A GAVOI è “Bloomday” | MAN_Museo presenta opera di Miroslaw BALKA che celebra JAMES JOYCE

Non era un giorno qualunque. Era un giorno che diverrà un  punto chiave della nostra modernità. La descrizione di una lunga giornata saltellando dentro e fuori i pensieri dei protagonisti, in un tempo privo di confini, per ritrovarci travolti da fiumi di parole  o meglio definito  “stream of consciousness” – flusso di coscienza – pensieri in libertà come si originano nella coscienza senza ordine logico. E con un viaggio all’interno di se stessi si rifiniva un nuovo abito di scrittura creativa. Si direbbe. In tanti l’avrebbero indossato, minuzzato e adattato a sé. 

Era un giovedì 16 giugno 1904.  Forse, alcuni ricordano questa data oggi divenuta simbolo di modernità, nell’ambito letterario, per la nascita di nuova forma di romanzo non  più soggetta a  rapporto di causa ed effetto come voleva la tradizione precedente. Nasceva il romanzo psicologico del ‘900.

Il giorno, “luogo” di scena che sembra non conoscere confini, è tratto  dal suo romanzo più famoso l’Ulisse dove si raccontano le 24 ore trascorse dal suo antieroe Leopold Bloom.

Lui è lo scrittore più rivoluzionario ed innovativo che la storia  della letteratura ricorda: James Joyce (Dublino 1882 – Zurigo 1941). Un autore che intimorisce per l’esuberanza di una scrittura esplosiva, complessa, a tratti ostica.

Dublino, Città della Letteratura per l’Unesco, rivive l’atmosfera di quel giorno nel Bloomday,  festival letterario frizzante e movimentato a tratti folcloristico, molto coinvolgente.

Anche la Sardegna, sembra idealmente coinvolta. Celebrerà lo scrittore e la sua opera nel “magico” paesino di Gavoi, dove il cielo disegna la sua luce su graniti e gerani rossi, nel Preludio del Festival Letterario “Isola delle Storie” che si svolgerà dal 4 al 7 luglio.

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Al Museo del Fiore Sardo domenica 16 giugno (stesso giorno del romanzo) alle ore 18:00 ci sarà l’opening di una mostra, curata dal Direttore del MAN di Nuoro Luigi Fassi, –  grazie alla Fondazione Antonio Dalle Nogare di Bolzano,  – vedrà esposta fino a domenica 7 luglio l’opera scultorea  (250 x 280 x 120) “Sweets of Sin”  di Miroslaw Balka  (Varsavia 1958) ispirata a James Joyce e alla sua opera letteraria l’Ulisse.

L’Artista

È prestigioso avere un’opera di Miroslaw Balka in Sardegna. Impegno di un’istituzione museale, il MAN di Nuoro, che orienta le sue ricerche e proposte in un’ottica sempre più internazionale con linguaggi artistici che riflettono la complessità del nostro viver contemporaneo.

Balka è un artista-filosofo di grande rilievo nella scena dell’arte contemporanea che vanta tante presenze alla Biennale di Venezia,  alle  Biennali di Liverpool, di San Paolo, di Sydney e Documenta IX solo per citarne alcune.

Un artista che nelle sue opere non si pone solo finalità estetiche, ma concettuali, intellettuali. Secondo un processo di comprensione dell’opera (specie nell’arte contemporanea) il fruitore non è un semplice osservatore passivo ma colui che partecipa attivamente con il proprio pensiero. Le opere di Balka, inducono  a riflettere e ad analizzare l’opera quasi  fosse un testo letterario.

Le sue indagini sono “in bilico” su precipizi o abissi del nostro viver contemporaneo: superficialità, frivolezza, fragilità, vuoto mediatico, solitudini, sentimenti, memoria storica… “cosa ci rende umani” promuovendo quel “conosci te stesso” caro a Socrate. La sua finalità è definire e recuperare valori sempre più alla deriva.

In quest’opera, una scultura dal titolo 250 x 280 x 120 Sweets of Sin realizzata da Balka nel 2004 per la collettiva “Joyce in Art”, l’artista mediante un’opera simbolica di raffinata e armoniosa sintesi, rimanda ad alcuni elementi dell’universo joyceano per celebrare l’autore e la sua opera più famosa l’ Ulisse.

Opera rivoluzionaria per struttura narrativa e linguaggi, pubblicata nel 1922 a Parigi che fece scandalo e attirò critiche e polemiche. Tre i protagonisti: Leopold Bloom, Molly, moglie fedifraga ma a sua volta tradita dal marito e Stephen Dedalus, alter ego di Joyce.

Balka sintetizza il “fluire” offrendoci una pluralità di “assonanze” con il testo di Joyce.

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Courtesy of Museo MAN

L’opera

L’opera, nell’analisi spaziale, è composta da due elementi uno sopra l’altro o vs., una struttura orizzontale e una verticale con cavità regolare, disposti in maniera armonica quasi fossero un unico blocco di sostegno reciproco nel loro completarsi.

Questo potrebbe rimandare al monologo interiore e/o al flusso di coscienza che caratterizzano la tecnica narrativa dello scrittore, dove i ricordi, gli stati d’animo, i pensieri dei personaggi si rincorrono spontaneamente nella loro coscienza, in apparenza senza un filo logico, intaccando in vari livelli la struttura del romanzo.

Quasi pensieri concatenati seppur in libertà: una struttura orizzontale sembra esser sovrapposta (un po’ come l’accavallarsi delle idee, al pari delle onde)  all’altra verticale dalla quale, come se fosse una fontana, da un piccolo tubicino fuoriesce del whisky; una figura solida “l’accavallarsi” delle idee, al pari del moto ondoso fluido, inarrestabile.

Un elemento che allude alla sua vita. Joyce, infatti, era un gran bevitore di whisky che sembra essere un “valore” costante nei suoi romanzi, gli attribuisce salvazione, diviene “sorgente di vita” al pari dell’acqua. Forse, anche lui, aveva necessità di bere per evidenziare idee su livelli diversi, come diceva Ernest Hemingway riguardo al suo scrivere.

Ma, il fluire continuo di questa sostanza potrebbe simboleggiare lo scorrere delle immagini che rimandano alle idee contrastanti nei monologhi dei suoi personaggi.

Oltre all’utilizzo interscambiabile dei vari registri linguistici, Joyce utilizza la figura retorica della sinestesia: la contaminazione dei sensi su base soggettiva, che oggi è sempre più utilizzata nell’arte contemporanea e dai pubblicitari. Balka la riprende  per indurci verso lo stupore, vuole farci percepire una nuova sensazione. L’odore forte del liquore si propaga attorno alla fontana che profuma di whisky. Un contrasto incisivo che lede la nostra consuetudinaria immaginazione.

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Courtesy of Museo MAN

L’asse orizzontale è fatto di gommapiuma, materiale utilizzato nei materassi, qui appoggiato all’asse verticale potrebbe alludere all’insonnia dei protagonisti; durante la notte il flusso dei pensieri inesorabile continua inarrestabile, irrequieto e tumultuoso.

Ricordando il titolo dell’opera 250 x 280 x 120 Sweets of Sin (Le dolcezze del peccato) si può notare come l’artista abbia ripreso lo stesso titolo del romanzo erotico che leggeva Molly Bloom moglie di Leopold.

Joyce ha sempre temuto di esser stato tradito dalla moglie Nora e riporta questo suo malessere nell’Ulisse. Balka lo ha ripreso è reso universale. Si riaffaccia un certo filone religioso che induce a riflessioni sul peccato e forse possibili rinascite. La scoperta delle lettere di Joyce alla moglie Nora testimoniano la sua predisposizione per contenuti erotici e le allusioni esplicite sono presenti anche nell’Ulisse.

L’Ulisse di Joyce è  un’opera che implica un’indagine nel cammino di un uomo dall’interno della sua coscienza, non più dall’esterno come nel vagabondare “materico” di Ulisse nell’Odissea.

E la stilizzazione del flusso del liquore nell’opera di Balka oltre a riflettere sul continuo fluire della vita, del tempo inarrestabile,  soggiace alla stessa idea di Joyce ovvero la percezione deriva da un’impressione esterna verso la propria interiorità. 

Quasi un corollario all’opera di Balka estremamente raffinata, mimesi di letteratura contemporanea che conferma quel lega/me  inscindibile con l’arte.

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(Articolo pubblicato su Olbia.it il 15 Giugno 2019)

 

Edouard MANET al Museo Civico di OLBIA

Il mare non fu un richiamo ma un semplice ripiego. Quando la voce paterna gli impose scelte che lui non amava. Lo studio gli si incollava addosso, quasi  un vincolo alla sua inclinazione verso la libertà. Un concetto stratificato nella sua anima.  Perché avrebbe dovuto accettare imposizioni? Voleva seguire le sue  attitudini.

Iniziavano a palesarsi quasi “spiragli di luce” (complice sua madre che sempre l’appoggiò) che rimandavano alla sua  vocazione, diversa da quella voluta dal padre, affermato giurista. 

Il nostro protagonista non amava studiare. Dai suoi insegnanti era considerato “mediocre”. Ma era un ragazzo spigliato, con la battuta pronta e lo studio, che impone un certo rigore, applicazione costante, disciplina, non era fatto per lui. 

Il padre proveniva da una famiglia di funzionari pubblici e giuristi, mentre la madre era figlia di un diplomatico. Sembrava che il suo destino fosse segnato. Anche lui sarebbe diventato un famoso avvocato, proprio come il padre.

Ma diceva Eraclito, filosofo greco del V secolo a.C. “nel carattere è il destino”. Infatti, fin da piccolo, mostrava i segni del grande artista che attuò una grande “rivoluzione” nella Storia dell’Arte, al pari di Giotto o Caravaggio: Edouard Manet (1832-1883).

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Ritratto di se stesso alla palette, 1878-79 – Courtesy by S.A.Wynn

Edouard non amava imposizioni, era caparbio e determinato, intelligente e oserei  stravagante. Amava stupire e percorrere tracciati nuovi, originali e sfrontati. Chi si accorse del talento di Edouard fu lo zio materno che gli pagò un corso di disegno quando era ancora al Collegio. Naturalmente il padre era contrario e  per questo gesto litigò con il cognato.

Per far capire il temperamento forte e originale di Edouard, si racconta di come avesse preferito stravolgere un modello assegnatogli, durante un’esercitazione di disegno. 

Intanto la sua vocazione artistica iniziava ad intravvedersi sempre più, per una certa dipendenza da matita e una smania irrefrenabile di ritrarre tutto ciò che appariva sotto gli occhi. 

Così pur di non assecondare la volontà e i consigli del padre, preferì partire come allievo pilota su un’imbarcazione alla volta di un luogo che condensava memorie esotiche e a quel tempo ritrovo di persone in cerca di fortuna: Rio de Janeiro.

Oggi, quasi in un viaggio ideale, la sua presenza è giunta in Gallura su “un’imbarcazione”, una moderna struttura architettonica con ponti e oblò, circondata  dal mare nella splendida rìas di Olbia. Non più come allievo pilota, ma come artista che espone le stampe dalle sue incisioni a suo tempo molto apprezzate (almeno quelle!) dalle quali traspaiono  gli elementi innovativi del suo inconfondibile linguaggio espressivo.

Esposizione

Il riferimento è intuibile per chi conosce la suggestiva architettura sede del Museo Archeologico  di Olbia, che allude, per la forma, ad una nave stilizzata che sembra esser attraccata alla terra ferma con una piccola rampa di accesso. Dal 1 giugno ospita la mostra ‘Verba Volant Scripta Manet’ visitabile fino al 31 Luglio, in un’ottica di pluralità e differenziazione delle offerte culturali proposte dall’amministrazione cittadina.

Sono esposte trenta stampe da incisioni realizzate da Manet tra il 1860 e il 1882 utilizzando la tecnica dell’acquaforte, acquatinta e puntasecca provenienti dalla Collezione Ceribelli di Bergamo. Opere postume stampate nel 1905 da un collezionista tedesco Alfred Ströling dalle tavole originali di Manet.

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Lola di Valenza,1863, acquaforte e acquatinta 

Le stampe rappresentano uno spaccato della società del suo tempo. Edouard mostra  la sua abilità di osservatore acuto della sua “contemporaneità”  e la sua avversità verso le direttive dell’Accademia Francese, poiché non interessato a rappresentare scene mitologiche o di impostazione classica. La realtà colpisce diretta come affermava Marcel Proust  e quindi senza “intermediari”.

E per citare alcune stampe in mostra ritroviamo il ritratto di ‘Berthe Morisot’ 1872, pittrice impressionista, modella preferita e cognata di Manet; Philibert Rouvière  che interpreta l’Amleto ne ‘L’Attore tragico’ 1865-66; Joseph Gall, un suo amico pittore, che fuma la pipa ritratto ne Il fumatore 1866, La Lola di Valenza del 1863; a questi ritratti si aggiungono scene di vita come il celebre I Gitani, 1862, La coda davanti alla macelleria, 1870-71;   e ritratti per testi letterari come Edgar Allan Poe, 1860 utilizzato da Baudelaire per una sua raccolta di recensioni sull’opera di Poe, o Theodore de Banville, 1874, per un libro di poesie del poeta.

In queste opere colpisce la sottigliezza e precisione delle incisioni che infonde plasticità strutturata dall’abile resa chiaroscurale, ma anche il suo antiaccademismo: l’assenza di piani prospettici lineari (alcune figure sembrano adagiate  sullo sfondo); presenza di prospettive diagonali di rottura con la tradizione classica, come “Il torero morto”, 1867-68; centralità e perpendicolarità della luce, l’ombra a tratti pastosa che si piega a quella luce che diverrà fondamentale nella pittura di alcuni suoi contemporanei. Darà struttura e permetterà di accarezzare l’anima della natura, vibrante presenza dell’essenza di vita, che fluisce e si palesa nella sua delicata bellezza.  

Alcuni lavori sono molto definiti e di fattura raffinata, altri tratteggiati velocemente come fossero appunti, memorie.  Quasi segni tracciati su uno spazio, che lo dominano, per non smarrire l’idea colta dal reale. 

Vi sono acqueforti che ritraggono i suoi più celebri dipinti, come ad esempio l’Olympia del 1867, che segneranno il mondo dell’Arte  e  successivamente con  Paul Cézanne  daranno nuovi significati all’Arte Moderna. 

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Jeanne o La primavera, 1882, acquaforte

Iniziò il suo insofferente apprendistato nello studio di Thomase Couture d’impostazione più classica delineando ‘l’incipit’ con l’assimilazione e reinterpretazione di  tecnicismi per nuove letture e indagini da alcuni artisti suoi contemporanei,   ed inoltre, da grandi pittori del rinascimento italiano  e barocco spagnolo che studiò  e approfondì durante i suoi numerosi viaggi in Italia, Germania, Spagna, Olanda. Proprio per questa sua abilità Émile Zola lo definì  il ‘rigeneratore’dell’arte.

Immediati i riferimenti ai suoi modelli preferiti Goya, Velasquez, El Greco e Tiziano.  Il primo per la modulazione della luce che diverrà via via sempre più perpendicolare al dipinto come venisse dall’esterno, da chi guarda. Forse per lasciare libertà interpretativa nel fruitore? Una liaison con l’arte contemporanea? Dal secondo acquisisce elementi per la struttura figurativa, ovvero la disposizione delle forme e figure nello spazio della tela. Inoltre, a differenza di Tiziano in cui é più presente la prospettiva lineare utilizzata nel ‘500, nelle incisioni ma forse più nei suoi dipinti si riscontra una maggiore bidimensionalità propria delle stampe giapponesi, allora molto in voga.

Quale realtà?

Parigi nella seconda metà dell’800 era una città segnata dal progresso nelle arti, nella scienza e da un’intensa urbanizzazione. Con l’avvento del modernismo vennero realizzati i grandi boulevards: lunghi viali alberati, luoghi di socializzazione dove era possibile passeggiare; il giardino delle Touileries, stazioni ferroviarie, nuovi centri residenziali. Aprivano numerosi caffè, s’inauguravano teatri, luoghi di divertimento ma senza tralasciare riflessioni e  confronti culturali.

Stava vivendo uno dei periodi più fortunati per l’Arte e creatività. Ci si voleva affrancare da certa pittura subordinata alle rigide regole dell’Accademia Francese di Belle Arti (istituzione fondata nel 1648 sotto il Cardinale Mazzarino che imponeva linee guida rigorosissime per pittura e scultura, promotrice delle celebri esposizioni denominate Salon).

Si aspirava a più libertà compositiva, quindi non relegata a immagini, modelli, miti. Si voleva reinterpretare la realtà come si mostrava assecondando il proprio sentire con l’osservazione diretta.

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L’attore tragico, 1865-66, acquaforte

Genio e follia

Manet nell’anima era un po’ maudit, un po’ anticonvenzionale nei suoi esiti pittorici   e sembrava che la libertà alimentasse la sua innata creatività, il suo esser geniale.

Da un ritratto che gli fece Henry Fantin-Latour s’intravvedeva una personalità forte, rigorosa,  un carattere cittadino, che il suo caro amico e scrittore Émile Zola lo definì  “il parigino per eccellenza arguto” poiché riusciva a cogliere ogni sfumatura della realtà che lo circondava. Un attento osservatore che amava godere “di tutte le raffinatezze della vita”. 

L’artista scrutava con attenzione la sua contemporaneità per esprimerla con un linguaggio  a lui più congeniale, in parte  influenzato da un certo filone “romantico” di stampo realista  e dalla frequentazione  del poeta dello spleen Charles Baudelaire, suo grande amico, che aveva espresso la sintesi della sua poetica in queste parole:  “la vita della nostra città è ricca di argomenti poetici e meravigliosi”; perché guardare al passato o a modelli? 

Ecco descritta la sua indagine pittorica che gli permetteva di esplorare e cogliere materia dalla realtà, dalle consuetudini sociali, e focalizzandosi su espressioni di figure umane, reali, si svincolava da quella patina di simboli, allegorie con rappresentazioni  legate alla storia o mitologia.

La libertà nello scegliere i soggetti si rifletteva nel linguaggio artistico dove il segno appariva libero da vincoli razionali ma più  ispirato, più lirico, più immediato.

Nella resa espressiva delle stampe in mostra, osserviamo una certa gestualità più fluida nel definire ogni singolo tratto delle incisioni. Ci si allontana da figure d’importazione classica e si preferisce rappresentare i nuovi personaggi/eroi della contemporaneità: chitarristi, bevitori, filosofi, artisti, scrittori, prostitute 

Baudelaire

Una “bellezza transitoria della vita presente” come diceva Baudelaire e per comprenderla era necessario non solo contemplarla ma “viverla e toccarne l’anima nel suo dinamismo interno”.

Questo implicava un superamento dei canoni romantici e un avvicinamento a quel realismo più attento all’evoluzione socio-culturale di cui Manet si fece grande testimone e interprete, insieme alla corrente impressionista che veniva a delinearsi con più insistenza.

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La coda davanti alla macelleria, 1870-71, acquaforte.

Tra le stampe che preannunciano  elementi  innovativi  del suo linguaggio espressivo e che alludono alla sua grandezza di anticipatore della grande arte del ‘900, “La coda davanti alla macelleria” rimanda ad echi di elementi cubisti (Braque) e astratti (Picabia, Malevich). 

Elementi innovativi

L’opera, un’acquaforte del 1870-71, raffigura un tema sociale attinto dalla realtà del periodo: la disperazione della gente per fame, stipata in file estenuanti davanti ad uno spaccio di carni, durante la guerra franco-prussiana.

Manet rappresenta secondo una prospettiva diagonale e non lineare la folla in fila davanti al negozio. Le sagome delle persone sono definite con tratto libero ora verticale ora orizzontale che dà valore plastico di differenziazione e di armonizzazione.

Ma l’elemento originale é la direzione della luce che sembra esser impazzita. Viene da ogni lato, anche dalla nostra parte , da noi che guardiamo (il lato centrale in cui si fa fatica ad intravvedere l’ombrello o la figura). Gli ombrelli disposti secondo la diagonale alternano luce e ombra, quasi un leggero accenno di movimento.

Se ci si focalizza distaccandoci potremo rivedere le scomposizioni di Braque e di Picasso con le sfumature che infondono ora plasticità ora movimento.

Le linee verticali della porta  allineate ai margini alleggeriscono la scena che sembra protendersi verso l’alto. La porta é socchiusa. L’oscurità allude a potenzialità future da dipingere o riscrivere? Manet ci lascia uno spiraglio, un’oscurità che riflette la sua emotività o lascia al fruitore quella libertà interpretativa fondamento di tutta l’arte moderna e contemporanea?

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La bambina col neonato, 1861-62, acquaforte e puntasecca

É stato un interprete eccelso, poco compreso al suo tempo e perciò ne soffrì. Ma le incisioni, allora un genere diffuso piacquero anche ai critici più severi. Questo successo potrebbe essere motivo per il quale molti dei suoi dipinti più importanti vennero realizzati con la tecnica dell’incisione. Infatti avrebbe potuto raffigurare nuovi soggetti invece rappresentò molte sue opere o particolari.

Dopo la sua morte venne riconosciuta la sua originalità. Persino Paul Cézanne che non amava l’arte di Manet, riconobbe che con lui si avviava un “nuovo stato di pittura” e Gauguin sostenne che la pittura  moderna iniziava con Manet.

Nel ripensare alla sua vita, alla sua arte, al suo impegno e alla sua costanza si evince che non ha mai mostrato vacillamenti pur ostacolato fin da ragazzino. A questo proposito possiamo citare Joyce che sosteneva “un uomo geniale non commette sbagli ma preludi di nuove scoperte”. Le sue anticipazioni furono la sua forza, inizialmente incompresa, che ha trascinato tutti noi nella sua genialità artistica, oserei rivoluzionaria, ad apprezzare la sua arte e a ri/considerare la sua vita: uno scorcio di tempo confluito nell’eternità che ha dato struttura all’Arte della nostra contemporaneità.

 

©lyciameleligios

 

(Articolo apparso su Olbia.it il 15 Giugno 2019)