34 Premio Dessì si conferma evento culturale di prestigio | Premiazione

Da qualche anno il tempo faceva sentire la sua voce fredda, pungente, come un’eco che parlava di autunni e creava scompiglio tra gli organizzatori dell’evento di Villacidro, costretti in tutta velocità a predisporre una location alternativa, per la serata di assegnazione del prestigioso Premio Dessì.

Ma quest’anno, finalmente, il tempo si è mostrato  clemente donandoci un’aria di fine estate, e nella piazza che taglia a metà il graziosio paesino, abbarbicato su un lembo di montagna,  tra l’affiorare di scorci poetici: campanili,  tetti, abbaini,  e sul basso stradine segnate dal tempo, il 5 ottobre si è svolta la serata di premiazione del 34° Premio Dessì, intitolato allo scrittore sardo Giuseppe Dessì (Cagliari 1909 -Roma 1977)  vincitore del Premio Strega nel 1972 con il romanzo Paese d’Ombre.

Un classico  della letteratura italiana che presenta una straordinaria forza di contemporaneità per contenuti,  oggi sempre più discussi, legati alla tutela e  salvaguardia dell’ambiente.

Alla serata era presente, oltre al pubblico numerosissimo, quel vento che alle volte disperde, avvicina, rimodula suoni e parole. Dà significato al silenzio come luogo del pensiero.

D0EF1F62-BDA2-4263-A0D3-8E8675DC2479

 Umberto Broccoli e Francesco Permunian – Courtesy Archivio Fondazione Dessì

Sul piccolo palco che dominava la valle in cui l’orizzonte sembrava disperdersi, vi era una piccola scultura formata da gigantografie di libri, sovrapposti di taglio, che da attenta lettura dei dorsi erano alcuni romanzi dello scrittore. Ma ciò che attirava lo sguardo era la loro disposizione a forma di  x.  Erano tre e seppur alludendo al trentennale del Premio, (in realtà 34°) forzando sul segno grafico, come intersezione di due rette incidenti, sembrava si volesse enfatizzare quel centro del mondo, il paese di Villacidro, luogo di origine, partenza e arrivo di significati, di idee.

Come ricordato anche dal presentatore della serata Umberto Broccoli, archeologo e volto noto della televisione e voce di RadioUno: “Ogni punto dell’universo è anche il centro dell’universo” come diceva Dessì, in cui alludeva all’universalità e nello stesso tempo centralità del suo paese soggetto dei suoi romanzi,  ma prima di ogni cosa dell’uomo nel suo interrelarsi, nel suo stare al mondo.

Dai suoi romanzi, dalle sue inchieste conservate nelle Teche della Rai emerge una necessità di raccontare e raccontarsi nel trapasso dal passato al presente inspiegabile perché avvolto dal mistero e silenzio ancestrale. Dirà che l’uomo sardo anche se vive in continente “porta sempre con sé quell’alone di silenzio” derivato dall’essere abitante di un’isola, quindi isolato, lontano dai clamori della città. Da qui la volontà di reinterpretare, dare forma e significato al silenzio che si palesa in pensiero, in ricordo, in memoria.

19037A15-AC98-4703-AA7D-26E0519FA6B9

Il presentatore con Gianrico Carofiglio Courtesy Archivio Fondazione Dessì

E Marta Cabriolu, sindaco di Villacidro, nel suo discorso introduttivo sulle orme di Giuseppe Dessì nel suo dar voce al “silenzio”, evidenzia il ruolo degli scrittori “che sentono il mondo che ci circonda in tutte le forme e ne scrivono per suscitare emozioni in chi legge, perché leggere implica una crescita, una conoscenza”.

Ma, le parole non si soffermano a pura descrizione, ora divengono taglienti e dure. Vogliono richiamare l’attenzione sullo stato di abbandono percepito dai docenti e invoca le istituzioni in quanto loro, in primis, dovrebbero “sostenere il diritto assoluto all’istruzione e alla formazione”. Inoltre, possiamo aggiungere che i dati forniti dal MIUR – Ministero dell’istruzione dell’università e della ricerca – sulla dispersione scolastica sono inquietanti: se tra il 2015/2016 l’abbandono nella scuola secondaria di II grado era stato del 3,82%, tra il 2016/2017 è stato del 4,31%. Bisogna sensibilizzare sull’immenso valore della cultura che ha una enorme potere salvifico dalle sabbie mobili in cui sembra arrancare il presente.

“Mai come in questo periodo storico culturale in cui imperversa una triste povertà d’animo di valori e di sentimenti” – dice la Cabriolu – “il nostro paese ha bisogno di un forte richiamo al senso civico al rispetto delle persone, della loro intelligenza, della loro dignità”.

Non può mancare l’attacco ai social e alle realtà virtuali, alle aggressioni verbali, alla maleducazione, all’ignoranza. Un discorso limpido, ben strutturato, che non lascia indifferenti: le istituzioni e chi propone cultura devono impegnarsi per il recupero di una società che sta vacillando e rischia nel cadere di danneggiarsi in modo irreversibile.

Da qui l’urgenza continua la Cabriolu di “ricostruire le nostre identità, quelle delle nostre vite reali fatte di persone, bambini, gente disperata che muore in mare per cercare un futuro migliore”. Un devastante grido di aiuto se si riflette su verità che deflagrano. Fanno male. Arrecano dolore. Bisogna rieducare alla gentilezza, all’ascolto, alla bellezza, al confronto, predisporre luoghi dove potersi incontrare, porsi come esempio nei confronti dei ragazzi e soprattutto trasmettergli il senso del futuro che sarà migliore se verranno approfondite e studiate  l’esperienze del passato, quella memoria storica che è insita nella nostra anima, perché vissuta da chi ci ha preceduto, al fine di non ripetere gli stessi errori.

AFE8F4A2-89DB-4B7A-B41C-00B63C84C22D

Michele Mari e Italo Testa Courtesy Fondazione Dessì

E la vivace settimana culturale, legata ad uno dei premi italiani più longevi,  propone presentazioni di libri, dibattiti, simposi, coinvolgendo anche gli studenti delle scuole. Tra gli obiettivi vi è quello d’infondere l’amore per la lettura, perché leggere è un  ripiegarsi sulla vita stessa, per intuirne le oscure dinamiche. Non è solo raccolta di nozioni ma anche riflessioni. “Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto”  come diceva il nostro caro Antonio Gramsci.

La Giuria

Oltre alla settimana ricca di eventi culturali vengono premiati i testi selezionati da una giuria composta in prevalenza da accademici tra i quali il presidente della giuria Anna Dolfi docente dell’Università di Firenze e socia dell’Accademia Nazionale dei Lincei che nel discorso introduttivo presenta gli altri giurati: Duilio Caocci dell’Università di Cagliari, Giuseppe Langella e Giuseppe Lupo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Gigliola Sulis dell’Università di Leeds (Inghilterra); Gino Ruozzi dell’Università di Bologna; i giornalisti Luigi Mascheroni giornalista culturale de Il Giornale ed editore della collezione artigianale De Piante, Stefano Salis della pagina culturale del Sole 24 Ore; e il Presidente della Fondazione del Premio Dessì Paolo Lusci.

Diamo qualche numero per capire l’importanza e il valore che oggi ha assunto il Premio Dessì nel panorama della cultura italiana. I libri editi esaminati sono stati circa  500  e dopo un’iniziale scrematura di quindici testi, i giurati hanno scelto i tre finalisti.

La  poesia 

Per la sezione poesia sono stati premiati: Michele Mari, voce inconfondibile nel panorama della poesia italiana contemporanea, con un testo edito da Einaudi “Dalla Cripta” dove la parola affonda per struttura in quel passato classico,  che non è percepito solo come formazione necessaria del conoscere e del poetare ma, diviene valore assoluto ed eterno del contemporaneo per l’universalità dei temi trattati: “frammenti di memoria, noi e voi, / precipiti nel nulla a capofitto / perchè il passato è tutto, e siamo suoi”.

Altro poeta vincitore il docente di Filosofia Teoretica dell’Università di Parma Italo Testa, che propone una poetica diafana e trasparente, in cui l’indagine conoscitiva struttura il suo poetare, come sguardo su quella realtà che tutti vediamo ma che non “conosciamo”. Il valore di ciò che non è determinante, fondamentale, che ha una sua forza esistenziale.

Il testo edito da Marcos Y Marcos s’intitola “L’indifferenza naturale”. Una poesia sorta da un’ossessione, cara al poeta, del paesaggio “nel tentativo di precisare lo sguardo sul mondo. La poesia ha il compito di dare un nome alle cose senza nome, rivelarci l’esperienza e vederla sotto un’altro aspetto”.

La terza proposta, vincitrice del Premio Speciale Giuseppe Dessì è Patrizia Valduga.

E30EC2AF-451D-4244-BEF7-503AC8E92165

Patrizia Valduga e Francesco Permunian Courtesy Fondazione Dessì

Una poetessa lodata da Luigi Baldacci, uno dei più grandi critici del ‘900 e per lunghi tredici anni compagna di Giovanni Raboni, poeta e critico letterario. Il testo edito da Einaudi, s’intitola “Belluno. Andantino Grande fuga” e, se non sapessimo che fosse un testo poetico, dal significato delle parole potremmo pensare ad uno spartito musicale con la presenza di un  tempo leggermente lento e una struttura in musica a più voci. In realtà sono quartine che preparano il saggio finale sulla poesia di Giovanni Raboni.

Nate di getto nell’agosto del 2018 a Belluno, l’editore Einaudi impreziosisce la veste grafica, e propone il testo riportando sulla copertina il volto della poetessa quasi ad evidenziare l’originalità della sua voce poetica e del suo farsi esistenza. La parola crea raccordi  nel suo densificarsi  tra paesaggi, letteratura e amore, un sentimento che la poetessa svela e illumina con la parola.

Il testo si pone “come per raccogliere il testimone del grande poeta […] la poesia di Raboni, dopo 15 anni di speciale frequentazione, oltre la soglia della vita fisica,  attraversa l’intero libro ed è oggetto di considerazione della poetessa. Un saggio che vuole precisare questioni rilevanti della poesia e della poetica di Raboni”. Questa la motivazione della giuria che conferisce il premio “con convinzione al più recente e atipico libro di una delle voci più importanti della letteratura italiana contemporanea”.

La poetessa, (che personalmente, mi ha sempre ricordato l’incedere e l’allure della pittrice del secolo scorso Leonor Fini n.d.r.) si mostra nella sua esile e delicata figura dalla pelle bianchissima, quasi lucente, elegante nel suo abito total black. Sale sul palco, visibilmente felice ed incredula. Inizia a parlare. E con voce intimorita e segnata da commozione racconta la genesi dell’opera  nata da una profonda delusione: il mancato sostegno da parte del Corriere della Sera e del Comune di Milano ad un suo  progetto  : dedicare lo spazio di ciò che rimane del lazzaretto manzoniano a Giovanni Raboni. Luogo che peraltro si trova in prossimità della casa in cui è nato.

E continua la poetessa con la voce spezzata, commossa “così mi è venuta in mente questa cosa strana”. La fine dell’opera è segnata da un toccante appello al Presidente della Repubblica, una lettera: “mio caro Presidente, questo è quanto/ accolga la mia supplica e il mio pianto/ che è senza lacrime / che non si asciuga/ il 10 agosto Belluno Valduga.”

Una supplica accorata quella della poetessa, che speriamo venga accolta. L’opera di Giovanni Raboni, al pari di altri intellettuali e letterati, deve avere un proprio spazio perché la sua opera ha contribuito in modo considerevole alla grandezza della poesia e della critica letteraria in Italia e nel mondo.

La narrativa

Dopo un breve intermezzo musicale, dalla voce di Irene Nonnis, si prosegue con la presentazione dei finalisti per il genere della narrativa. Viene premiato Gianrico Carofiglio, autore per certi versi innovativo che è riuscito sviluppare in Italia un nuovo genere letterario il legal thriller. Scrittore molto conosciuto e stimato per la sua lucidità e coerenza intellettuale. Il romanzo premiato “La versione di Fenoglio” edito da Einaudi.

Ma qui ci si vuole soffermare su una domanda posta dal presentatore della serata, che vede una certa assonanza tra Dessì e l’autore sull’utilizzo della parola “scelta”. Una parola presente nel suo saggio “La manomissione delle parole” una riflessione sulla manomissione del linguaggio pubblico”. La finalità posta era quella di recuperare il significato di parole spesso abusate quale giustizia, ribellione, vergogna, bellezza e scelta. Come? iniziando ad evidenziare i contrari delle parole. Dopo un’attenta ricerca la parola “scelta” è apparsa l’unica a non avere contrari. “La scelta  – dice Carofiglio –  è una virtù e la prerogativa fondamentale più ancora della libertà. È un presupposto dell’esercizio della libertà. Per scegliere bisogna esser consapevoli e l’accento viene posto sulla scelta che implica azione” e coerenza.

Dopo una breve lezione di etica (starei ore e ore ad ascoltare Carofiglio per la semplicità espositiva di temi complessi n.d.r.)  viene premiato “Il Sillabario dell’amor crudele” edito da ChiareLettere di Francesco Permunian a cui verrà assegnato il super premio Dessì. Uno scrittore che mostra subito il suo tessuto esistenziale: sensibile, genuino, si definisce ex-centrico, fuori dal centro, lontano da contesti letterari o giornalistici, ama vivere tra le sue cose e i suoi libri, restio ai viaggi, agli spostamenti:  “Gli unici viaggi sono quelli tra le pareti della mia mente. Nello specchio del Garda si specchia il mondo intero” e continua dicendo che non amavano spostarsi tanti altri autori e cita carlo Emilio Gadda, Andrea Zanzotto e poi Vitaliano Brancati che pur avendo viaggiato “vedeva” tutto nel suo paese Zero Branco, in provincia di Treviso. Lì riusciva a vedere la Cina persino l’Olanda. Permunian si rivela una persona che nonostante tanta sofferenza ha raggiunto la sua “misura” della vita, adattando il suo universo creativo alla  scrittura.

La giuria nella motivazione evidenzia la capacità dello scrittore di abbracciare una narrativa ricca di tante sfumature che vanno dal grottesco al comico che “si proietta oltre il racconto di provincia volendo legare dialetto, antropologia, memorie del territorio con le contaminazioni di un’Europa laica e illuminista.”

Il suo stile narrativo, che è stato avvicinato a quello di Calvino e Sciascia, “svela uno scrittore coraggioso, appartato poco incline alle mode letterarie inconfondibile nella voce e nella fisionomia.”

Lo scrittore ama il genere comico, per lui è fondamentale. E per definirne l’importanza cita una frase di un suo autore preferito il filosofo Ralph Waldo Emerson: La comicità è la signora del dolore. Continua in un’irrefrenabile loquacità a parlare dei suoi autori di formazione tra i quali ci sono le “righe” del Cardinale Martini e alcuni autori visionari come Sergio Quinzio, il fotografo Mario Giacomelli che pur avendo la quinta elementare “aveva una capacità fotografica e visionaria in cui mi sono riconosciuto” specialmente nelle tematiche legate all’età dell’infanzia o della vecchiaia.

Si mostra felice di esser ritornato in Sardegna. Quando venne 13 anni fa, aveva trovato una terra simile al suo Polesine, povero e travolto dall’alluvione del Po degli anni ’50. Oggi desiderava rivedere Villacidro. Ma la commozione per il premio diviene tangibile, più intensa quando parla della sua famiglia, della sua storia, della necessità di scrivere quasi per superare un dolore abissale e il suo viso accoglie lacrime e con voce labile, debole parla della figlia Benedetta, alla quale dedica il premio. “Io ho potuto scrivere perché ho avuto accanto una figlia meravigliosa che mi ha sostenuto sempre nella mia vedovanza. Oggi lei ha 40 anni e mi fa da sorella, madre, amica. Mia moglie è morta giovanissima 39 anni fa. Questo premio è per le donne della mia vita. Loro mi hanno dato quel microclima mentale da monaco della scrittura, come lo era Flaubert”.

Il dolore di un vedovo con la figlia di un anno da aiutare nella crescita è incommensurabile. Non ci sono parole. Solo chi vive quell’istante ne percepisce l’abisso.

Dopo questo ricordo struggente che suscita commozione e applausi in tutti i presenti Permunian continua a parlare dei suoi maestri e cita i maestri del Nord Europa, Franz Kafka, Thomas Bernhard, Antonio Lobo Antunes tra i più importanti autori portoghesi con il quale lo scrittore ebbe uno scambio epistolare quando Antunes, medico specializzato in psichiatria, dirigeva l’ospedale Miguel Bombarda di Lisbona. Ora cita i poeti che più preferisce Philippe Jaccottet e Giovanni Raboni.  Loro gli hanno insegnato “cos’è la scrittura, la pulizia, la parola assoluta che ti dà l’esercizio della poesia”. Instancabile e con quell’entusiasmo di un bimbo che affronta la vita con curiosità irrefrenabile per poi raccontare con slancio vitale le esperienze positive vissute, continua a raccontarsi.

“Quando ero studentello  a Padova si credeva che la parte più alta della letteratura fosse la poesia. I miti di allora erano Andrea Zanzotto, Diego Valeri, Ezra Pound ormai chiuso nel suo mutismo. Io mi sono laureato con una tesi su un poeta Vittorio Sereni. Cominciavo a scrivere versi che portavo a Pieve di Soligo da Zanzotto.”

L’autore ricorda che aveva 35 anni era rimasto vedovo da pochissimo tempo. Scriveva poesie che esprimevano la disperazione e il dolore per ciò che aveva vissuto. Tanto che un giorno il poeta lo prese da parte e gli disse ” devi smettere di scrivere con le lacrime agli occhi perché le lacrime escono e cadono sulla pagina e sporcano tutto. Devi scrivere con il ricordo delle lacrime e mi diede la Recherche di Proust e le opere di Raboni”. L’inquietudine, la profondità, la nobiltà d’animo di  Francesco Permunian rimarranno  indelebili nei ricordi dei presenti.

E ora parliamo del terzo vincitore, Matteo Terzaghi, con il suo libro edito da Quidlibet “La terra e il suo satellite”.

Matteo Terzaghi parla della sua incapacità a divagare e dell’importanza della sintesi nella sua opera. Testo conciso, impregnato di significato “come se altre forme non fossero possibili”[…] aggiunge di non esser capace a scrivere un romanzo. “Forse  c’è una corrispondenza tra la forma mentis e la forma dei testi che scriviamo”.

Questa osservazione rimane sospesa, meriterebbe approfondimenti, ma per esigenze di spazio siamo costretti a ricordare le altre importanti premiazioni: Premio speciale della giuria a Claudio Magris uno dei più autentici intellettuali del nostro tempo, autore di libri indimenticabili tra i quali Microcosmi con il quale vinse il Premio Strega nel 1997. Con questo premio si vuole evidenziare “il valore della cultura, dell’intelligenza, dell’impegno, della passione letteraria e civile che ha guidato la sua vita […] un modello di intellettuale” da porsi come esempio. Mentre il Premio Speciale Fondazione di Sardegna viene consegnato: a  Tullio Pericoli, scrittore e disegnatore che sembra render giustizia all’indecifrabilità, la sua è “un’arte della precisione e della visione, […] una pittura che sembra calligrafia dell’anima e del territorio”; altro Premio Speciale Fondazione di Sardegna a Lina Bolzoni, critica letteraria, che ha insegnato alla Scuola Normale di Pisa per il suo lavoro divulgativo inerente alle numerose pubblicazioni e saggi editi sulla Letteratura”.

C6647EAC-F849-4EC2-9FA9-4BC69B39EA7B

Una serata piacevole a tratti divertente ma che ha toccato momenti di pura commozione, scandita e impreziosita dalle letture estrapolate dai testi e da spazi musicali. Intarsi armonici che hanno donato bellezza all’evento.

Si sono valorizzate le opere senza tralasciare i messaggi di portata etica e per certi versi antropologica dello scrittore sardo. Un Premio che continua ad allinearsi con una propria fisionomia tra i più importanti del panorama letterario italiano.

”Quale occasione migliore per offrire una rassegna di scrittori impegnati a riflettere sulla nostra condizione storica, sui nostri problemi, senza che si perdano di vista i problemi più generali del mondo intero… “ Parole di Giuseppe Dessì e Nicola Tanda poste nella prefazione dell’antologia Narratori di Sardegna, una significativa premonizione (anche se nel caso sopracitato gli autori si riferivano agli autori sardi presenti nell’antologia) sugli obiettivi, finalità  e portanza di contenuti del Premio Dessì.

I libri cosa sono in definitiva? sono conchiglie che poggiate all’orecchio per ascoltare il rumore del mare/mondo fanno confluire in noi diverse sonorità/ significati / esperienze   e luoghi di pensiero, stanze da cui non vorremmo andar via.

 

lyciameleligios

©Riproduzione riservata

 

Palau | La fotografia di Fausto GIACCONE tra testimonianza e conoscenza

“Per un fotografo produrre immagini, che si reggano su un avvenimento, può essere molto facile. Molto difficile è produrre immagini su cui l’avvenimento stesso si regga. Rimanga impresso nella nostra memoria. Costruisca la nostra memoria. […] ma “forse, anche l’anima è tessuta di immagini. Una volta realizzate vivono per conto loro. Non hanno più tempo, possono parlare a tutti, anche a mille vite di distanza.” 

Queste frasi del fotografo Tano D’Amico esprimono alcune linee guida, nonché il valore di eterna contemporaneità della fotografia e sintetizzano le finalità del lavoro fotografico di un grande fotoreporter italiano, Fausto Giaccone, in mostra a Palau con una suggestiva e commovènte retrospettiva dal titolo “Sardegna e altri continenti (1967-1977)” visibile fino al 30 Settembre 2019, presso il Centro di Documentazione del Territorio di Palau e inserita tra gli eventi del XXXIII Festival  “Isole che parlano” di Fotografia.

Dopo la mostra fotografica sulla Sardegna al MAN_Museo d’Arte Provincia di Nuoro del pioniere del minimalismo italiano, il fotografo Guido Guidi – con un allestimento curato da Irina Zucca Alessandrelli: “Guido Guidi in Sardegna: 1974,2011” visitabile fino al 20 ottobre – anche a Palau, è possibile cogliere riflessi di una Sardegna al suo risveglio insieme ad altre interessanti storie di vita.

CC293347-9239-476D-AFC2-C8B617FA6285

Piazza Navona, 1966 Courtesy by ©Fausto Giaccone

Una mostra da visitare per significati e riflessioni che scaturiscono dalle immagini, tutte in un rigoroso bianco e nero, che fanno il miracolo di rendere più cristallina l’anima di un passato, passaggio obbligato verso il nostro presente.

Nelle fotografie esposte si da valore al momento vissuto,  senza il quale non saremo in grado di capire il nostro oggi. Si percepisce l’anima del fotografo nel suo “smarrirsi”, per documentare istanti di vita e ritrovarsi più consapevole nel suo racconto, progetto di conoscenza, per sensibilizzare e dare “giustizia” ai protagonisti dei complessi eventi, materie prescelte per le sue ricerche ed indagini antropocentriche.

Il suo sguardo cattura l’oltre fotografico, non si sofferma solo su spazi e superfici: riesce a cogliere quegli elementi che “impressionano” e irrompono fluidi dando luogo a molteplici tonalità emotive quali sgomento, rabbia, speranza, incredulità, tristezza, apprensione e ancora orgoglio, dignità.

FA11C251-223E-47E5-9B98-F896BDA61157

Proteste pacifiste contro la base Usa di Santo Stefano La Maddalena 1976 Courtesy by ©Fausto Giaccone

Le fotografie, circa una settantina, comprendono un lungo arco temporale intessuto da  tante storie segnate da disagio sociale, sofferenza, malessere, privazioni. Ma, ciò che colpisce è la rappresentazione di un gran numero di persone che manifestano, s’incontrano per condividere un progetto, un’idea. Lottano e non sono intimorite, sono guidate dalla loro forza interiore e dal loro pensiero.  Una stanchezza che improvvisamente diviene azione pura verso una destinazione senza più cedimenti né fermate.  Giaccone, come Italo Calvino direbbe che alla fine “contano sempre gli uomini prima delle idee. […] Le idee hanno sempre avuto occhi, naso, bocca, braccia, gambe”. Prima di ogni cosa, ciò che conta è la presenza umana. Le idee arrivano. Sono consequenziali.

Un altro elemento che le distingue, almeno per le foto esposte, è un alone di spontaneità di ripresa: sono poche le figure in posa. Inoltre, è indubbio che l’approccio estetico sia subordinato a certi orientamenti artistici approfonditi durante gli studi sulla storia dell’arte o al filone della fotografia di strada statunitense – agli albori sostenuta dal governo –  di cui ricordiamo Dorothea Lange,  Walker Evans, e ancora Berenice Abbott… 

C93AA68F-B777-4175-8705-5DE8C89DFB77

Terremoto Valle del Belice, 1968 Courtesy by ©Fausto Giaccone

Oltre alla presenza di influssi estetici d’impronta neorealista, si evidenziano le  inquadrature “composte ed equilibrate” che alla “figura umana danno dignità e solennità”, come ad esempio in questa intensa immagine della mamma con il bimbo, per composizione si potrebbe ricordare l’arte sacra. La coperta che li avvolge evoca il velo della Santa Vergine conferendo all’immagine un alone di sacralità, mentre il viso ricorda tratti più umani: incredulità, incertezza, smarrimento.

In altre foto della mostra se volessimo scegliere una contaminazione artistica si potrebbe scorgere quella forza e intensità che richiama  un’opera di Pellizza da Volpedo il Quarto Stato, come segnalato anche  dal  critico Giovanni Chiaramonte.

Il fotoreporter 

Fausto Giaccone nasce in Toscana (San Vincenzo, 1943) tuttavia cresce a Palermo. Nella solare città siciliana si iscrive alla Facoltà di Architettura ma, in seguito  prosegue i suoi studi nella sede di Valle Giulia a Roma. Intanto, inizia a percepire che l’architettura, non sarebbe stata la sua strada,  forse perché rigorosa e razionale.

Mentre fin da adolescente la fotografia gli si mostra inseparabile compagna di avventura che permette di raccogliere ricordi e definire nuovi sguardi e nuove luci. Un “sostegno”  a cui aggrapparsi durante il suo inquieto vagare alla ricerca di una propria identità. Un punto del suo stare al mondo nel fluire dell’esistenza, uno spazio per definir/si.

15DFBB5B-1D8D-4907-89BB-AD0CE16909D3.jpeg

Campo dei profughi palestinesi nei pressi di Amman, 1968 Courtesy by ©Fausto Giaccone

Una vocazione che affiora in lui come desiderio di autenticità, di verità, di libertà da cui la volontà di rappresentare “moti” d’animo, collettivi e individuali, che avrebbero segnato un’epoca e la necessità di documentare la trasformazione sociale in atto, presagio di profondi mutamenti. 

Erano gli agguerriti, ma stimolanti e creativi anni ‘60. Giaccone rimase coinvolto nella loro “trasfigurazione”:  a Roma, nel ‘67, con i cortei di protesta, come le manifestazioni pacifiste contro la guerra del Vietnam –  era l’anno in cui a New York il corteo antimilitarista aveva riunito 500.000 partecipanti – un atto di presenza sentito, dovuto, urgente;  nel 68’ – anno che ha scardinato modi di vivere e di  pensiero, che si voglia o no – con i movimenti studenteschi, le rivolte dei pastori sardi, la rivendicazione di diritti sociali e civili… Si assisteva ad un “risveglio” sociale, una presa di coscienza collettiva di persone diverse per censo o origini, che richiamava la necessità di condividere, di agire insieme, di confrontarsi, di fare politica. 

Nell’ambito della fotografia, la politica iniziava a palesarsi all’interno dei reportage, e come ci ricorda Roberto Mutti – nella prefazione del Photo Book “68 ALTROVE”  – il ‘68 evidenziava  “una svolta rispetto al passato, anche più recente, perché la fotografia cosiddetta neorealista, era stata poetica, lirica e spesso sociale ma non così direttamente politica.”

0505CFB9-B7D8-44D7-9E06-736AD8AA7A53

Roma – Corteo studentesco 1968 Courtesy by ©Fausto Giaccone

L’energia di quegli anni spinse il fotografo a porsi come  testimone visivo,  sottrarre al tempo quegli eventi straordinari per riallinearli all’eternità. Come altri grandi fotografi del periodo si avvalse di questa intuizione: fotografare coincide con il  vivere.

L’autunno rosso dei pastori

Giaccone giunse la prima volta in Sardegna nel ‘68,  come inviato del settimanale Astrolabio, dove raccolse materiale per il servizio di Pietro Petrucci intitolato “L’autunno rosso dei pastori” .

790561CF-3724-4ECB-A6F0-58399081697F

Articolo che raccontava la ribellione  diffusa tra operai, studenti, pastori in vari comuni barbaricini contro “la violenza dello stato e l’inettitudine della classe dirigente regionale”.

In copertina dal colore blu l’immagine di donne e uomini attenti ad ascoltare un comizio. Una foto diversa, originale perché mostrava la presenza degli studenti e delle donne. L’insofferenza aveva colpito ogni strato sociale. Una coesione mia vista prima. Anche nel numero successivo Petrucci scrisse un’altro articolo “La colonia Sardegna: Bilancio della Repressione” corredato sempre da fotografie di Giaccone. 

EA86D779-790B-4D8F-B7F2-A1D33E40EBFE

 Orgosolo 1968 Courtesy by ©Fausto Giaccone

Dalle foto in mostra traspare  dignità e fierezza dei volti che implicano inarrendevolezza, determinazione. Le assemblee studentesche o le riunioni nel circolo Rosa Luxemburg ritratte erano situazioni dove condividere opinioni, cercare soluzioni, scrivere manifesti  “comunicati stampa” si affiggevano sui muri dei paesi. Sguardi fieri, di sfida, spavaldi e attenti. Erano richieste di attenzioni da parte di comunità che erano state trascurate.

6301E55E-F419-4822-A726-F5D9EF5010CF

Circolo giovanile Orgosolo 1968 Courtesy by ©Fausto Giaccone

Nel ‘69, interessato al cambiamento dell’isola, compie un secondo viaggio per realizzare un servizio sull’industria petrolchimica di Porto Torres, nata intorno alla metà degli anni sessanta. Tra le foto c’è un bel ritratto di una giovane operaia per enfatizzare il diritto di uguaglianza tra donne e uomini all’interno della realtà industriale. Nella fotografia appare (in 3/4) il mezzo busto dell’operaia con metà volto sfiorato da una luce intensa e l’altra in totale oscurità. Quasi il presagio del tortuoso cammino che le donne dovranno affrontare per giungere ad una vera parità di diritti.

Dopo un periodo in Africa ritorna in Sardegna nel ‘75 illuminato da un testo che trova per caso in una libreria. Era un libro di Elio Vittorini “Sardegna come un’infanzia”. Rapito dai racconti e dalle immagini – dettati da stupore e avidità di sapere del giovane Vittorini, appena ventiquattrenne –  desidera ritornare nell’isola e indagare su elementi più etnografici come la festa della tosatura delle pecore, con dei rituali ben definiti, oppure la fiera dei cavalli a San Leonardo de Siete Fuentes nei pressi di Santu Lussurgiu, dove sono rappresentati momenti di distensione, di festa, di  convivialità  e condivisione che mettono in luce tradizioni e memoria immateriale della Sardegna.

AC5B3199-6A97-4509-BDCB-9C8918F8D990

Banchetto dopo la tosatura Sa Serra Nuoro 1975 Courtesy by ©Fausto Giaccone

Gli anni ‘70 sono caratterizzati dai viaggi in Africa e in America Latina. Oltre a ciò Giaccone aderisce ad un collettivo di fotografi tra i quali c’è Tano D’Amico, Tatiano Majore e altri.

Tuttavia nel 1976  giunge ancora in Sardegna per documentare la manifestazione anti militare contro la base USAF che deteneva sottomarini atomici nell’isola di Santo Stefano. Inseguito si reca  ad Orgosolo per la  festa patronale dell’Assunta.

Altre foto presenti nella mostra si riferiscono al 1975, quando si reca in Portogallo per documentare la  “rivoluzione dei garofani”  e in particolare l’occupazione dei latifondi situati a sud della nazione da parte dei braccianti agricoli senza terra. Volti stanchi, per il lungo peregrinare ma sorridenti per la vittoria. Le foto accrescono quel senso di giustizia che sembra animare i volti. Uomini e donne a piedi o sui  carri con una luce di speranza nei loro occhi: il desiderio di ricominciare.

F9D7C664-1071-4020-953D-1391590DC4E2.jpeg

Occupazione dei latifondi in Ribatejo Portogallo 1975 Courtesy by ©Fausto Giaccone

Come ricorda Giovanni Chiaramonte nel saggio critico allegato al bellissimo photo book Macondo Il mondo di Gabriel Garcìa Márquez:”Giaccone ha sempre cercato di operare nel nome di una giustizia dell’immagine, nella raggiunta consapevolezza che è l’uomo stesso ad essere per natura immagine, egli ha sempre cercato di far sì che la sua visione fosse un prendersi cura dell’uomo e del suo mondo”.

Negli anni ‘80 lavora per i settimanali Epoca e Panorama. Ma non trascura la sua essenza per raccontare di uomini. Fino a quando quel senso di libertà lo porterà a lasciare il fotogiornalismo e ad occuparsi solo dei suoi progetti.

Colombia e Gabo

Tra il 2016 e il 2010 attratto dal mondo di Gabriel Garcìa Márquez si reca in Colombia. Giaccone è sempre stato affascinato da Gabo e dal suo aggrovigliato ma struggente mondo che ruota attorno al libro “Cent’anni di solitudine” letto durante il periodo militare.

E5D8B92F-3161-418E-9007-C54C220E546F.jpeg

Courtesy by ©Fausto Giaccone

Un anno di solitudine, di insofferenza lavorativa, di tristezza e tanta nostalgia della sua vita quotidiana, dei suoi affetti, dei suoi luoghi. Nel testo dell’autore colombiano Giaccone trova assonanze con la sua vita. In Colombia ricerca i luoghi descritti nelle opere di Gabo alla ricerca dell’anima del grande romanziere e forse della sua stessa anima.

E nel suo narrare  visiva dà volto ai personaggi che richiamano quel mondo di semplicità, povertà, di confini e tumulti tra sentimento e ragione in pieghe dell’animo umano che mutano come il trascorrere delle ore. Soggetti a morte ma anche a nuove rinascite.

Un fotografo che ha acquisito la realtà come fonte di conoscenza e si è posto l’ obiettivo  di  trasmetterla, documentarla,  perché ne ha compreso il valore.

 

lyciameleligios

©️Riproduzione Riservata

 

 

Intervista a Beppe Severgnini | Apprendistato, scrittura e amore per la Sardegna

Esprimi il pensiero in modo conciso perché sia letto, chiaro perché sia capito, pittoresco perché sia ricordato ed esatto perché i lettori siano guidati dalla sua luce”. Queste parole del celebre editore Joseph Pulitzer scolpiscono tracce di scrittura presenti nello stile inconfondibile di un giornalista italiano, scrittore, – tra i suoi libri più famosi: “Inglesi”, ”Italiani con la valigia”, ”Un italiano in America”, ”Italiani si diventa”, “Manuale dell’Imperfetto viaggiatore” “La testa degli italiani” –  editorialista del Corriere della Sera, corrispondente dall’Italia per il settimanale  inglese The Economist e The New York Times, opinionista in vari talk show e conduttore di programmi televisivi: Beppe Severgnini. 

Originario di Crema, assiduo frequentatore della nostra isola di cui ne parla con occhi acquosi, brillanti e un “disteso” sorriso, quasi la risacca del nostro mare quando si abbandona sospesa, prima di allungarsi in un’onda! Una cosa è certa: conosce bene la nostra isola, la sua anima e le più antiche tradizioni.

Giornalista e “scrivente” come lo avrebbe definito il critico letterario Roland Barthes. Infatti,  in  “scrivente”  la  parola  “pone fine ad un’ambiguità del mondo, istituisce una spiegazione irreversibile (che può esser provvisoria)” o un’informazione che può  insegnare, istruire; diverso il significato di “scrittore” dove la parola necessita di “interpretazione”.

126554CC-1B9F-4120-B070-D757BB211303

A noi piace definirlo “scrivente interstiziale” per quell’attenzione al particolare, una premessa del suo riflettere: un distacco finalizzato a una esigenza incontenibile di conoscere, raccontare, trasporre, trasferire ciò che sfugge a causa dei ritmi frenetici di vita.  Quella  velocità che ci impedisce di cogliere l’essenza, la verità o ancora, l’aspetto più cristallino della realtà. A lui non sfugge niente,  ha una capacità focale degna di una Hasselblad.

Se il suo scrivere fosse una fotografia potrebbe evocare alcuni lavori del minimalismo italiano, se invece fosse un un’opera pittorica oscillerebbe tra espressionismo e pop art. Ma possiamo dire che alle sue tele di vita sovrapponga “magiche lenti” d’ingrandimento dove noi lettori amiamo soffermarci, riflettere e ritrovarci.

Il suo pensiero non è solo logos (ragione) ma anche pathos e  ethos: trasmette emozioni per una delicata capacità introspettiva; delinea e motiva principi etici.

Severgnini ci mostra il suo sguardo sulle cose. La parola si impregna d’immagine, mentre il tempo raccorda distanze, nella sua celere fuga. Così esperienze di vita quotidiana s’intrecciano in una sequenza filmica dove la macchina da presa si ferma sui particolari, gigantografie, a volte stranianti.

1E3B97B9-918D-4291-A33C-B4488DC4399D

Gli uffici dei giornalisti correvano lungo il perimetro del dodicesimo e tredicesimo piano e godevano di una vista spettacolare. Credo d’aver trascorso i primi tre giorni a guardare il panorama. Londra, ai tempi, era una città orizzontale. Dall’alto si vedevano le distese di case bianche verso nord, la cattedrale di St Paul, la striscia bluastra del fiume, le macchie verdi dei parchi, i bus che avanzavano come insetti panciuti nelle strade affollate. Appena sotto, vicini, St James’s Palace e Buckingham Palace. Le monarchie amano farsi ammirare dal basso; vederle dall’alto è più affascinante. Quando ho smesso di guardare giù, ho cominciato a guardarmi intorno.

Un breve passo che racchiude la forza espressiva dello stile di Beppe Severgnini. Il brano è tratto dal suo ultimo libro “Italiani si rimane” da cui è nato il “Diario Sentimentale di un giornalista”, (spettacolo teatrale proposto nella Rassegna Il Filo del Discorso, organizzata dalla Biblioteca Civica e Comune di Olbia. Parole fiume, ciottoli  e musica stratosferica. Folgorata. Avevo già l’intervista in testa! n.d.r) 

Nel monologo teatrale accompagnato da Serena Fiore, – curatrice della sezione musicale, – Severgnini racconta la storia della sua vocazione/passione giornalistica con aneddoti divertenti e significativi. L’elemento autobiografico s’intreccia in un amarcord  di storia culturale del nostro paese.

Ma ora tra acume e perspicacia “ascoltiamo” la sua voce familiare, ironica, divertente.

E2D4C9EF-3A71-4871-8E63-4C2C2A112E48

Il suo nome Beppe: breve, familiare, semplice, sembra avere un riflesso della sua scrittura. Ci ha mai pensato?

Beppe è un diminutivo pieno di labiali: non bellissimo, ma rassicurante. E poi è breve; va bene con un cognome lungo e intricato come il mio.  Come tutti sappiamo, un altro Beppe – genovese, più spettinato di me – ha fondato un movimento politico. Evidentemente il nome spinge a fare cose insolite.

Un altro elemento che contraddistingue il suo stile narrativo è l’ironia. Quando ne ha colto l’importanza? 

Quando ho capito che l’ironia abbatte molte barriere. Compresa la diffidenza, la più alta e la più ostica.

Per lei, come per tanti intellettuali, l’illusione ha un valore fondante, quasi salvifico. Quanto può aver giovato alla sua vita?

La perdono, Lycia, di avermi chiamato “intellettuale”: in Italia è una parolaccia! Illusione? Diciamo che da ragazzo avevo un sogno – diventare giornalista e scrittore, in Italia e all’estero – e l’ho realizzato. Mi considero molto fortunato. Anche per questo evito di mugugnare e lamentarmi, uno sport amato da tanti bravi colleghi.

Per anni corrispondente estero in Inghilterra, America, Russia; e ha viaggiato in tutto il mondo, dalla Cina al Sudamerica, fino all’Australia.  Come ha vissuto la lontananza? 

Come una lezione, uno stimolo e un’occasione. Ma sapevo che sarei tornato nei miei posti del cuore: Crema, la Lombardia, la Sardegna.

“Non conta dove e da chi nasciamo, la patria è questione di cuore”: quale significato attribuisce a questa frase? Qual è il paese a cui si sente più legato?  

Sono italiano, orgoglioso di esserlo. Non è sempre facile: il nostro Paese ti manda in bestia e in estasi nel giro di dieci minuti e di cento metri. “La patria è una questione di cuore” vuol dire anche un’altra cosa: il legame di sangue – sul quale si basa oggi la cittadinanza italiana – è meno importante della lealtà, del rispetto, della passione e del contributo che noi diamo a un Paese. Ecco perché sono favorevole a uno “ius soli” temperato: chi nasce e cresce qui deve essere italiano. 

Nel suo libro “Italiani si rimane” (2018), che in ottobre 2019 uscirà in edizione aggiornata Bur-Rizzoli, parla di una figura fondamentale nella storia del giornalismo italiano, il suo maestro Indro Montanelli. Quali grandi eredità le ha trasmesso? 

Meno è meglio. Tre parole. Bastano.

Da giornalista quali consigli potrebbe dare a chi vuole intraprendere la sua professione?  

Imparare a fare molte cose: stare in redazione e fare i giornali (di carta e soprattutto online), scrivere, stare in video, fare video, stare in radio, parlare in pubblico, scrivere un libro. Una di queste diventerà l’occupazione principale, quella che darà da vivere. Le altre verranno buone. 

Ha lavorato con altre personalità del giornalismo italiano: Enzo Biagi, Mario Cervi, Enzo Bettiza. Allora, le divergenze tra giornalisti erano meno accese rispetto ai nostri tempi? 

Anche nel secolo scorso – quando ho iniziato – le rivalità e le invidie esistevano, eccome se esistevano. Ma non c’era internet e non c’erano i social. C’era tempo per far sbollire rancori e malumori. Oggi troppi colleghi sono impulsivi: pensano una cattiveria, la mettono in rete e poi sono guai. Devo dire che io corro pochi rischi: ho molti difetti, ma non sono invidioso. Mai stato. Se un collega è bravo sono il primo a riconoscerlo. Se ha successo, sono felice per lei/per lui.

Diventa corrispondente da Londra per il Giornale a 27 anni. Come ha vissuto l’esperienza londinese? Quanto hanno influito sulla sua scrittura items e/o sovrastrutture concettuali anglofone, più minimaliste? 

A Londra ho imparato la sintesi, l’ironia e a non sbagliare giacca: non è poco. Vedere la mia amata Inghilterra nello psicodramma Brexit è, insieme, un’amarezza e una delusione.

Nel passaggio al Corriere della Sera, Lucia Annunziata, che stava con lei a Washigton, le donò alcuni consigli su via Solferino. Quali erano? 

Ne cito uno solo: mai alzare la voce. Gli altri li trovate in “Italiani si rimane”!

Sardo d’adozione ha vissuto l’ascesa esponenziale della vocazione turistica nella nostra isola. Come l’ha vissuta e cosa migliorerebbe? 

L’ho vissuta con gioia: il turismo ha portato benessere a una terra che amo e frequento dal 1973. Una cosa da fare? Basta seconde case (ristrutturiamo quelle che ci sono!). E qualche servizio in più sulle spiagge accessibili: un chiosco, una doccia e un bagno non rovinano certo i luoghi e l’atmosfera.  Ma la chiave è la distanza: lo Stato italiano dovrebbe impegnarsi per rendere semplici ed economici i trasporti  (marittimi, aerei) per  tutto l’anno, non solo d’estate: la Sardegna ha molto da offrire in ogni stagione. Il mercato non basta: e lo dice uno che al mercato ci crede. 

Una domanda inerente ai social sempre più oggetto di discussione. Come si dovrebbero utilizzare? I politici  dovrebbero avere un profilo social? 

Come si utilizzano? Con cautela. I social (testo, audio, immagini, video ) costituiscono uno strumento potentissimo, che fino a pochi anni fa era risvervato ai professionisti (giornalisti, operatori radio e tv). Non mi lamento, è giusto che le cose siano cambiate. Ma bisogna prestare attenzione. Sui social non si vede solo se sono abbronzato: si capisce anche se sono intelligente e/o stupido, e se ho qualcosa da dire. I politici possono avere un profilo social? Certo. Ma se stanno al governo dovrebbero utilizzarlo poco. 

Se le proponessero un viaggio sulla luna, per raccontare la vita degli astronauti con il suo stile inconfondibile, abbandonerebbe la sua amata Inter?

Porto l’Inter sulla luna. Vinceremmo pure lì. Quadruplete Spaziale: ci manca.

 

lyciameleligios

©️Riproduzione Riservata

 

All Photos Courtesy ©Archivio Beppe Severgnini

Archivio Cervo | Duo Mundi | Un viaggio intorno all’Amore

La melodia è l’essenza della musica”, una verità che ripeteva spesso il compositore austriaco Arnold Schönberg. È quella che ci arriva al cuore, insieme all’interpretazione e alla potenza dell’estensione vocale, ancor prima del significato delle parole. Ci “inizia” al pensiero musicale che non nasce dalla sola ragione, né dal sentimento. È una sfumatura d’infinito, un’intuizione presa al volo, quasi un dono, se compresa da chi riceve emozioni dopo aver affinato i sensi, con il linguaggio delle note.

Infatti, la sua struttura non si afferra nell’immediato. In alcuni generi è necessario acquisire le giuste conoscenze per comprenderla.

Un elemento che può valutare è il nostro cuore, oltre alla nostra sensibilità, che ci predispone ad accogliere quelle armonizzazioni secondo la nostra soggettiva categoria del bello. Abbiamo percepito un emozione con brividi sulla pelle? O sentito affiorar lacrime negli occhi? Pochi elementi che possono indurci a pensare che siamo stati baciati da un’emozione.

E se la musica non fosse purezza del sentire, scevra da sovrastrutture, non sarebbe musica! La musica è libertà. La musica arriva oltre i suoi confini.

Ieri sera è giunta in un oasi che emanava nuove energie, per la presenza di rigogliosi e verdissimi alberi da frutto, quasi respiri di colore tra le case. Qui nello  spazio   dell’Archivio Mario Cervo in via Grazia Deledda ad Olbia abbiamo assistito ad un insolito concerto.

È andata in scena la signora âgée della musica: la lirica e la sua complessa e struggente melodia che ha appassionato e coinvolto emotivamente il numeroso pubblico presente.

Un genere musicale oggi riscoperto anche dai giovani. E se i puristi preferiscono  ascoltarla immersi nel silenzio, nei teatri, o in luoghi con una discreta acustica, per carpirne  fraseggi ed emozioni,  oggi si riscoprono luoghi alternativi, più semplici, ma non per ciò meno suggestivi. Nel giardino dell’Archivio Cervo ci siamo addentrati in un “cammino” musicale con tanti bei fiori da cogliere: note,  luoghi lontani dal carattere esotico, periodi storici,  e ancora sentimenti, emozioni, luci e oscurità, in compagnia di grandi compositori, scrittori, poeti. Un grazioso sogno dal quale non volevamo risvegliarci, testimoni i numerosi applausi, a fine esibizione, che hanno visto i musicisti concedere altri due brani. 

Il giardino si é così trasformato in un piccolo teatro all’aperto, dove la natura e il delicato e cangiante canto, tra lirico e drammatico, del soprano messicano Jessica Loaiza, accompagnata dal pianista Francesco Saba, sono stati i protagonisti di una serata che ha dissolto pensieri legati al #contebis e destato emozioni con le celebri arie della più importante tradizione lirica. 

DSC00557

©ph. lml

Nella seconda parte, invece, siamo stati presi per mano in un “viaggio immaginario” su onde musicali di luoghi oltre oceano: Messico, Argentina, per rientrare in Europa, in Spagna e in Sardegna, con brani di importante valore etnomusicale, e per finire in Campania con due famose canzoni della tradizione melodica napoletana ‘Torna a Surriento’ scritta da Giambattista ed Ernesto De Curtis nel 1902 su una traccia del 1894,  e ‘O’ Sole mio’  in lingua napoletana, divenuta simbolo identitario degli italiani, di Giovanni Capurro,  Alfredo Mazzucchi e Eduardo Di Capua.

Il titolo del concerto “Dell’amore e di altri demoni”,   appare come un’eccellente intuizione perché ha racchiuso una selezione di brani di vario genere, ma con un tema eterno,  l’Amore, che non conosce età e trascende dalla nostra “finitudine” di uomini on the road.

Sentimento che spesso travalica verso forme irrazionali e incomprensibili, tiene al giogo e distrugge, crea pena e profondo dolore, smarrisce;  e viene espresso dalle variazioni di colore, estensioni vocali, tonalità, ed altri elementi propri del canto soprano, e dal pianista che sembra giocare abilmente sulla tastiera, ora con note sospese, pronto a creare attesa, ora un pensiero, una carezza, una parola d’addio.

Il Duo Mundi, come si fanno chiamare,  ci richiama alla mente il concetto di  dualità, duo, come unità, come idea d’integrazione, di scambio, di confronto.  Sembra alludere a quell’oltre/confine che può creare nuove sinergie. Due mondi o due universi che si abbracciano e si integrano con leggerezza e armonia musicale: quello italiano più strutturato, classico, con la presenza del pianista sardo Francesco Saba, diplomato al Conservatorio di Musica “L. Canepa” di Sassari, e quello oltreoceano malinconico e più versatile, con il soprano messicano Jessica Loaiza, diplomata al Conservatorio di Musica “Santa Cecilia” di Roma. Un pianista e un soprano che sono riusciti a creare il loro punto di forza dal contrasto e diversità delle loro culture. 

L’apertura spetta al celebre “O mio babbino caro” dall’opera comica di Giacomo Puccini:  “Gianni Schicchi”. Un fiorentino  che nel periodo medievale organizzava burle divertenti, alle volte crudeli, conosciuto da Dante che lo mise nel girone dei falsari nella sua Commedia.  

DSC00556

©ph. lml

Accanto ai delicati virtuosismi della cantante, che modula la voce con maestria, incantando i presenti, vi è un momento introspettivo, delicato, con l’esecuzione del solo pianista  del Notturno n.1 Opera 9 di Frederich Chopin (1810-1849) che esprime tutta la creatività e innovazione della musica romantica, dove al rigore del periodo precedente subentra la delicatezza del sentimento, la libertà di nuove variazioni, giochi chiaroscurali filtrati dal sentire, dalla nuova soggettività che soppianta la dea ragione osannata nel ‘700. Ora la musica aspira ad una nuova libertà interiore.

Altro struggente e celebre Lied “Margherita all’arcolaio” o “Grethchen am spinnrade” del celebre e umile compositore Franz Schubert (1797-1828) che musicò un Lied dal Faust di J. Wolfgang von Goethe, (che mai espresse gratitudine nei confronti del compositore al pensiero che la musica oscurasse le sue poesie).  

L’intensità drammatica è legata all’estensione vocale della cantante in un pathos crescente. Immobili e tesi ad ascoltare, anche noi forse, schiaffeggiati dal dolore di Margherita per un amore fatto di trepida attesa, sospiri, ricordi.  “La mia pace è perduta” recita la prima frase del Lied: la furia dell’innamoramento che scardina certezze. Si vive soggetti all’impulsività e impazienza. Una forza cieca, che rasenta la follia abilmente tradotta in musica da Schubert e dalle parole della prima strofa “la testa mi ha dato volta”. L‘amore, nel suo stadio iniziale é disequilibrio,  instabilità,  un lirico giro di tessitura, in musica.

Gli umori umani tra delirio di onnipotenza e limite umano rivivono nei struggenti Lieder di Schubert. Scuotono e creano varchi nel buio dei ricordi o dei sogni. Si rivivono emozioni sull’orlo di abissi come avrebbe detto Baudelaire, lui che aveva scandagliato anime alla deriva. 

Dal repertorio classico con arie famose da W. Amadeus Mozart e Gaetano Donizetti, si   passa ad abbracci di nuove note con i classici della  musica popolare tra i quali “Bésame mucho” della pianista Consuelo Velasquez, (Messico 1916-2015) testo scritto negli anni ‘40. Una promessa di amore eterno tra le più interpretate e riprodotte del XX secolo.

DSC00552

©ph. lml

E ritorniamo al canto spagnolo, arioso a tratti intrigante con echi arabeggianti  “Très Morillias”, canzone folcloristica  del XV sec.  e ancora “El Vito” del XVI secolo. 

Oltre all’amore, si cantano altri demoni come la fragilità di una donna coraggiosa che ha rivendicato i suoi diritti di donna, stimata dai grandi intellettuali e artisti del periodo in cui visse,  e che conobbe durante i suoi viaggi all’estero: la poetessa svizzera ma vissuta in Argentina Alfonsina Storni, che ammalatasi di tumore scelse di morire nel mar de La Plata. Una toccante interpretazione della cantante con “Alfonsina y el mar” scritta da Ariel Ramirez (Argentina 1921- 2010).  

Il ricordo enfatizzato dalle parole e dalla musica riflette lo stato d’animo del compositore, e in noi spettatori s’insinua nella mente con i suoi devastanti “perché”. Una “follia” causata dall’angoscia e dall’inquietudine che affliggevano l’anima  della poetessa.  La scelta del suo gesto estremo che traduce ‘antichi dolori’ taciuti. Il mare la sua conchiglia di libertà dove fuggire e nascondersi. Una fragilità  radicata nell’estremità oscura del pensiero. Una forza irrazionale che forse necessitava di nuovi colori: amore autentico e  sincerità. 

Verso la fine del concerto tra canzoni messicane e la celebre “Granada” di Augustin Lara del 1932, viene eseguita l’immancabile canto d’amore della Sardegna  “No potho riposare”  di Badore Sini e Peppino Rachel  del 1936, divenuto il nostro canto identitario.

Un programma complesso e articolato che ha messo in luce la più grande verità: il valore universale della musica come dell’amore. Tante riflessioni su questo sentimento che oggi sembra aver smarrito le sue radici che questa sera ha prevalso distendendo animi e celebrando forme di amore non solo verso la propria amata/o,  verso il prossimo,  verso la propria terra e verso la vita.

L’amore possiede un suo slancio creativo, si dona senza condizioni e senza vincoli, si lega al concetto di libertà, di rispetto, di gratuità. 

Si dona.

lyciameleligios

©Riproduzione Riservata

 

[Articolo apparso su Olbia.it, 1 Settembre 2019]

Cinema #Tavolara19 |”Troppa grazia” con Alba Rohrwacher: David di Donatello 2019

DSC_8921

©ph. lyciameleligios

Attrice giovanissima con una esperienza recitativa da grande star, tanti riconoscimenti e premi tra cui:  due David di Donatello, un Nastro D’Argento, tre Ciack d’oro, Premio Mariangela Melato e tantissimi altri per la sua capacità interpretativa che esprime quel talento innato che la rende unica, riconoscibile: Alba Rohrwacher è stata ospite del Film Festival di Tavolara 2019.

Protagonista del  film “Troppa grazia”, proiettato nella marina di Porto San Paolo, il piccolo borgo poco distante dalla città di Olbia, l’attrice è stata  ospite in un incontro pomeridiano con il pubblico. In una cornice familiare e  informale, più emozionante e più vera. Gli incontri con il pubblico sono moderati dalla storica e infaticabile direttrice Piera Detassis.

Alba Rohrwacher è apparsa con la sua grazia botticelliana, aspetto delicato, carnagione chiara, temperamento a tratti introverso, intimidita (non ama esser fotografata), una voce aggraziata, pacata, diversa, per le sue intense interpretazioni, dai personaggi a cui ha donato il suo volto.

Un’artista che ha inseguito la sua passione, abbandonati gli studi di medicina, attratta dalla possibilità di recitare e ” raccontare storie e farle arrivare a chi le guarda” ed  emozionare.

Nel film “Troppa grazia”  commedia originale, con sfumature surrealiste, diretta da Gianni Zanasi (Cast: Alba Rohrwacher, Elio Germano, Giuseppe Battiston, Hadas Yaron, Carlotta Natoli, Thomas Trabacchi, Rosa Vannucci, Daniele De Angelis, Teco Celio, Elisa Di Eusanio, Davide Strava; Sceneggiatura di Gianni Zanasi, Giacomo Ciarrapico, Michele Pellegrini, Federica Pontremoli) Alba Rohrwacher interpreta una madre separata con una figlia adolescente, che s’impegna con coscienza nel suo lavoro di geometra, accanto una serie di problematiche legate al suo lavoro che le creano uno stato emotivo di timore e disagio.

Infatti, lavorando ad un progetto per un nuovo centro residenziale  “L’onda”, si accorge di alcune inesattezze sulle carte catastali del comune. Nel film, oltre evidenziare i problemi legati al rispetto e tutela dell’ambiente la protagonista si mostra dilaniata tra dire la verità o rimanere in silenzio per non perdere il posto di lavoro.

Ai vari vizi e difetti che caratterizzano la nostra società, sicuramente  ben definiti, vi è la presenza di un elemento originalissimo che denota grande capacità creativa dei team preposto alla sceneggiatura.

L’elemento deviante sembra esser l’apparizione di una profuga che si definisce la Madre di Dio, che  consiglierà alla protagonista di far costruire  una chiesa in quel luogo dove dovrà sorgere il centro residenziale. Un’apparizione incredibile con una  richiesta improbabile, assurda, ad una ragazza semplice, fragile, madre, geometra . Perchè  proprio a lei?

DSC_8912

©ph. lyciameleligios

L’evocazione di una circostanza che fece grande scalpore, quale l’apparizione della Madonna a Lucia dos Santos il 13 Maggio del 1917 nei pressi di Fatima, si ripresenta con tinte leggere, anche se qui la Madonna viene inizialmente confusa con una profuga che chiede l’elemosina e alla divinità si attribuiscono comportamenti umani, che riflettono le antropomorfiche divinità greche.

L’incredulità della protagonista crea situazioni tragicomiche. Pensare di aver visto la Madonna e interagire con lei con alterchi visibilmente fuorvianti riflette una comicità semplice, genuina. Ma la dinamica filmica potrebbe avvicinarsi all’esigenza sempre più necessaria di ritorno ad una certa spiritualità che include valori che oggi hanno smarrito senso e sembrano incancreniti dall’avidità, dalla speculazione, dalla disonestà.

Alla fine due personaggi molto vicini saranno gli artefici di questo profondo cambiamento: l’amico e l’ex compagno.

Il cambiamento crea instabilità, –  è simile ad un’esplosione, –  e permette di interagire con quel “luogo” profondo da cui attingere per andare avanti, per ritrovare quella serenità che permette di affrontare la vita nel suo accadere.

Quel profondo che è la propria spiritualità, c’è sempre, è presente anche quando si rifiuta o quando si rinnega o quando le cose non vanno nel verso che si vorrebbe: la resistenza della protagonista nell’accettare una situazione estrema, “surreale”, quasi onirica per paura di giudizi altrui, troppo presa dall’apparire e poco dalla propria intimità. Solo quando si mostrerà più arrendevole e lascerà fluire il corso della sua vita potrà ritrovarsi.

Durante lo svolgimento del film vi è un chiaro riferimento all’onda che possiamo definire la parola chiave del film.

Elemento visivo di superficie del mare che a seconda delle forze, ovvero l’intensità del vento,  modifica la superficie, ma la parte sottostante, rimane presente, c’è. È solo in parte rifletterà quel movimento. C’è stabilità, c’è presenza. Fuor di metafora: noi con i nostri pensieri, emozioni, circostanze di vita positive o negative che s’innervano nel nostro profondo da cui non possiamo scindere ma sforzarci di armonizzare per capire il senso del vivere.

Questo film dal ritmo lento, dove anche i fotogrammi e le inquadrature sembrano scandire il tempo libera riflessioni profonde e sembra bandire la superficialità di facciata: non solo chi siamo, ma la bellezza dei “luoghi” interiori merita una riscoperta per quella ricerca costante di stabilità emotiva. Il motto sembra essere bandiamo inquietudini e ritroviamo la serenità. Ma come? il film propone una chiave di lettura. Ritrovare il proprio sé.

Un’altro aspetto che suggerisce una tonalità più lirica, oltre la bellezza dei luoghi – resa da una fotografia molto armonica e curata, – è quel vago sapore di nostalgia: cammino ripercorso a tratti con il padre della protagonista ma evidente nel riavvicinarsi all’ex compagno e padre della figlia.

DSC_8919

©ph. lyciameleligios

La nostalgia sembra riallinearsi con l’esistenza. Non è vissuta con dolore ma come accettazione e viene armonizzata nella nuovo approccio alla vita più fluido dove le onde sembrano aver perso la loro forza identitaria e incisiva …

Ora si va alla scoperta del mondo assaporando nuove esperienze di vita in modo più intimo, senza più farsi scalfire e senza smarrire il significato che la “vita è principalmente essenza, spiritualità”.

lyciameleligios

©Riproduzione Riservata

[Articolo pubblicato su Olbia.it il 21 luglio 2019]