferimento culturale  potrebbe prender spunto dall’anniversario della morte del grande Leonardo. Per i 500 anni dalla sua  scomparsa in tutta Italia si allestiscono mostre, si organizzano eventi e simposi per celebrare le sue scoperte, i suoi disegni, le sue opere pittoriche, la sua infinita creatività.   Così  sulla scia di questi eventi si desidera recarsi in Francia per riprendere il celebre dipinto – che lo stesso Leonardo aveva venduto a Francesco I insieme ad altre sue opere. – Sul carro della spedizione abbiamo un bel busto di Leonardo Da Vinci con elementi di alcuni suoi progetti:  una ruota, un prototipo di ala   e  in primo piano il quadro in cui è ritratta Mona Lisa che per l’occasione ha perso quel mistero che avvolge il suo viso,  sguardo fisso, nessun accenno al sorriso enigmatico, un’atteggiamento di sfida, mentre Leonardo esprime visivamente la sua grande preoccupazione. Una missione irrealizzabile ma una bella idea, concepita con arte: dalla meticolosità con cui è stato realizzato il carro all’abilità sartoriale nel confezionare costumi rinascimentali.

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Missione Monna Lisa – Courtesy ph. Carnevale di Tempio 

Anche l’Amore è stato protagonista del Carnevale con un carro che inneggiava all’amore universale, presenti i simboli delle più importanti religioni del mondo. Un carro  molto articolato dal titolo The Gospel Voice organizzato dal New Group. Le protagoniste raffigurate, donne di diverse religioni, cantano Gospel con Aretha Franklin contro la violenza sulle donne. Carnevale quindi può essere un momento di riflessione e di sensibilizzazione su temi che disorientano, sfuggono a logiche incomprensibili, come il femminicidio. Ecco l’urgenza di proporre un tema legato all’amore, che implica il rispetto totale nonché la libertà. L’Amore non è possessione, nè violenza, ma condivisione, confronto, dialogo, apertura. Nel retro del carro è disposta una scalinata con tante scarpe rosse. Pur essendo piccola, suggestiona, scalfigge sensibilità.  Una presenza/assenza che fa vacillare e cadere, per un contraccolpo di dolore. Intenso. Un intimare che l’amore non è uno scherzo ma un dono datoci dalla divinità che va tutelato sempre, per riflesso di quella scintilla di sacralità che è insita in noi.

DSC_7410The Gospel Voice – ph. ©LML

L’Amore unisce, si lega al concetto di uguaglianza, non contempla differenze. Davanti a Dio siamo tutti uguali. Sono legata ad una frase del Talmud che esprime l’importanza che ognuno di noi ha per il prossimo: “Chiunque salvi una singola vita, è come se avesse salvato il mondo intero; chiunque distrugga una singola vita, è come se avesse distrutto il mondo intero”. Il femminicidio è un uccisione di massa. Bisogna arginarlo con tutti gli strumenti che si hanno a disposizione. Un bel tema, è lodevole che questo coro gospel lo abbia evidenziato. Un ricordo per i tanti angeli andati via da questa terra troppo, troppo presto.

DSC_7415DSC_7412DSC_7421The Gospel Voice – ph. ©LML

Ogni anno partecipano nuovi gruppi con idee sempre più originali e ben elaborate.  Organizzare un Carnevale è un’arte che, oltre alla vena creativa, si deve avvalere di tanta esperienza.

Per motivi di spazio non posso scrivere di tutti i gruppi  ma voglio menzionarli, perché tutti hanno permesso che questa edizione sia stata veramente FANTASTICA. Desidero sottolineare che senza l’impegno, il sacrificio, le idee creative si sarebbe fatto ben  poco. Inoltre, voglio pensare che anche dal cielo sia stato dato qualche valido aiuto, con la “presenza” di tanti carrascialai che il Carnevale lo custodivano nella loro anima.

Ecco i nomi di altri gruppi partecipanti con il tema proposto: La Tribù:  Due galli in un pollaio;  La Vecchia Guardia : I giullari;   Compagnia di San Giuseppe:  Gli egiziani: la maledizione di Tutankamon;   La gioventù del Carnevale; Per il viaggio;   I fantastici 5Gruppo last minute; Li scasciati :Mamma Disney ;  Li ciuanotti; Quattro mori; Pijamas’ world; Gli anomalia. Carri ospiti di altri comuni galluresi: Comitato carrasciali trinitaiesu; B-team Badesi : Eternal Playboy; Comitato di Vignola:  transformer la vendetta del caduto; Carnival passion : temenos l’inconscio.

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©ph. LML

I costumi realizzati con cura e  attenzione ai dettagli rappresentano una ricostruzione storica non opinabile, né superficiale ma riflettono autenticità e realismo. Un altro elemento da considerare è l’abilità dei figuranti, grandi e piccini, nel cimentarsi in coreografie a volte  complesse. Un risultato che richiede impegno ed esercizio. È lodevole la creatività applicata sul significato, sulla satira che si vuole comunicare, sul disegno del carro, sui costumi, sulle performance.

Nel complesso è stato un carnevale che ricorderemo, ma, vorrei esprimere un desiderio nella speranza che venga raccolto e trasformato in una “stella”: un Carnevale che sia un momento di distensione e riavvicinamento per tutti gli abitanti della Gallura. Un po’ come accade nella provincia di Nuoro. La concertazione aiuta a raggiungere risultati inaspettati. Impariamo a rispettarci e a collaborare. Così finalmente potremo parlare di Provincia Gallura e realizzare tutto ciò che resta solo parola.

©️Lycia Mele Ligios

Il Museo MAN residenza di artisti: dal Regno Unito per raccontare il Carnevale di Barbagia

L’arte crea ponti ma anche originali contaminazioni. Nuovi sguardi verso cose o situazioni a cui la quotidianità spesso non dà risalto. Sguardi che sembrano nascondersi per il ripetersi consuetudinario. Ma un artista che ha affinato linguaggi e sensibilità riesce a risvegliare, a “trasfigurare” quel mondo e mostrarlo sotto luci differenti, apparentemente diverse, che inducono a nuove interpretazioni, nuove indagini, nuove rivelazioni.

IMG_0928Gli artisti in visita al museo MAN di Nuoro con il Direttore Luigi Fassi
photo ©Barbara Pau

In un clima di ricerca, di approfondimenti orientati verso nuovi linguaggi artistici, nel mese di gennaio 2019, sono giunti nell’isola sei giovani artisti e filmmaker selezionati da FLAMIN – acronimo per Film London Artists Moving Image Network – nell’ambito dei progetti di residenza per artisti del Museo MAN e della Fondazione Sardegna Film Commission.

«La Sardegna è terra di ricerca e produzione, luogo magico capace di ispirare il lavoro degli artisti. Quando questi incontrano le nostre comunità, scoprono il patrimonio culturale e paesaggistico dell’isola e organicamente acquisiscono lo spirito di libertà e sacralità che è nel nostro DNA» afferma Nevina Sattadirettrice della Sardegna Film Commission – «Abbiamo rinnovato la collaborazione con il Museo MAN affiancando in autunno l’artista franco-ivoriano François-Xavier Gbré nel viaggio di ricerca sulla distopica relazione tra natura e modernità nell’isola. Ora, questa residenza induce ben sei nuovi sguardi a sostenere il racconto della tradizione più celebrata e nota, quella del Carnevale di Barbagia, avviando il programma di sperimentazione audiovisiva transmediale al confine fra arti visive e cinema, grazie alla partnership già in corso con la Film Commission di Londra. Creiamo così occasioni di formazione e produzione per il comparto dell’audiovisivo dell’isola e dopo questa prima fase che vede la presenza in Barbagia di artisti internazionali, seguirà un training di specializzazione in UK per un gruppo di video-artisti residenti in Sardegna».

Luigi Fassi, direttore del Museo MAN, sottolinea l’importanza del «progetto internazionale a lungo termine che rientra nelle intenzioni del MAN per rafforzare il proprio ruolo istituzionale di accompagnamento al lavoro degli artisti. Processi di internazionalizzazione mediante residenzialità e coinvolgimento di artisti, in termini di ricerca e produzione nel territorio regionale, hanno un ruolo crescente nell’attuale attività del MAN e questa partnership è un modello di lavoro esemplare di tale volontà operativa».

Anche la Film London con Maggie Ellis, responsabile della sezione Artists’ Moving Image evidenzia il ruolo di supporto della Sardegna Film Commission e del MAN per questi giovani artisti. Un supporto che li aiuterà a crescere e a maturare a livello professionale, non solo per ciò che concerne l’evoluzione del loro linguaggio artistico, offrendo loro una pluralità di esperienze qui nell’isola.

Ecco le sue parole a proposito del progetto sulla residenzialità e della preziosa collaborazione: «Le residenze artistiche sono spesso pensate come attività solitarie, per questo siamo lieti di riunire tutti e sei gli artisti con cui abbiamo lavorato quest’anno per partecipare a questa opportunità unica generosamente offerta dalla Sardegna Film Commission. La residenza darà loro la possibilità di espandere le proprie reti internazionali, confrontarsi con storie e luoghi sconosciuti e crescere professionalmente grazie alle partnership con la Sardegna Film Commission e il Museo MAN. Come il Regno Unito, la Sardegna è una piccola isola in cui le questioni che affliggono oggi l’Europa sono inevitabilmente presenti: questi artisti sono in una posizione perfetta per decostruire questa narrazione, superare le differenze e immaginare nuovi modi per andare avanti».

gli artisti ospiti del Museo MAN Courtesy FLAMIN

Graeme Arnfield, Calum Bowden, Rosie Carr, Callum Hill, Onyeka Igwe e Kristina Pulejkova sono i sei giovani residenti. Nel mese di gennaio hanno vissuto i primi riti del Carnevale barbaricino con i suggestivi fuochi di Sant’Antonio a Mamoiada.

Arrivati in Sardegna hanno visitato i territori, le comunità, il MAN, il Museo Etnografico Sardo e l’Archivio di stato di Nuoro. Successivamente hanno partecipato ai vari riti segnati da intensi momenti come la vestizione dei mamuthones e issohadores, maschere tipiche del carnevale barbaricino.

Il 27 febbraio sono ritornati nell’isola una seconda volta. Ora potranno raccogliere suggestioni degli antichi riti propiziatori o di liberazione del Carnevale nelle seguenti comunità di Lula, Gavoi, Ovodda, Orotelli, Ottana, Orani e Bosa. Infine prima della loro partenza, il 16 marzo 2019, verrà allestita una mostra con le loro opere. Un momento di condivisione con l’intera comunità che li ha ospitati.

La Sardegna continua ad esser fonte d’ispirazione con la bellezza dei luoghi e con i suoi antichi rituali. Cogliere le tradizioni con una sensibilità artistica è come se si volesse “vivificarle” nel fluire del tempo e, rese eterne contemporanee, fissarle sul fondo dell’anima.

 

©️LML

Olbia, 03 marzo 2019.

Ricky Albertosi, un testimone del calcio: tra l’arte nel parare e la sua semplicità

Il corpo può creare bellissime figure. Tensioni, slanci, allungamenti, torsioni che sfuggono alla nostra volontà se sollecitati da qualcosa di esterno, come potrebbe essere un pallone. La sinuosità, la struttura muscolare, l’armonia del movimento nel valore plastico evocano l’ideale di bellezza ed eleganza presente in alcune opere di Fidia, scultore  greco del  470 a.C. Una plasticità che emoziona e ci aiuta a capire il concetto di armonia/bellezza. Indissolubile. Questa  capacità di creare in modo del tutto inconscio, queste figure sospese, con il proprio corpo è ascrivibile al mondo dell’arte.

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Forte dei marmi 1959 Ricky Albertosi © Courtesy Archivio Albertosi Stringhini

Un grande “artista dei pali”, così definito, conosciuto in tutto il mondo, ma a cui noi sardi siamo affettuosamente legati per averci fatto sognare ed emozionare negli anni in cui giocava nel Cagliari è Enrico Albertosi, per tutti Ricky. Anni che hanno visto la squadra sarda vincere lo scudetto durante la 68esima edizione del campionato negli anni 1969 – 1970.

Ricordo la gioia di mio padre mista ad orgoglio identitario quando alludeva a questo risultato, allora ritenuto incredibile. Pur essendo molto piccola,  rivedo quella vittoria che ha segnato il cuore di tutti i sardi. In quegli anni non c’era attività commerciale, dalla macelleria al panificio, al negozio di generi alimentari o di frutta e verdura, che non esponesse i due  semplici fogli di giornale raffiguranti tutta la squadra vincitrice.

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1959 Partita d’esordio Fiorentina – Roma Courtesy Archivio Albertosi Stringhini

Quasi un risvegliarsi da un torpore. Si accettavano la nostra identità e le nostre tradizioni. Non ci sentivamo più come abitanti di un’isola relegata ai margini, terra di confino, di malaria, di banditismo. Dai racconti vissuti sembrava che il valore di una squadra venisse trasposto sugli abitanti. Un’improvvisa sensazione  di forza, di potere e di libertà. Un’acquisizione e consapevolezza di un valore intrinseco fino allora taciuto perché considerati “diversi”. Erano gli anni in cui la fioca luce del turismo diveniva sempre più intensa e la gente del “continente” iniziava ad apprezzare la nostra terra. Ricky Albertosi è stato testimone di quel periodo “evolutivo” in cui la Sardegna sembrava liberarsi da fardelli del passato e guardare con ottimismo verso un futuro migliore. Così ho pensato di intervistarlo.

Ricky vuoi raccontarci come hai vissuto quegli anni? Ti eri ambientato a Cagliari? Cosa pensavi dei sardi e della Sardegna?

Quando la Fiorentina mi vendette al Cagliari, io  ero molto restìo. A quel tempo si parlava della Sardegna come isola legata al banditismo, ai rapimenti di persona. Io ero sposato e avevo due bambini piccoli. Inizialmente ho avuto timore e  difficoltà ad accettare il trasferimento. Non  potevo rifiutarmi. Ma rimasi sorpreso. Trovai la città di Cagliari e un’isola completamente diverse da come venivano descritte al di fuori della Sardegna. Mi sono subito ambientato sia con i cagliaritani che con i compagni di squadra. Alla fine ero contento di aver accettato il trasferimento.

I sardi erano molto affettuosi, grandi sostenitori. Ricordo che mi chiedevano sempre l’autografo. Si percepiva l’abbraccio caloroso dei tifosi, una bella sensazione. La mia iniziale diffidenza svanì, anzi divenni consapevole sul valore dell’amicizia dei sardi. Se diventavi amico di un sardo e questi ricambiava l’amicizia, diventava un vero amico per tutta la vita. Alla fine mi sentivo uno di loro. Ho trascorso un bel periodo e non ho mai avuto nessun rimpianto.

Qual era lo stile di vita, i pensieri del periodo e  la vita sociale a Cagliari? Come percepivi la città?

Facevo pochissima vita sociale perché impegnato con gli allenamenti quotidiani e la mia famiglia. Frequentavo i miei compagni di squadra, anche loro sposati. L’unico amico estraneo alla squadra era Giovanni Manconi, il proprietario del Ristorante Lo Scoglio, eravamo diventati amici fraterni, ci vedevamo spesso con le nostre famiglie.

f09d1b84-f231-4bd0-8a93-fff9c3ec8367Albertosi nel 1959 a Firenze ©Courtesy Archivio Albertosi Stringhini

Se rifletti su quegli anni del periodo cagliaritano, con la saggezza di vita acquisita, hai rimpianti? 

Nella mia vita non ho mai avuto rimpianti. Ogni cosa è stata subordinata alla mia volontà. Apprezzo il mio passato con molta serenità e secondo il mio modo di vedere la vita, non ritengo di aver sbagliato.

Quando eri piccolo pensavi che saresti diventato un calciatore?

Sì, fin da piccolo “visualizzavo” me stesso come un calciatore. Mio padre era il portiere della Pontremolese, la squadra della città in cui sono nato e con mia mamma andavo al campo sportivo per vedere giocare mio padre. Era appena finita la guerra intorno al 1945, ero molto piccolo, avevo sei anni. Mio padre alla fine del primo tempo mi metteva in porta e mi tirava il pallone. Quel momento influì sulle mie scelte mi resi conto della mia passione nel ricoprire il ruolo del portiere. Così ho fatto il portiere per tutta la mia vita calcistica.

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Rientro dal Messico dopo aver vinto l’argento nei Campionati del Mondo 1970 ©Courtesy Archivio Albertosi Stringhini 

Era il periodo del calcio impostato sulla semplicità e sul talento. Allora più vicino al mondo dei tifosi. Oggi i giocatori,  parlo della serie A, sembrano appartenere al patinato mondo del cinema. Distanti da chi li sostiene. Cosa pensi al riguardo?

Hai completamente ragione. Oggi sembra che tutto sia loro dovuto. Ai miei tempi noi calciatori eravamo molto più umili. Alla fine della partita ci fermavamo a parlare con i tifosi e firmare autografi. Avevamo più attenzione nei loro confronti sia che ti applaudissero o che ti fischiassero. Loro partecipavano alla partita pagando un biglietto e se non ci fossero stati tifosi sicuramente non saremmo esistiti neanche noi.

Ti porto un esempio che evidenzia l’evoluzione del mondo che ruota attorno al calcio: ognuno di noi provvedeva a prepararsi la sua borsa, arrivati allo stadio eravamo sempre noi stessi a riporre gli indumenti negli stipetti o attaccapanni e sempre  noi ci pulivamo le scarpe dopo l’allenamento. Oggi arrivano allo stadio e trovano tutta la divisa compresa di biancheria ben disposta, e appesa negli appositi stipetti. Sono cose che non ho mai concepito.

Non voglio parlare strettamente dei tuoi passati calcistici, di cui ampiamente è stato scritto, ma vorrei parlare di te come uomo di oggi che ha vissuto esperienze straordinarie, lasciando tracce importanti nella memoria di persone in ogni parte del mondo. Spesso considerato una persona da emulare. Ma il tempo nel suo mutare ci cambia. Oggi alla veneranda età di quasi 80 anni nella tua vita qual è divenuto il valore più importante? Pensi spesso al passato?

Purtroppo il passato non torna più. Rimangono i bei ricordi. Oggi il valore assoluto è l’amore per la mia famiglia: per mia moglie Betty, donna veramente eccezionale, con la quale condivido la vita dal 1975, per i miei figli e i miei nipoti. Conduco una vita molto semplice e oltre a mia moglie dedico tutto il mio tempo ai miei nipotini,  Emma e Tommaso. Oggi mi interessa stare bene con la mia famiglia. È questo che mi rende felice.

1979 Ricky e sua moglie Betty Stringhini ©️Courtesy  Archivio Albertosi Stringhini

Un lato del tuo carattere che più ti piace e che gli altri apprezzano?

Penso sia la semplicità e l’umiltà che mi ha sempre contraddistinto.

Le circostanze che si palesano nella vita di tutti gli uomini causano fragilità o sofferenza emotiva. Anche tu non ne sei rimasto indenne. Pensi che quegli anni ti abbiano insegnato un nuovo approccio alla vita, ti abbiano modificato?

Certo,  ci sono stati momenti di sofferenza come nella vita di tutti, li ho sempre affrontati, consapevole delle mie certezze. La passione per il calcio è stata la mia più autentica vocazione e così ho iniziato a giocare in serie C anche se dopo due anni ho rotto i legamenti crociati. Avevo 44 anni e il mio fisico non mi consentiva di giocare. Dopo un breve periodo come allenatore di squadra, ho continuato ad allenare i portieri della Fiorentina. Era un ruolo che rifletteva ciò che avevo fatto nella mia vita per cui ero più incline ad insegnarlo. Questo fino ai 70 anni.

Ci parli dei valori necessari affinché una squadra possa lavorare bene e avere successo?

Penso che il valore principale sia l’amicizia tra la rosa dei giocatori. Non ci devono essere invidie  verso giocatori che sono più importanti. La squadra deve esser coesa, affiatata. Ci deve essere solidarietà tra i singoli elementi. Ricordo nel  periodo in cui giocavo con il Cagliari che Gigi Riva, giocatore importantissimo, aveva dei privilegi, ma nessuno di noi osava lamentarsi. È per questo motivo che il Cagliari è diventata una grande squadra e siamo riusciti a vincere il campionato.

Potresti raccontare ai nostri lettori, qualche aneddoto sulla vita di squadra, o sui ritiri, che richiedono sacrificio a livello affettivo? 

I ritiri ti allontanavano dalla famiglia per un paio di giorni. Alle volte si sentiva la nostalgia, specialmente se c’erano problemi. Onestamente con i miei compagni di squadra stavo bene.  È inutile nascondere che alle volte c’erano discussioni, confronti.

Ti racconto questo piccolo aneddoto. Durante i Mondiali in Messico come  nelle trasferte in Italia  condividevo la camera con Gigi Riva. L’allenatore della nazionale era Ferruccio Valcareggi che aveva un certo timore reverenziale nei confronti di Gigi a causa del suo carattere introverso, poco loquace. Il mister ci vedeva ogni 4 o 5 mesi per cui, non vivendo la quotidianità, gli sfuggivano determinate sfumature caratteriali dei calciatori poco estroversi. Ricordo che spesso mi chiedeva come stesse Gigi, se avesse dormito bene, se si fosse svegliato con animo sereno e se avesse potuto parlargli. Era un mister molto attento.

Ci sono stati mister, invece,  che durante i ritiri  entravano in camera all’improvviso per controllarti. Le uniche concessioni di svago erano il gioco delle carte e del biliardo. Quando giocavo con il Cagliari, durante la trasferta, poiché la squadra era molto affiatata, spesso ci ritrovavamo a giocare a carte sino a tarda notte. Giocavamo nella camera mia e di Gigi perché  fumavamo tanto. Gli altri venivano a guardare e si univano al gioco. Non tutti fumavamo. Ma nella camera stagnava il fumo.
Ricordo che eravamo a Roma all’Hotel Quirinale. Era circa mezzanotte e poiché avevamo fame ordinammo dei panini.  Dopo circa mezz’ora sentimmo bussare. Pensando fosse il cameriere aprimmo la porta e si presentò il mister Manlio Scopigno. Subito avvolto da un fumo intenso, irrespirabile. Noi imbarazzatissimi poiché colti di sorpresa, ci aspettavamo un rimprovero verbale, invece  inaspettatamente  ci chiese se anche lui potesse fumare una sigaretta insieme a noi. Alla fine ci disse: «Ragazzi finite i giri e poi andate a letto». Il giorno dopo vincemmo 4 – 0 con la Roma. Un altro allenatore ci avrebbe rimproverato e come da consuetudine multato. Ci avrebbe evidenziato la poca professionalità cercando di far emergere i sensi di colpa. Ciò avrebbe comportato minor resa atletica in campo poiché turbati dalle parole.

Ho avuto due grandi allenatori che capivano le esigenze di noi giocatori. Per esempio quando eravamo in trasferta durante il sabato io non amavo andare al cinema che era quasi una consuetudine. La giornata in trasferta era così suddivisa: la mattina allenamento, pranzo, riposo pomeridiano con sveglia alle 16 e poi cinema fino alle 19, cena, passeggiata e riposo notturno. Invece Manlio Scopigno durante il periodo del Cagliari  e Nils Erik Liedholm quando giocavo con il Milan avevano capito che non amavo andare al cinema.  Io avevo la passione per le corse dei cavalli. Per cui il sabato pomeriggio mi chiedevano sempre che cosa preferissi fare. Naturalmente dicevo loro che preferivo andare all’ippodromo. Mi lasciavano libero di scegliere. Grande atto di fiducia e comprensione. Come pochi. E aggiungevano “Ricordati che alle 19,30 si mangia” E così abbiamo vinto due campionati. Sono stati gli anni in cui ho giocato meglio perché  non c’erano tensioni, ti infondevano serenità e tranquillità. C’era rispetto e fiducia. C’era  attenzione al valore umano.

11 febbraio 1979 quarant’anni fa. Una data memorabile. Vuoi raccontarci le emozioni che provasti?

Ero nel Milan. Giocavamo contro l’Ascoli Piceno.   Ricordo che venne il Presidente e mi consegnò una targa in quanto avevo giocato 500 partite in serie A. Pur essendo in trasferta tutti i presenti si sono alzati in piedi ad applaudire. Ho sentito l’affetto del pubblico presente. Una bellissima emozione.

©️Courtesy  Archivio Albertosi-Stringhini

Un’altra data che nessuno scorderà il 17 Giugno 1970. Si disputa nello Stadio Atzeca di Città del Messico la semifinale dei Mondiali. Definita Partita del secolo, la miglior partita di tutti tempi. I messicani in ricordo hanno affisso una targa  all’esterno dello stadio. Raccontaci come hai vissuto quel giorno, le intense emozioni provate.

Disputavamo uno dei tornei di calcio più complessi, il Campionato del Mondo, in cui ti confrontavi con squadre eccellenti. C’era molta tensione.  Ma generalmente come si entra in campo e senti l’inno nazionale alla tensione subentra l’emozione. Ricordo che mi vennero i brividi, pervaso da una sensazione di invincibilità e dal desiderio di dare il massimo di me stesso in competenza e abilità senza fare errori. Venne definita “partita del secolo” perché ci furono delle circostanze veramente emozionanti.

Ad inizio partita avevamo segnato un gol e poi ci eravamo dovuti difendere per i restanti 90 minuti. Solo al 91 minuto Schnellinger che si stava oramai avvicinando verso l’uscita ricevette pallone  è riuscì a pareggiare. Tutti pensavano che noi perdessimo. Tutti dicevano che non eravamo capaci di reagire, che non tolleravamo la sofferenza. Invece abbiamo reagito. Dopo lo svantaggio per il gol subito siamo riusciti a pareggiare. Poi ancora un altro svantaggio ma subito ripareggiato. Quindi loro ci hanno raggiunti. Per colpa di Rivera che era sul palo a protezione della porta ha fatto passare la palla tra il suo petto e il palo e la rete, consentendo a Müller il pareggio. Io mi sono arrabbiato contro Rivera, sfogando la mia rabbia. Lui era rimasto abbracciato al palo e li batteva la testa disperato . E disse “ Ora per rimediare posso solo andare a fare goal” È così è stato. Con quattro passaggi nei tempi supplementari,  fece un goal straordinario, per freddezza e lucidità. E siamo arrivati in finale trovando un Brasile stratosferico. Abbiamo retto 60/70 minuti. Poi eravamo molto provati dalla partita con la Germania e  siamo crollati.

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©️Courtesy  Archivio Albertosi-Stringhini

Tra i periodi vissuti nelle varie squadre quali sono stati quelli che  ricordi con gioia, che  hanno lasciato segni profondi nella tua memoria?

Ricordo con immensa gioia la vittoria dello scudetto con il Cagliari e poi lo scudetto della stella a Milano. Lo scudetto vinto con il Cagliari fu importante anche da un punto di vista sociale. La gente non pensava più all’isola come luogo di banditi e criminalità. Cambiò il giudizio delle persone sulla Sardegna. Per me è stata una gioia immensa partecipare a far cambiare la mentalità nella penisola. Siamo rimasti nella storia. Al momento non penso che il Cagliari possa vincere qualche altro scudetto. Quello è stato un anno meraviglioso. Indimenticabile.

Invece giocavo nel Milan nel periodo più brutto della sua storia. Cambiava spesso Presidente. Il primo anno come allenatore c’era Giagnoni, un brav’uomo. Un uomo molto corretto, vero amico. Leale e rispettoso nei confronti di tutti. Ma anche noi lo eravamo nei suoi confronti. Non faceva distinzione tra un giocatore più o meno importante.
Ricordo che avevamo perso contro il Torino 1-0. Claudio Sala giocava nel Torino e Gianni Rivera nel Milan.  Il presidente disse: «perché non facciamo cambio tra Claudio Sala e Gianni Rivera?». Rivera fu risentito da queste parole e non venne agli allenamenti per una settimana. Quando Rivera tornò, Giagnoni molto arrabbiato gli disse queste parole: «ora vai ad allenarti con la Primavera». Per 15 giorni venne punito allenandosi con la Primavera del Milan. Da quel momento Rivera iniziò a fare la guerra all’allenatore e al Presidente. Riuscì a mandarli via. Così ogni anno cambiavamo presidente per incompatibilità perché comandava Rivera. Infatti anche quando sono andato via dal Milan, la squadra ha continuato ad avere problemi.

Berlusconi quando comprò il Milan disse chiaramente che non voleva Rivera. Con Berlusconi sono arrivati grandi giocatori olandesi e il Milan in un ambiente sereno e coeso è diventata una squadra forte e vincente.
A parte queste vicissitudini sono orgoglioso di aver vinto lo scudetto della stella. Il Milan non lo vinceva da tanti anni. Ci siamo riusciti con una squadra modesta, non eccezionale.

Tutti parlano del tuo stile nelle parate, memorabili e impeccabili. Io aggiungo eleganti, aggraziate, quasi figure rubate alla danza. Parate in cui c’è Arte: quella creatività che emoziona e che sfiora una bellezza scultorea. L’International Federation of Football of History & Statistics, ente che documenta le statistiche del calcio, ti ha inserito tra i migliori portieri del mondo. Un risultato fantastico, che riempie d’orgoglio tutti gli italiani. Secondo te per raggiungere prestazioni elevate nell’ambito calcistico quale elemento tra la preparazione, la predisposizione o inclinazione personale, ha valore prioritario e perché?

Tutti gli elementi che citi devono esser presenti.  Inoltre aggiungo saper soffrire e non demordere mai. Se uno possiede le qualità, prima o poi emerge, anche se trova davanti a  sé giocatori favoriti da altri. Personalmente ho sofferto nel periodo calcistico della Fiorentina. Venivo da due anni trascorsi a La Spezia. Avevo 16 anni frequentavo la scuola. Dovevo alzarmi alle 5.00 perché alle 8.40 dovevo essere a lezione. Terminavo alle 12.40,  pranzavo,  facevo allenamento dalle 14.30 alle 16.30 e alle 18.00 prendevo il treno per esser a casa intorno alle 20.00. Questo sacrificio di vita è durato per due lunghi anni in quanto in terza superiore ho dovuto lasciare. Mi aveva acquistato la Fiorentina, essendo una squadra professionistica gli allenamenti erano di mattina e pomeriggio per cui era difficile conciliare lo studio con le tante ore assorbite dagli allenamenti. Avevo 18 anni.

Ho sofferto nel senso che ho saputo attendere il mio turno, perché sapevo che prima o poi sarebbe arrivato. Me lo sentivo. Ne ero consapevole. Davanti a me c’era un portiere che si chiamava Giuliano Sarti. Era molto bravo. Io giocavo in Nazionale. Avevo esordito a Firenze contro l’Argentina – come riserva portiere della Fiorentina –  era  il 1961 e avevamo vinto 4 -1. Quando rientravo dalle partite con la Nazionale Sarti mi diceva: «ascolta tu sarai il portiere della Nazionale ma io sono il portiere della Fiorentina. Finché ci sarò io farai solo la riserva». Io non replicavo, accettavo silenziosamente, voleva farmi crollare. Ma io non demordevo, mi sentivo di avere delle qualità, ero consapevole che sarei potuto arrivare in alto. Nel 1964 lui andò via e io divenni portiere titolare della Fiorentina fino a quando non fui venduto al Cagliari.

Ritengo che sia importante avere dei validi riferimenti affettivi per condividere e per supportarsi nell’altalenìo della vita. Accanto a te c’è la donna di sempre, Betty Stringhini, manager di rilievo di una nota azienda italiana. Betty era molto giovane quando iniziò a frequentarti. Eravate molto impegnati nel lavoro. Distanti ma sempre accanto. Come siete riusciti a proteggere e rafforzare il sentimento che provate l’uno per l’altra?

L’amore è alla base di tutto. Abbiamo camminato insieme rispettandoci l’un l’altro. Abbiamo caratteri diversi. Ognuno ha il proprio gusto. Amiamo il confronto.  In sintesi ci compensiamo. E permettimi di dire a tutti gli uomini che le donne vanno rispettate sempre, basta con la violenza. La comprensione e il confronto permettono di crescere insieme.

Tu e tua moglie apprezzate la nostra terra. Ormai la maggior parte delle vacanze la trascorrete qui in Gallura. Che cosa vi ha spinto a scegliere la Sardegna come terra di adozione?

Conoscevamo la Sardegna. Dopo un prima casa a Porto Cervo, desideravamo trovare un angolo più tranquillo che permettesse una vita semplice a contatto con la natura incontaminata e il vostro bellissimo mare così abbiamo scelto una località vicino Olbia. Inoltre conoscevo ormai bene la gente sarda. Sono sempre stato attratto dai vostri valori, dalle vostre tradizioni e cultura. Sono valori importanti che non si trovano ovunque. Un amico sardo è un amico per sempre.

Enrico Albertosi – Courtesy ph. Federico De Luca

E con queste parole importanti finisce l’intervista ad un grande uomo del calcio. Ringrazio Ricky Albertosi per questo bellissimo viaggio nel passato meno calcistico forse più umano. Tanti elementi su cui riflettere specialmente per chi sta intraprendendo la carriera di calciatore. Oggi Ricky è un uomo che sulla soglia degli ottanta anni guarda al passato con nostalgia e gratitudine ma pur sempre attento alla contemporaneità. Allora temerario, determinato, invincibile, umile oggi è una persona semplice, saggia e altruista. Ieri seguito da numerosi fans e oggi conteso da due piccoli fans i suoi due nipotini Emma e Tommaso. Sono loro che permettono che la vita acquisisca una nuova magia, che il passato decanti nel cuore e che i bellissimi ricordi predispongano alla speranza, alla vita.

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