Olbia Archivio Mario Cervo | Reading Sonetàula di Giuseppe Fiori

“Guardare le cose in modo chiaro, non superficiale ed esprimerle in modo essenziale da rimaner scolpite e restare nel tempo” sono qualità che l’editore Laterza pronunciava nei confronti dello stile inconfondibile di un autore sardo della sua scuderia: Giuseppe Fiori (Silanus 1923 – Roma 2003).

Giornalista, saggista, scrittore, un’anima sarda che si ricorda per quel suo piglio di temerarietà,  consapevole del suo essere carismatico.

Ci ha lasciato interessanti  interviste, inchieste e articoli alle volte pungenti, ma non si discostava da quel fare garbato che lo distingueva. Molto attento, curioso e insaziabile di realtà, in particolare quella sarda.

Scriveva spinto da una necessità irrefrenabile di condividere, trasmettere significati, idee o esplicitare fatti. Si, aveva assimilato la lezione gramsciana o meglio pasoliniana (Pier Paolo Pasolini era il suo poeta preferito) sull’importanza degli ultimi, della genuinità, della purezza e ancora sulla lealtà intellettuale e l’esclusione di qualsiasi preconcetto.

Un suo romanzo Sonetàula (2008) capolavoro della letteratura sarda, – che per alcuni elementi (vendetta, faida, giustizia privata) si potrebbe avvicinare alla grande tragedia greca del V sec. a.C., è da ben undici anni portato sulle scene dall’Associazione Culturale Tra Parola e Musica – Casa di Suoni e Racconti.  

Qualche giorno fa è stato riproposto – grazie all’Archivio Mario Cervo, all’amministrazione del Comune di Olbia e all’ISRE – Istituto Superiore Regionale Etnografico – in un evento performativo nel grazioso giardino dell’Archivio Mario Cervo.

Un’istituzione costituita dagli eredi del collezionista  Mario Cervo (1929 – 1997) studioso di sonorità sarde, che oggi prosegue  nel suo lavoro di ricerca, d’indagini e nuove progettualità. Una vera e propria wunderkammer  o stanza delle meraviglie, luogo depositario di  rare e “piccole gioie” di cultura musicale, di archeologia musicale sarda e antropologia culturale dell’isola.

4f7902b1-377f-4efc-bb44-ab90d25a9c4f.jpegCourtesy of Archivio Mario Cervo ©Photo Ottavio Cervo

La voce narrante dell’attrice Camilla Soru e la chitarra del musicista Andrea Congia hanno creato intrecci di parole e note, legate come raccordi di stelle. La luce di quell’arcaicità che implica come il tempo, nel suo stratificarsi in forma dinamica, accolga semi evolutivi che è bene diffondere per far attecchire consapevolezza di un presente diverso e sicuramente lontano dal reiterarsi di dolorosa memoria.

Un monologo fluido interpretato da Camilla Soru  con espressività, coinvolgimento emotivo e acuta introspezione psicologica dei personaggi, riscontrabile nelle sfumature e varie tonalità  di voce, ben armonizzate per tono, volume, ritmo e tempo. Accanto alle parole, i suoni e le musiche create in una sorta di improvvisazione a trasmettere in musica i sentimenti percepiti dal musicista Andrea Congia.

L’atmosfera mostrava il suo volto duale: a tratti cupa e minacciosa, un po’ come la voce incalzante della narratrice, o a tratti suadente, introspettiva di un lirismo “luminoso”, velato. L’attesa, un’ombra d’inquietudine, una presenza impastata da greve materia di certi noir.

L’impossibilità di capire certe forme comportamentali, retaggi, consuetudini radicate nella piccola comunità di Orgiadas, divengono sculture, modelli di un tempo arcaico che ora ha deposto le sue memorie nella scrittura.

Quel passato, un passaggio doloroso che si è reso necessario  per poter assimilare alcuni fondamentali valori:  il rispetto per il bene altrui e il valore della vita. Il tempo/memoria si incide per far affiorare dal corso degli eventi la sua finalità pedagogica.

7561C473-9E55-4B02-8AEC-E880DCAF7F65Courtesy of Archivio Mario Cervo ©Photo Ottavio Cervo

Il romanzo racconta l’apprendistato del giovane Zuanne Malune, chiamato dagli amici Sonètaula, per via di quel rumore sordo, duro, che emetteva il suo corpo esile, quando bonariamente veniva colpito. Erano gli stessi amici che gli avevano attribuito questo improegliu  “suono di tavola”. Il suo corpo risuonava come il legno.

Una trasposizione simbolica che lega la tavola a qualcosa che esprime le caratteristiche del legno duro. Quasi una premonizione sulla sua vita futura  che sarà “dura”, difficile, grama, di sofferenza per un ragazzo che non conoscerà mai la spensieratezza, la leggerezza propria dei ragazzi della sua età, ma che diverrà adulto prima del tempo. Era ancora un bambino che all’interno della comunità agro-pastorale strutturata da codici orali e acquisiva  inevitabilmente consuetudini e comportamenti di questa società.

Giuseppe Fiori attento conoscitore e studioso di alcune dinamiche sociali (lotta di classe) in questo romanzo affronta il delicato problema del banditismo in Sardegna e la domanda che sembra suggerirci è la seguente: quanto incidono i modelli sociali sui bambini di società chiuse, che non hanno avuto possibilità di interagire con altri esempi/mondi diversi?

Un romanzo realista dove l’indagine assume peculiarità diverse. Il realismo di Émile Zola, ad esempio, era più legato a forme del destino, che qui  sembrano  esser superate. Infatti, non è possibile parlare solo di “destinati” ma di persone inserite all’interno di un  modello  sociale che ha sovrastrutture ben codificate anche se orali, parallelo ad un’altro modello con sovrastrutture scritte e definite, che si respinge, perché sentito innaturale, imposto da altri, “stranieri”.

Lo scrittore attinge al linguaggio di stampo giornalistico e senza fronzoli con una prosa asciutta ed essenziale, ma lontano da certo rigore positivista, sente l’esigenza di indagare, far emergere  e definire emotività, delineare come certe dinamiche possano avere determinate conseguenze. Ad esempio i riferimenti ad una forma di tutela personale come era la latitanza o “incalzare” per chiarire, quasi triturare, sminuzzare quella forza cieca che crea un corto circuito nella mente di una persona e induce alla vendetta. Perché?

48727D9F-355E-4CDB-8844-3F56F4B9B201

Courtesy of Archivio Mario Cervo ©Photo Ottavio Cervo

Aveva approfondito questa pluralità di tematiche in alcune sue inchieste. Forse voleva recuperare o reinserire nella società chi ingiustamente era stato condannato seppur con prove di innocenza per immobilismo burocratico (mancanza di giudici o altro) e non veniva ufficialmente scagionato.

L’unico modo per non perdere anni di vita era la latitanza, poiché la giustizia era lenta. A volte ci si dava alla “macchia” perché non si voleva testimoniare in un processo.

Così si costituiva un tribunale privato si ristabilivano equilibri interni alla comunità ma non per la legge.

E’ stato un periodo complesso, in cui la Sardegna sembrava abbandonata a se stessa.  La povertà era endemica, come le ferite aperte dai dominatori/colonizzatori spagnoli, piemontesi che utilizzavano l’isola solo per ricavarne guadagni dalle proprie risorse, non per risolvere i gravi problemi socio-economici.

La società ha necessità di buoni esempi e di idee che  “devono partire dalla realtà per migliorare la realtà stessa” diceva Giuseppe Fiori, e non da astrazioni.

Il primo personaggio che incontriamo è Anania Medas nella sua barberia. Era stato in carcere per scontare una pena e lì gli avevano insegnato un mestiere, anche se in realtà non ne era capace.

Lo scrittore sembra voler ricorrere a questa figura per evidenziare  l’importanza dell’integrazione sociale degli ex detenuti. É importante dare una ragione di vita e quindi un’altra opportunità, per sentirsi utili e non accogliere “sfide” diverse.

69CA9AF2-4487-4B7B-B221-88EA904EF0D0

Courtesy of Archivio Mario Cervo ©Photo Ottavio Cervo

Una volta scontata la pena, intorno alla metà del secolo scorso era difficile inserirsi nella realtà lavorativa e nella società. Paradossalmente venivano considerati, accettati e aiutati dalla stessa comunità quando erano ancora latitanti.

L’omicidio di Anania Medas, segna la vita di Sonetàula, un bimbo di Orgiadas, il paese “immaginario” dove lo scrittore colloca la sua storia. Il padre accusato dell’omicidio lascerà la famiglia per andare in carcere. Al piccolo viene nascosta  la verità.

La sofferenza del piccolo Sonetàula viene descritta dalle sonorità e dal pathos di ogni singola parola recitata.  Un fraseggio   che incalza, cresce e crea vortici di venti impetuosi, solitudini che devastano il piccolo.  Il padre verrà sostituito con la figura del nonno che si prenderà cura di Sonetàula e gli insegnerà a vivere.

Si certo, è abituato all’allontanamento del padre per la transumanza, ma almeno sa che prima o poi sarebbe tornato. Lo avrebbe potuto abbracciare e trascorrere del tempo insieme a raccontarsi cose da uomini.

Ora invece sarebbe partito e affiora un nuovo sentimento:  la paura che spinge,  per rapirlo. L’incognito, il timore di quel domani senza  padre e la necessità di doversi occupare della madre. Lui, da solo? Che responsabilità! e poi quella raccomandazione che gli rimbomba nella testa fino a squarciarla come gli echi  delle armonizzazioni che illuminano la scena. Non deve fare comunella con il figlio di Battista Malune, perché lo capirà da grande.

Ecco un primo instradamento all’interno di un codice orale conoscenze diverse per grandi e per piccini ma sempre conoscenze ingombranti che schiacciano e privano l’aria di ossigeno. E per rinforzare quel patto tra padre e figlio non si deve chiedere niente a nessuno, nella maniera più assoluta.

Al silenzio degli spettatori, tutti estremamente attenti quasi per timore di perde anche solo una parola,  si lega questo momento di sconcerto, di incongruenza: dovrà occuparsi della madre perché ritenuto ormai grande ma gli si vieta di capire meglio cose che a lui sfuggono, perché ancora piccolo, cose non  chiare, che non riesce a legare o a infilare nella collana della sue verità, ancora da comporre.

Sonetàula accompagna il padre alla corriera. E lì interpretato magistralmente dall’attrice con un’introspezione da farci rivivere la scena, lì in presenza del padre il bimbo piange, lacrime che scavano fragilità, fantasmi di perché accorrono nella mente del piccolino: perché deve partire?

Questo momento d’intenso pathos ad un tratto viene sospeso, quasi interrotto  da una frase che appesantisce quell’assenza a cui Sonetàula è abituato, perché è legato alla parola fine.  E presagisce quel tempo che giungerà a breve “mi piangi come un morto”. 

Il piccolo riabbraccerà il padre solo un’altra volta, perché la giustizia si mostrerà inefficace, lenta, informe, e da quella patria che lo considera margine, “confine sociale” ,  da condannato al confino anche se innocente, verrà convocato per combattere e poi morire, per lei.

B2EDA417-7B1B-419F-A043-A78B1D145EDC

Courtesy of Archivio Mario Cervo ©Photo Ottavio Cervo

E così Sonetàula a soli 13 anni si ritrova ad avere una seconda casa fatta di macchia mediterranea, bosco, e cieli stellati e poi i suoi dolcissimi amici, compagni fedeli: gli animali. Inizierà a fare il pastore.

Ma basta poco per ritrovarsi avviluppato nel sistema di un codice orale sovrapposto al sistema giudiziario. Inizia ad oscillare verso la latitanza in seguito ad un furto di una pecora dal suo gregge. Come un lampo la velocità della sua risposta: l’uccisione di altre pecore appartenenti al presunto ladruncolo.  Denunciato, invece di costituirsi, decide per l’altra giustizia non per questo meno sofferta,  la latitanza, la via di fuga,  una consuetudine utilizzata da molti altri.

In paese è rimasto il suo grande amore che saltuariamente vedeva di nascosto. Ormai vive solo per poter sposare la sua Maddalena. In lei ha riposto la speranza di una vita futura. Evocata in una scena dove la parola narrata riesce a far rivivere una sorpresa mista ad emozione: il primo giorno di diffusione della luce elettrica nel piccolo paese. Ora finalmente durante la notte il paese sembra illuminarsi come fosse giorno.  L’ombra che taglia i viottoli e incupisce gli animi  sembra esser scomparsa ma vedremo che non sarà così, la storia d’amore avrà un’altro epilogo.

8786A174-C04D-466A-8293-AF0BB336771E

Courtesy of Archivio Mario Cervo ©Photo Ottavio Cervo

Ambientato nella prima metà del secolo scorso, Sonetàula è il nostro grande romanzo epico. L’apprendistato che si sviluppa nelle pagine del romanzo, inteso come formazione non è acquisito viaggiando e visitando altre realtà, ma all’interno della piccola comunità subordinato a retaggi che implicano trasformazioni sociali, lotte tra ceti, dove appare una società chiusa ma fiera delle proprie tradizioni e codici tramandati oralmente.

È il racconto sofferto e commuovente, se lo si legge con empatia, di un bambino a cui è stata sottratta la presenza e l’amore di un padre che ingiustamente sconta il confino per una colpa non commessa. Alla fine dopo esser vissuto in quella “forma” sociale anche lui l’acquisirà nella sua interezza fino a vendicare il padre.

Ma la vendetta ha origini antiche. Potremo dire che sia nata con la nascita dell’uomo e del suo interrelarsi in una comunità. Ricordiamo la catena di vendette (faida) minuziosamente raccontate da alcuni autori greci come Sofocle o Euripide. Uno dei personaggi più narrati Oreste che vendica il padre macchiandosi di un matricidio. Oppure altra vendetta molto studiata nell’Amleto shakespeariano dove si “razionalizza” il sentimento di vendetta con sfumature dei moti d’animo legati a fragilità umana, ripensamento, incertezza.

La vendetta della civiltà barbaricina ha una matrice differente e cesserà quando ci si accorgerà che le uccisioni non “restituiscono il morto”. Una consapevolezza che verrà acquisita con il miglioramento delle condizioni socio-economiche e con la diffusione della cultura, un nuovo sguardo verso altri mondi e  nuovi modi di guardare il mondo.

“La cultura può rompere un varco”, con il grande dono di preveggenza che spesso mostra Giuseppe Fiori coglie quell’urgenza che avrebbe portato al cambiamento.

E riprendendo l’immagine della locandina dell’Isola delle Storie 2019 – il Festival  di Letteratura di Gavoi, in Barbagia, appena concluso – riflettiamo su questa bella metafora  raffigurata dove individui gettano sassi nel mare come la cultura lancia idee/storie e attende che prendano forma, si chiarifichino. Così l’acqua del mare dopo aver lanciato il sasso dopo un periodo di riposo, ritornerà brillante e trasparente più di prima perché le idee che all’inizio possono sembrare oscure incomprensibili in un secondo momento illuminano, aprono varchi verso nuove mete, creano rinascite.

“Mentre oggi vado ad Orgosolo – diceva Peppino negli anni ’60 – trovo una società nuova uno strato di intellettuali  organici della  società pastorale, figli di pastori o che sono stati pastori essi stessi da ragazzi. Trovo questo strato di nuovi dirigenti della comunità che parlano un linguaggio avanzato. In un circolo giovanile di Orgosolo si stampa un periodico ciclostilato in cui ho trovato testi di Don Milani, poesie di Neruda, di Garcia Lorca, di Brecht. Un’inchiesta sulla condizione della donna ad Orgosolo. Cultura viva non ossificata, armonizzata. È segno che in Barbagia qualcosa cambia nella direzione giusta”.

La cultura ha aperto e apre varchi  che non dovremo chiudere con la nostra ottusità.  Ma considerato il potenziale di crescita insito nel dubbio, cercare   di proporre idee  per quella passione che induce a creare,  a cogliere originalità,   senza mai tralasciare la memoria storica dalla quale attingere, riferimento per nuove riflessioni sul nostro presente. Luce per la nostra contemporaneità.

lyciameleligios

© Riproduzione Riservata

[articolo apparso su Olbia.it il 14 luglio 2019]

Una conversazione con il maestro Delitala | La musica, ragione di vita

La musica talvolta m’avvolge come un mare!
E dispiego le vele
sotto un cielo di nebbia o negli spazi immensi
verso la mia stella pallida.
Charles Baudelaire

 

Nella vita s’incontrano persone che sono destinate a lasciare un segno nella comunità dove interagiscono. Ciò si evince da alcune dinamiche improvvise che veloci come il nostro vento di maestrale soffiano brezze per contrastare venti di cambiamento.

Sono persone che si riconoscono per la passione e dedizione che nutrono nel portare avanti progetti, trasmettere competenze. E seppur con difficoltà incresciose si mostrano caparbi, determinati.

Una presentazione insolita per il “protagonista” (un cliché che non ama) della vita musicale e culturale della città di Olbia, che con i numerosi concerti di musica classica e del Coro Polifonico cittadino è stato capace di indurci ad apprezzare questo genere musicale educandoci all’ascolto. Inoltre, è riuscito a trasmetterci la bellezza e capire fraseggi che dipingono vere emozioni nell’anima: note che giocano con il tempo tra allegri, andanti, adagi e altre espressioni musicali.

865fa5ae-7cbd-49f4-b839-badb26eaf78f.jpeg

Lui è il maestro Antonio Delitalia, direttore dell’ambita Scuola Civica di musica, di Olbia, uomo garbato, riservato, poco incline all’apparire, umile ma tenace che ha messo a disposizione le sue profonde conoscenze in materia musicale acquisite da lunghi anni di studio.

Questo ha permesso al tessuto sociale di crescere musicalmente, saltare l’oltre del silenzio dove le cose assumono significati se guidati da giuste competenze e abilità didattiche.

Inizialmente non è stato semplice avere consenso per una conversazione/intervista: “Nei miei tanti anni di esperienza musicale non ho mai rilasciato interviste, non amo mettermi in vetrina” rispondeva alla mia domanda in tono ossequioso, un po’ timido ma con il volto dipinto di sorpresa mista ad incredulità.

Alla fine dopo una leggera titubanza ha accettato mostrandosi una persona coerente, che del lavoro ha fatto la sua ragione di vita che ha elevato la città di Olbia dandogli un impronta di cultura musicale lodevole.

La musica è una “compagna di vita” e chi ne conosce l’intensità e la bellezza non riesce più a separarsi. Come è nata questa sua vocazione?

La domanda che mi pone mi conduce necessariamente agli anni della mia infanzia. Non so quando sia nata questa chiamata, questa “vocazione”. Può darsi che si tratti di qualcosa che appartiene al DNA di ciascuno di noi. E allora sono le circostanze della vita che si incaricano di trarre fuori ciò di cui ciascuno di noi è dotato.

Quello che posso dire con certezza è legato ad alcuni ricordi, assai nitidi, della mia infanzia a Nuoro. Ne cito alcuni: il primo è quello di mio padre che, in alcune riunioni familiari e con amici, suonava il violino; le lezioni di pianoforte a casa della Sig.ra Rosaria Denti quando avevo sei anni; il terzo ricordo: la possibilità di ascoltare musica sia con i dischi a 78 giri (avevamo le sinfonie di Beethoven, alcune dirette da Arturo Toscanini con la BBC di Londra su La voce del Padrone: la VI comprendeva ben cinque dischi; varie incisioni di arie d’opera e canzoni napoletane), sia con il vinile (avevamo diverse opere di Puccini che io sapevo a memoria a forza di ascoltarle).

D5CFF9BF-CDA5-4420-84D7-B64DAE1896EE
Photo Courtesy of Archivio A.Delitala

Che ricordi ha dei suoi studi nel periodo del Conservatorio? Quali musicisti preferiva?

Non sono stato un allievo interno del Conservatorio di Sassari: tutti gli esami li ho sostenuti come privatista. Mi sono diplomato in Canto Artistico sotto la guida di Antonietta Chironi, cantante dotata naturalmente di una voce straordinaria, di ampi e caldi colori e di grande duttilità esecutiva (passava dal repertorio barocco a quello popolare sardo con la medesima grazia e con pari capacità espressive). La frequenza regolare in Conservatorio è stata circoscritta solamente alle lezioni di composizione che il M° Luciano Pelosi, docente di Composizione, settimanalmente e per quattro anni, mi impartiva in totale gratuità.

Per quanto riguarda la seconda domanda debbo fare una precisazione: la preferenza verso alcuni musicisti non è qualcosa che rimanga immutabile nel tempo: dipende – almeno, per me – dalla maturità personale, dagli studi che, a chi li compie, permettono di approfondire la conoscenza di un compositore, di assimilarne lo stile, di farlo diventare una sorta di “habitus” interiore.

Seguendo questa evoluzione, mi sono trovato a confermare la predilezione per i musicisti della mia infanzia; ad amare il repertorio che da anni frequento e cioè la polifonia, dalla musica antica a quella contemporanea; e, infine, a maturare una sorta di coscienza, di interiorizzazione, quasi di religiosa adesione verso alcune composizioni, sia vocali sia strumentali, che hanno il potere di parlare, evocare, ispirare. Ma tutto questo penso sia esperienza di chiunque ascolti musica, senza dover essere necessariamente un musicista né aver fatto specifici studi in materia.

Nel 1978 istituisce il Coro “Città di Olbia”. Vuole raccontarci com’è nata l’idea, le prime persone che vi hanno aderito? I primi concerti?

Il Coro “Città di Olbia” ha una genesi che risponde a varie esigenze (alcune delle quali sono state motivo di sofferenza che poi il tempo ha saputo lenire) sviluppatesi all’interno del Coro Civitas quando il suo fondatore, l’allora parroco di San Paolo don Giuseppe Delogu, decise di lasciare momentaneamente la parrocchia per iniziare un proprio personale percorso pastorale fuori dalla Sardegna.

La più sentita di queste esigenze: continuare l’attività del coro privilegiando però la formazione musicale dei suoi cantori. Non tutti condivisero tale proposta: coloro che vi aderirono costituirono il primo nucleo del Coro “Città di Olbia”.

Il primo concerto si tenne nella Chiesa di San Paolo, venerdì 29 giugno 1979 con un repertorio – visto con l’esperienza di quaranta anni dopo – abbastanza impegnativo: comprendeva, fra l’altro, un mottetto di Marenzio, un responsorio di Ingegneri, un madrigale di Palestrina e, nella seconda parte, quattro lieder di Brahms e, per chiudere, tre brani del repertorio popolare sardo. Oggi alcuni brani di quel concerto indurrebbero qualsiasi direttore ad una attenta riflessione e ad una adeguata disamina sia sotto il profilo musicale, sia sotto quello vocale.

 

La scelta del repertorio? I ricordi che lo gratificano e quelli che lo hanno deluso o rattristato perché difformi da ciò che erano i suoi desideri?

Il repertorio, inizialmente, era quello che si sentiva eseguire dai complessi più famosi e che un direttore inesperto proponeva acriticamente ai propri cantori (anche se i brani scelti non erano quelli più adatti al proprio coro). I periodi e gli autori più frequentati erano quelli del Quattro, Cinque, Seicento, con incursioni nell’Ottocento (soprattutto tedesco) e nel repertorio folcloristico sardo.

Ricordi che mi gratificano e ricordi che mi rattristano? Ma, vede, Fosco Corti – straordinaria figura di musicista e di didatta scomparso nel 1986, maestro  prezioso di una intera generazione di direttori e del quale ho avuto la fortuna di essere allievo – ci diceva: «Non esistono buoni cori o cattivi cori: esistono buoni direttori o cattivi direttori». È una massima che tengo tuttora ben presente quando lavoro con il mio coro: fatta la tara di ciò che di imperfetto, nel cantore, non è direttamente riconducibile a me, il resto è da attribuire al direttore, nel bene e, soprattutto, nel male. Certo, quando un concerto rimane su un piano di dignitosa o eccellente esecuzione gioisco principalmente per i miei cantori; quando questo non accade è sempre un motivo, per me, di attenta analisi e indispensabili rettifiche.

Tanti riconoscimenti e premi. Vuole raccontare quello che lo ha emozionato maggiormente e quello che lo ha rattristato?

La prima volta di un premio è stata nel 1985 ad Arezzo dove vincemmo il 3° premio nel III^ Concorso Nazionale di Polifonia “G. d’Arezzo”; nel 1988, il 1° premio al VI^ Concorso Internazionale di Stresa e nel  1990 il 1° premio al 2^ Concorso Internazionale di Verona. Poi vennero altri secondi premi ( Arezzo, Crema) e altri terzi (Arezzo). Il premio che più mi ha emozionato è stato il Premio al miglior Direttore attribuitomi a Verona nel 1990 all’interno del 2^ Concorso, anche perché (l’ho saputo successivamente) nella precedente edizione non era stato assegnato. Premi che mi abbiano rattristati non ne conosco (ai concorsi si va per vincere ma anche per accettare eventualmente un posto fuori dal podio e il verdetto della Giuria si accetta così com’è); però una volta ad Arezzo – credo nel 1992 – ci fu assegnato il 2° premio mentre mi aspettavo il 1°. Subito dopo la proclamazione dei vincitori si avvicinò il direttore che vinse il 1° premio, si complimentò con me e, molto cavallerescamente, riconobbe che si aspettava un 1° ex aequo.

90F0D2CC-6AF5-4767-BFDA-26AD7182E323
Photo Courtesy of Archivio A.Delitala

La Scuola Civica di cui lei era sostenitore finalmente apre le porte agli studenti. Ci vuole raccontare di questa avventura forse un po’ sofferta (perché ancora itinerante senza location definitiva).

Il sottoscritto – come, del resto, altri cittadini – è stato un sostenitore della Scuola Civica di musica, ma il merito della sua istituzione, nel 2000, va alla Amministrazione Nizzi e al suo assessore Tommaso Degosciu.  Anche la mia nomina a Direttore della Scuola risale a quella data e al sindaco Nizzi. Da allora tutte le Amministrazioni comunali e i vari Commissari straordinari che si sono succeduti hanno confermato e sostenuto la presenza della Scuola, garantendole il relativo sostegno finanziario. Gli utenti, da allora, sono stati e sono sia bambini e ragazzi (dai quattro anni in su), sia adulti (nella Scuola non c’è un limite di età, la precedenza però viene data ai bambini e ai ragazzi).

Attualmente come si struttura e quali corsi privilegia? quanti studenti e quali validi musicisti?

Rispondo volentieri a queste domande, cercando di essere sintetico ma allo stesso tempo chiaro: la Scuola Civica persegue due obiettivi: il primo è  accogliere e favorire predisposizioni, inclinazioni verso la musica che provengono dai bambini e dai ragazzi; il secondo: guidare con particolare accuratezza la preparazione e la formazione di coloro che intendono proseguire gli studi musicali nei Conservatori. I corsi presenti nella Scuola sono i seguenti: corsi strumentali : violino, violoncello, contrabbasso, basso elettrico, arpa, batteria, chitarra classica, clarinetto, sassofono, flauto, tromba, pianoforte; corsi amatoriali: batteria, chitarra moderna, canto moderno; teoria e solfeggio (obbligatorio per tutti gli allievi dei dodici corsi) ; propedeutica musicale per l’infanzia;  infine musicoterapia.

In tutto sono 18 corsi, alcuni comprendenti più classi (chitarra, pianoforte, teoria e solfeggio, propedeutica).

Ogni allievo dispone – per lo strumento prescelto – dai trenta ai sessanta minuti di lezione settimanale individuale, a seconda dell’età e su valutazione del docente; collateralmente deve frequentare, sempre settimanalmente, anche la lezione di Teoria e solfeggio, questa sì, in forma collettiva, per scelta didattica.

Poi ci sono i corsi amatoriali (batteria amatoriale, chitarra moderna, canto moderno) destinati agli allievi a partire dai 16 anni, nei quali l’ora di lezione comprende tre, quattro allievi.

Inoltre, per i bambini dai quattro ai sette anni compiuti è stato predisposto un corso di Propedeutica musicale. Comprende quattro gruppi fino a dieci allievi ciascuno; lo scopo è quello della formazione dell’orecchio musicale mediante l’ausilio dello strumentario ritmico-melodico (legnetti, triangoli, tamburi, tamburelli, metallofoni, xilofoni, etc.). Attraverso una serie di momenti analitico-percettivi il bambino è condotto al riconoscimento dei parametri del suono (altezza, durata, intensità e timbro) per raggiungere gradualmente obiettivi più raffinati. In questo percorso l’utilizzo della voce, e quindi il canto, costituisce un momento rilevante ed essenziale. Essa è lo strumento attraverso il quale il bambino conosce, sperimenta, interiorizza il mondo sonoro che lo circonda e nel quale è immerso. L’esperienza del canto diventa, oltre che fattore di aggregazione e di condivisione, anche momento di sperimentazione e di consapevolezza dei propri mezzi espressivi e del proprio corpo. Purtroppo, oggi un errato concetto di uso e valore di questo strumento conduce alcuni genitori a speculare sulla voce dei propri figli al fine di partecipare a selezioni e concorsi canori, alla ricerca di una effimera popolarità televisiva.

Infine c’è un corso di Musicoterapia destinato agli allievi con difficoltà nell’apprendimento, tenuto da una docente con grandi capacità e competenze professionali ed umane.

Ha qualche dato? Le iscrizioni annuali aumentano annualmente o sono stazionarie?

Gli allievi della Scuola attualmente sono 160. È un dato che sostanzialmente rimane immutato negli anni (può variare, in più o in meno, di qualche unità) perché è legato al monte ore di cui la Scuola dispone. È significativo, comunque, che ogni anno la lista d’attesa per qualunque corso strumentale sia sempre lunga: segno inconfutabile della credibilità di cui gode la proposta didattica della Scuola.

Difficoltà ma grandi soddisfazioni. Ha rimpianti? Ripeterebbe ciò che ha realizzato o come lo rifarebbe?

Rimpianti? Ma, vede, al momento credo di non averne e nel futuro spero di non nutrirne. Per quanto riguarda ciò che ho realizzato, mi preme sottolineare che la presenza della Scuola Civica ad Olbia è opera del Comune; il mio impegno è stato quello di averle dato e di darle credibilità e prestigio sia attraverso la scelta didattica di cui ho parlato precedentemente, sia attraverso la presenza di docenti di eccellente professionalità e di indispensabili capacità didattiche e umane: sono le uniche peculiarità che un corpo docente deve possedere.  La lista d’attesa che correda ogni corso testimonia appunto la bontà di tale connotazione. Gli stessi Uffici regionali hanno sempre riconosciuto alla Scuola di Olbia un particolare rilievo educativo e formativo, considerandola il “fiore all’occhiello” della Regione in questo settore.

Un periodo la sezione staccata dell’Università attualmente situata nell’aeroporto  “Costa Smeralda” sembrava che volesse usufruire degli spazi preposti alla Scuola Civica nel Palazzo Expo. Lei riuscì a far desistere dall’interesse. Ci vuole sintetizzare questa situazione incresciosa?

In questo episodio, credo di non avere particolari meriti: si trattava semplicemente di mettere in risalto la inadeguatezza dei locali dell’Expo alle attività didattiche dell’Università.

Oggi invece alla Scuola Civica verrà assegnata la sua sede definitiva al Musmat, ex mattatoio. Quali sono i tempi previsti per la consegna? I locali sono molto più grandi dell’Expo? Inserirete altri insegnamenti?

Ignoro i tempi del trasferimento dall’Expo all’ex mattatoio; non so come siano stati organizzati gli spazi interni dei due grandi locali destinati alla Scuola; inserire altri insegnamenti è questione, innanzi tutto, di disponibilità finanziarie da parte dell’Ente pubblico, e poi di scelte e indirizzi didattici che attengono sia al Direttore, sia all’Amministrazione, sulla base, naturalmente, di ciò che emerge dal tessuto sociale e culturale della comunità.

Ricordo, tantissimi anni fa, alcuni concerti della Scuola Civica nella chiesa di San Paolo con pochi spettatori. Oggi finalmente si mostra più attenzione e sensibilità verso la musica classica e il pubblico partecipa attivamente.

Vede qualunque proposta culturale, in ogni campo, se si vuole che si radichi nel tessuto sociale, richiede ritmi che rispondono a maturazioni consapevoli e a percorsi di crescita lunghi. Ci vuole tempo e pazienza!

L’opera lirica forse crea ancora resistenza anche se sembra trionfare nei Talent televisivi, secondo lei sarebbe necessario educare all’ascolto?

La domanda che mi fa è di grande attualità e complessità e andrebbe rivolta più opportunamente ai Sovrintendenti dei nostri teatri e in particolare a quelli delle 14 Fondazioni lirico-sinfoniche.

L’opera è sempre stata, da quando è nata, un prodotto del giorno, non del passato. Mi spiego meglio l’argomento poteva, sì, rifarsi a episodi e personaggi storici e mitologi dell’antichità greco-romana (la prima opera a soggetto storico è del 1642, L’incoronazione di Poppea, di Claudio Monteverdi), ma i caratteri, le azioni, gli equivoci, la comicità, le ambiguità, l’indole, le passioni, i tormenti dei personaggi, i contrasti amorosi riflettevano e riproducevano in filigrana l’attualità. Naturalmente il librettista del tempo, rifugiandosi nei miti e nella mitologia, non correva il rischio di allusioni a persone e fatti a lui contemporanei, mettendosi così al riparo da possibili e pericolose ritorsioni. Inoltre l’edificio della sua rappresentazione, il teatro, era anche il luogo nel quale, inizialmente, – oltre che assistere alla vicenda tifando per questo o quel cantante – si svolgevano le più svariate attività: mangiare, giocare a carte, negoziare affari, intrecciare legami sentimentali: luogo per eccellenza di relazioni e quindi molto frequentato.

Poi divenne tempio della musica, in particolare dell’opera lirica. Il rischio che oggi l’opera si rinchiuda, in relazione all’utenza, in perimetri elitari può essere evitato in diversi modi (e sta già accadendo, per fortuna): accogliendo produzioni originali nel libretto, nella regia, nei costumi, nella scenografia (qualche mese fa Nicola Segatta, giovane compositore trentino, mi inviò la registrazione di una sua opera eseguita a Trento: struttura compositiva agile e scorrevole, strumentazione ricca di colori, interpreti giovani… ); aprendo i teatri agli studenti e, con le opportune modalità, ai bambini (quasi tutti i teatri hanno ormai introdotto nella loro programmazione tale offerta); divulgando (anche attraverso i Talent, come Lei ha opportunamente richiamato) le attività e le prestazioni di giovani cantanti emergenti. Attualmente in Sardegna abbiamo il caso di due giovani, presenti ormai nei più prestigiosi teatri del mondo: il baritono Alberto Gazale, di Sassari (che quando era agli esordi della sua carriera ho avuto l’onore di dirigere due volte nella Petite Messe Solennelle di Rossini) e il tenore Francesco Demuro, di Porto Torres che, poco più di un mese fa, è stato premiato a Doha, la capitale del Quatar, in occasione dell’International Opera e Classic Awards.

Penso che la città di Olbia – parlo degli abitanti – le debba essere grata poiché ha cercato di definire una identità culturale musicale che precedentemente non esisteva. I concerti da lei organizzati son tracce di memoria importanti per la bellezza delle esecuzioni e le intense emozioni che trasmettono (personalmente mi commuovo).

Le cose si fanno prima di tutto per rispondere a impulsi ed esigenze personali; in secondo luogo, per suscitare e condividere tutti quei moti dell’animo che appartengono all’uomo e che non possono essere descritti. La gratitudine non è un accessorio che debba corredare tali azioni. Personalmente non l’ho mai attesa né, tanto meno, cercata.

539F8938-50CF-4480-8F57-8B8DE65E301B.jpeg
Photo Courtesy of Archivio A.Delitala

Parliamo del coro. Oggi il coro vanta un repertorio vastissimo articolato che abbraccia i periodi più proficui dal punto di vista musicale della storia della musica, ma con uno sguardo verso la nostra tradizione e verso la contemporaneità. Cosa pensa al riguardo?

La scelta oculata del repertorio è una operazione che un direttore deve saper fare in relazione alle voci di cui dispone. Non tutto si può fare bene e con i medesimi risultati. Il “suono” di un coro (come, del resto, quello di un’orchestra) è qualcosa che il direttore deve saper costruire. Normalmente il raggiungimento di questo obiettivo può durare mesi e non è detto che sia acquisito definitivamente perché l’organico di un coro amatoriale non è mai stabile. Nel frattempo il direttore propone vari brani appartenenti a autori e periodi diversi, sperimenta, corregge, cambia la composizione interna del complesso (un soprano con un colore della voce scuro lo utilizza, se ne ravvede la necessità, come contralto); infine, a seconda dell’organico interno delle quattro voci – soprani, contralti, tenori, bassi – decide il repertorio.

Con il mio coro ho affrontato brani di autori che vanno dal Duecento ai nostri giorni; inoltre, con i due organici (voci maschili e voci femminili), separatamente, abbiamo studiato anche il repertorio gregoriano, indispensabile per possedere e saper gestire con consapevolezza il fraseggio non solo del gregoriano ma anche della polifonia. Detto questo, non è così scontato che un coro possa eseguire tutto. La letteratura polifonica è vastissima, da sola può riempire intere biblioteche. Il direttore di un coro si trova allora (almeno, nei primi anni di attività) nell’esigenza di dover scegliere tra ciò che gli piace – perché, magari, sentito da qualche complesso titolato, ma che il coro non è ancora in grado di affrontare – e ciò che, in quel dato momento, il proprio gruppo può eseguire. Attualmente il coro ha maturato una vocalità che predilige il repertorio rinascimentale e barocco e quello contemporaneo, due periodi distanti fra loro ma percepiti, vocalmente, simili.

Infine, come ogni coro sardo, in repertorio abbiamo anche brani ispirati alla nostra tradizione popolare e “rivisitati” nella loro struttura armonica per essere destinati ad un coro misto.

Possiamo dire che l’arte non ha età… se c’è passione in quello che si fa. Anche se sembra che la delibera del Comune di Olbia imponga limiti anagrafici per svolgere il ruolo del direttore?

A questa domanda preferisco non rispondere.

Sarebbe interessante istituire un corso di Storia della musica o meglio una educazione all’ascolto, in modo da poter avvicinare le persone alla musica lirica. Ha mai pensato a questa idea?

Sì e la abbiamo anche realizzata per alcuni anni era attiva la cattedra di Guida all’ascolto tenuta dal prof. Lucio Tummeacciu, docente di organo e composizione organistica presso il Conservatorio di Sassari. In ogni incontro veniva proposto un compositore oppure una forma musicale nella sua evoluzione storica (una sonata, una cantata, una sinfonia) e, al pianoforte, venivano man mano esemplificati i vari aspetti (la struttura compositiva, l’armonia, la melodia); successivamente si passava all’ascolto dell’intera composizione o di una parte di essa. Poi il prof. Tummeacciu si ammalò e, in quel periodo, non trovai un maestro disponibile per questo compito.

La sua scuola ha avviato studenti alla carriera di musicisti concertisti e/o docenti di musica? 

Questa è una di quelle domande che mi procurano un senso di grande soddisfazione personale. Dopo un periodo iniziale destinato a dare alla Scuola una struttura organizzativa e una connotazione didattica, in questi ultimi anni la Scuola ha visto sette nostri ex allievi raggiungere il traguardo della laurea triennale e specialistica: Gabriele Masala, Ilaria Sanna, Nicoletta Careddu in chitarra; Giulia Frau in pianoforte; Elias Lapia in sassofono; Eleonora Sale in arpa; Marco Derosas in violoncello. L’ottava laurea, in pianoforte, a luglio con Eléna Ortu.

Attualmente frequentano il Conservatorio di Sassari: Andrea Molino con la tromba, Marco Cocco con il basso elettrico, Lorenzo Agus con il contrabbasso jazz. Altri nostri ex allievi, pur impegnati in altre attività, mantengono la frequentazione con la musica come attività collaterale al loro lavoro: Antonello Staffa suona la tromba in un complesso jazz e Melania Piras, con il flauto, nell’orchestra dell’Università di Pisa dove frequenta il corso di laurea in Fisica. Infine, Gabriele Masala e Nicoletta Careddu sono diventati docenti di chitarra proprio nella Scuola dove hanno mosso i primi passi come allievi.

I direttori delle varie Filarmoniche son generalmente direttori a vita perché acquisire competenze in campo musicale è di vasta complessità, penso all’assiduo e intenso studio sui fraseggi, sugli spartiti. Nella musica la competenza è sinonimo di esperienza ed esercizio?

La Sua domanda mi fa venire in mente un motto sentenzioso, quasi un aforisma, di Daniel Barenboim, grande pianista e direttore d’orchestra argentino: «Il talento è un pericolo, chi ha talento tende a impigrirsi». Intende sottolineare il fatto che il talento da solo non basta esige un impegno assiduo e un quotidiano esercizio se si vogliono raggiungere elevati livelli di competenza.

Esplorare ampiezze sonore di grandi interpreti, assimilare la letteratura musicale per poi riproporla con intensità differenti come il lavoro meticoloso svolto con il coro “Città di Olbia”, le proposte delle Stagioni musicali… occorre una preparazione di molti anni.

Se mi da un po’ di tempo Le delineo quali sono stati in questi ultimi trent’anni gli eventi proposti dal coro ”Città di Olbia” e dalla Scuola Civica.

Tutto il tempo che è necessario!

Sia con il mio coro, sia con le stagioni musicali organizzate dalla Scuola Civica si sono voluti dare alla Città opportunità e occasioni per conoscere e fare apprezzare compositori ed esecutori  a volte sentiti solo nominare. La rassegna Consonanze, promossa dal Coro “Città di Olbia” dal 1990 al 1997, aveva una duplice connotazione: la durata (due soli giorni, venerdì e sabato) e la partecipazione, in ambedue i giorni, di due gruppi: uno corale e uno solistico, individuati sempre fra i maggiori complessi europei. La splendida cornice della Basilica di San Simplicio amplificava il fascino che il repertorio proposto aveva in sé: dal Canto gregoriano alla musica contemporanea. La ampia partecipazione del pubblico costituiva la migliore approvazione di tale formula rivelatasi vincente: due giorni, due gruppi. Contemporaneamente, sempre il Coro “Città di Olbia” aveva iniziato a realizzare il “Concerto di Natale”, proponendo ogni anno, il 22 di dicembre (data ormai diventata fissa), un concerto per soli, coro e orchestra con musiche di Monteverdi, Pergolesi, Durante, Sweelinck, Charpentier, Vivaldi, Bach, Händel, Mozart, Rossini. Questo appuntamento natalizio ha sempre costituito un momento di forte aggregazione sociale (oltre che culturale): la Chiesa di San Paolo era sempre gremita di pubblico anche quando il tempo era inclemente. Dopo qualche anno abbiamo dato inizio ad una nuova esperienza proponendo il Concerto di Pasqua la cui programmazione è ancora attiva.

Questo con il Suo coro. E con la Scuola Civica?

Fin dal primo anno ho chiesto ai colleghi che si rendessero disponibili per realizzare una stagione musicale estiva. Ero profondamente convinto di due cose: primo, che per gli allievi della Scuola e per le loro famiglie fosse importante vedere i propri insegnanti esibirsi in contesti al di fuori della lezione svolta all’interno di un’aula; secondo, mi sembrava giusto dare loro (tutti valenti concertisti, alcuni dei quali con un curriculum di rilievo internazionale) l’opportunità di fare un concerto in una città che potesse verificarne ed apprezzarne il valore: non sempre il talento ha la possibilità di avere la giusta visibilità. Tenga presente che spesso insieme con loro suonavano, in duo, in trio o in quartetto, anche altri musicisti. Inoltre, dall’anno scolastico 2012-2013 proposi una supplettiva stagione concertistica, questa volta fra l’inverno e la primavera, denominata “Omaggio alla Scuola” andata avanti fino a questa primavera (l’omaggio consisteva nel fatto che i concertisti suonavano gratuitamente, senza percepire alcun compenso). Nel frattempo si realizzavano collaborazioni con varie istituzioni, sia pubbliche che private che portarono a esiti assai importanti. La più significativa è stata quella con l’Ente Lirico di Cagliari che produsse due risultati: un seguitissmo concerto, con l’orchestra dell’Ente, nella Chiesa di S. Paolo l’11 aprile del 2003 e sconti considerevoli di ingresso a teatro per gli spettatori sponsorizzati dalla Scuola Civica di Olbia.

Kirill Petrenko direttore dei mitici Berliner Philarmoniker, d’origine siberiana, ma naturalizzato austriaco, in una intervista dichiara che «la musica è la sola dimensione nella quale si sente come fosse a casa». È così anche per lei?

Ma, vede: quando una persona si trova dinnanzi ad un paesaggio di particolare bellezza… ascolta musica… vede un quadro… entra automaticamente in un’altra dimensione, uno spazio indefinito che però diventa miracolosamente il luogo nel quale uno si riconosce meglio. Ritengo che ciò accada a chiunque faccia queste esperienze. Da giovane, quando mi capitava di ascoltare alcune composizioni di speciale interesse, o di leggere qualche poesia particolarmente significativa ed eloquente ero portato di istinto a percorrere sentieri inesplorati e a trasformarli in itinerari reali. Ricordo, al Liceo, una poesia di Baudelaire che mi aveva particolarmente ammaliato: La Musique. I suoi versi mi conducevano, dentro un vascello, nella vastità del mare alla mercé dei capricci del vento… Quel vascello, allora, diventava la mia casa (ma, forse, era a causa dell’età).

La musica è etica. E se riflettiamo predispone a una società multietnica, in cui l’individuo è in quanto può confrontarsi con l’altro. Naturalmente parlo di culture musicali diverse  ma importanti. Cosa pensa al riguardo?

Da sempre la musica è stata un collante fra culture e popoli diversi. Non esiste nessun periodo della storia della musica in cui un Paese, un musicista o comunque una corrente musicale non abbia assimilato o metabolizzato, maturandole, influenze provenienti da altri Paesi, vicini o lontani, o da musicisti particolarmente autorevoli e significativi. Gli esempi sono tantissimi: ad elencarli e commentarli si riempirebbe una intera biblioteca. A partire dal canto gregoriano e passando attraverso il Medio Evo, il Rinascimento, il Barocco, per arrivare all’Ottocento e al Novecento, non c’è stato periodo storico o musicista che non sia stato luogo di sintesi, con in sé i germi di una nuova esperienza. Mi consenta un ricordo della mia infanzia: da bambino, una delle composizioni che più frequentemente ascoltavo era la sinfonia n. 9 “Dal nuovo mondo” del musicista céco Antonin Dvořák. Pur essendo stata composta nel 1893 durante il suo soggiorno americano e pur riportando come titolo Dal nuovo mondo, dei neri o degli indiani d’America non aveva nulla, ma la didascalia bastava a farla passare per musica generata dal forte interesse che Dvořák nutriva per l’America e per il suo folclore. Questo – ma ancora numerosi altri esempi più pertinenti – dimostra che il linguaggio della musica contiene in sé, contemporaneamente, l’ineffabile e il dicibile; in una parola, l’arte del dialogo. A tale proposito mi capita spesso, parlando con gli allievi più grandi della Scuola, di citare spesso una frase dello scrittore Aldous Huxley: «Dopo il silenzio, ciò che si avvicina di più nell’esprimere ciò che non si può esprimere è la Musica». Da questo apparente paradosso nasce forse l’esigenza di esplorare “nuovi mondi” e capire nuove sensibilità ed esperienze.

La sua Scuola interagisce con questa bellissima potenzialità?

Sì, certo! Anche se in misura limitata e con intenti differenti, diversi nostri allievi sono stati all’estero a perfezionare i propri studi, proprio con il proposito di sperimentare e acquisire metodi, sistemi, conoscenze, abilità supplementari: Elias Lapia in Canada e in Francia; Ilaria Sanna, dopo il diploma in Italia, ha frequentato il Conservatorio reale di Amsterdam; Nicoletta Careddu è stata un anno a Sofia; Eleonora Sale a Madrid.

«Suonate sempre con l’anima; sono le leggi della morale quelle che reggono l’arte; senza entusiasmo non si compie nulla di grande». Robert Schumann lo straordinario folle. Passione, competenza, studio. Come li ordinerebbe? Quali priorità e perché?

La Sua citazione e la Sua domanda mi riportano ancora una volta ai tempi del Liceo e alla figura del mio professore di latino e greco, il compianto Prof. Nino Ferrara. Un giorno, affrontando l’etimologia di alcuni termini, ci spiegò l’origine della parola entusiasmo: deriva dal greco entheos, dio interno e per i greci questo dio interno era la fonte della creatività. Per loro, la parola entusiasmo riguardava un interesse, una sollecitudine così profonda verso ciò che si creava da implicare la “divina follia”.

Mi chiede poi le ragioni nel dare ordine e priorità a passione, competenza, studio. Premetto che non mi riconosco né autorità scientifica né autorità professionale che mi autorizzi a esprimere gerarchie su questo argomento. Posso solo tentare risposte personali.

Credo che qualunque persona abbia a che fare con il mondo dell’arte sia mossa, almeno inizialmente, da un duplice impulso: primo da una innata predisposizione (che si manifesta fin dalla più tenera età); secondo dalla curiosità se tale interesse si manifesta da adulti. L’entusiasmo cui lei fa riferimento citando Schumann, quando si trasforma in attività creativa o comunque operativa ha come caratteristica uno spiccato interesse per ciò che si vuole realizzare e che si trasforma in passione (le due cose credo siano inscindibili); in secondo luogo richiede impegno e applicazione quotidiani; infine, come naturale conseguenza, produce un bagaglio di conoscenze e abilità che formano ciò che viene definita una competenza. Questo itinerario formativo penso si attagli a qualunque attività umana, sia che riguardi la sfera squisitamente speculativa, sia quella manuale, artigianale, artistica.

Ora, un ultima domanda per concludere la nostra interessante conversazione per la quale la ringrazio di cuore a nome di Olbia.it. La formazione di un direttore di scuola civica di musica non si forma con un regolare percorso di studio. Deve integrare passione, dinamismo, capacità di ascolto e di sintesi di letteratura musicale per proporre nuovi percorsi?

Le domande che mi rivolge hanno dei risvolti molto personali che mi portano ad essere reticente. Ciò che sento di dire senza dover parlare troppo di me è che provo a svolgere con responsabilità i compiti che mi sono stati affidati, cercando di intuire le esigenze che provengono dagli allievi e dalle loro famiglie, di soddisfarle e, soprattutto, cercando di sbagliare il meno possibile.

 

lyciameleligios

©️Riproduzione Riservata

[Articolo pubblicato su Olbia.it il 29 Giugno 2019]