“Ma forse anche le cose come stanno / hanno un ordine
tanto più vasto / da uscire dall’inquadratura
…
così il massimo di reale / combacia con l’astrazione pura
come quando la notte / essere e non essere / niente / si equivalgono”
Silvia Bre*
In Italia, ormai da anni, si assiste ad una riqualificazione e valorizzazione di edifici urbani di proprietà del clero. Oratori, palazzi e chiese – parte del nostro immenso patrimonio culturale di incomparabile bellezza – mutano la loro funzione originaria, per divenire luoghi dove ospitare mostre sui nuovi linguaggi artistici o eventi culturali.
In sinergia con le amministrazioni locali, associazioni culturali o privati il quartiere assume valore ponendosi promotore di cultura a 360 gradi.
Uno di questi luoghi è l’Antico Oratorio della Passione depositario di bellezza che resiste il tempo, costruito alla fine del ′400. Adiacente la Basilica di Sant’Ambrogio, nel cuore pulsante di Milano, – città sempre più cosmopolita ma che continua a distinguersi per eleganza e raffinatezza, – lo spazio ospiterà dal 12 al 17 novembre “Imaginibus” una mostra collettiva di arte contemporanea a cura della Jelmoni Studio Gallery.
La Galleria di Elena Jelmoni, fondata nel 1995, lavora in un centro culturale tra i più attivi di Berlino, Londra, Milano. Si distingue per le collaborazioni con l’Accademia di Brera e per la sua costante attenzione a personalità artistiche emergenti e ai nuovi linguaggi espressivi dell’arte contemporanea.
Un Galleria prestigiosa, con esperienza pluriennale, fondata con artisti di rilievo come Denis Santachiara, Bruto Pomodoro, Eugenio Degani, Marina Burani, Graziano Pompili, Fondazione Pomodoro e altri.
Nella mostra “Imaginibus”, tra gli artisti di diverse nazionalità che vogliamo ricordare Paola Colombo, Paolina Ponzellini, Ludovica Chamois, Pino Chimenti, Stefano Robiglio, Eleonora Scaramella, Elisabetta Mariani, Roberto Marrani, Francesco Loliva, Liubov Fridman, Guanzhong Ge, Danny Johananoff, John Kingerlee, Sal Ponce Enrile, Carlos E. Porlas M. Gabriela Segura, Emanuel Shlomo, Mark Stapelfeldt, Hiroshi Wada, David Whitfield, Judy Lange, Maria Scotti, sono presenti due artisti di origine sarda.
Il primo artista è Gianfranco Angioni nato a Cagliari che lasciata l’isola si trasferisce in continente. Ma la sua anima serberà nostalgia per la sua terra. Lascerà Milano per stabilirsi a due passi dal mare, in Liguria.
Sappiamo come il mare crea dipendenza, ma a seconda dello sguardo può evocare il concetto di prossimità e legame. Alleggerisce lo sconforto e inebria i ricordi permanenti, che divengono più vividi.
Gianfranco Angioni è un’artista sperimentale, i suoi linguaggi sono sconfinamenti ora sull’astratto, ora sul figurativo. A ciò si aggiunge una raffinata cura degli esiti cromatici.
Rosalba Mura – Courtesy of artist
La seconda artista sarda è Rosalba Mura, originaria di Barumini, ma olbiese di adozione. Formatasi all’Accademia di Belle Arti di Sassari, inizia il suo percorso artistico con l’utilizzo di linguaggi legati alle prime avanguardie.
Oggi persegue la sua ricerca estetica verso un’espressività essenziale tesa alla de/costruzione presente in alcune correnti artistiche che si svilupparono intorno agli anni sessanta come la Minimal Art e Conceptual Art.
©Cubit, 2019 – acrilico su tela 20×20 – Courtesy of Rosalba Mura
Rosalba Mura sembra mostrarsi sensibile alla mutevolezza o vulnerabilità del reale e persegue nelle sue opere più recenti la rappresentazione di un’alterità che appare “fluida”, fuggevole. Il focus delle sue indagini è una figura geometrica basica il quadrato, struttura semplice, che sembra aver perso la sua perfezione numerica. Quasi a voler condividere il pensiero di un grande astrattista italiano Luigi Veronesi che affermava come i rapporti numerici della figura fossero “non immutabili”. Il significato sfugge ad un significante (forma) ingannevole o viceversa? “La capacità di errore dell’uomo è un guasto biologico esteso” diceva il grande Fabio Mauri.
Le ideologie mutano, strutturate dal tempo. La verità come la qualità divenute inafferrabili esseri fluidi, sembrano soggette ad ad[data]mento, a far/si tempo, si decompongono per ricomporsi altre nel loro frammentarsi e suturarsi/rinsaldarsi o stratificarsi.
Potremo ripercorrere le intuizioni illuminanti del grande Jackie Derrida e Zigmunt Bauman che pur nella loro diversità ci aiuterebbero a cogliere affinità, ma dovremo rimandare ad altri spazi la pluralità di riflessioni che si evidenziano nell’arte concettuale di Rosalba Mura per delimitare incastri logici che hanno usurato congiunzioni esistenziali.
©Peace n marzo 2003 – acrilico su tavola 65×65 – Courtesy of Rosalba Mura
La mostra collettiva ha titolo “Imaginibus”, tradotto dal latino imago, imagĭnis che significa immagine nel risultato di forma esteriore di un oggetto come viene percepita attraverso il senso della vista o riflessa, ad esempio, in una superficie dando luogo ad una dualità di resa realista (oggettiva) o percepita (soggettiva).
Qui si vuole enfatizzare con indagini e percorsi degli artisti uno specifico campo d’indagine relativo al ritratto nell’arte della nostra contemporaneità, ponendo l’accento non solo su chi esegue l’opera ma su chi ne fruisce con un gioco di rimandi tra rappresentazione, percezione e realtà spesso soggettivata, quindi filtrata da analisi introspettiva o più inconscia.
La raffigurazione di questo genere si storicizza, condizionata dal mutare delle condizioni politiche e socio-economiche, dai conseguenti disagi esistenziali di una umanità in cammino che hanno influito sui linguaggi artistici modificando il modo stesso di percepire la realtà – ora più soggettivo – da mutare le caratteristiche fisionomiche dell’uomo.
©Interior Dimensional Wormhole 2, 2019 a. su tela 42×42 – Courtesy of Rosalba Mura
Ogni artista in mostra propone il suo “sentire” che a noi potrebbe sembrare incomprensibile ma, se si affronta con il linguaggio dell’arte, appare nella sua nitidezza. Ognuno si esprime con la propria peculiarità distintiva ora con violenza cromatica, ora si predilige il segno semplice estraneo al decorativismo, oppure si altera la superficie della tela con strumenti, o si distorce – lavorando sul subconscio – la fisionomia dei volti, o con estremizzazioni geometriche.
Ma perché questa esigenza? perché questi linguaggi espressivi? Se si guarda alla storia dell’arte dalla fine del secolo scorso ad oggi il ritratto in senso tradizionale sembra non esistere. Le cause di questo “frammentarsi” sono attribuibili alle condizioni socio-antropologiche che l’essere umano ha vissuto: quali l’industrializzazione e l’avvento della psicanalisi, la diffusione della fotografia, il potere dilaniante della guerra illustratoci ad esempio dall’accentuato cromatismo e successive alterazioni/deformazioni degli espressionisti (pensiamo al celebre Urlo di Edvard Munch) la violenza e astrusità dei campi di concentramento che creavano alienazione, le scoperte tecnologiche e la conseguente moda dei selfie.
©Trittico BN – 2015 acrilico su tela – 3 pz 20×20 – Courtesy of Rosalba Mura
Possiamo quindi concludere che da ogni angolazione si osservi il reale, il rapporto pensiero e mondo, nel sua sintesi artistica, è e rimarrà sempre “proiettivo”, come diceva Fabio Mauri, di una “proiezione con contenuto, (di memoria, fantasia, di cultura) prevalentemente autonomo e produttore di linguaggio ulteriore, di significato inedito, nuovo”. [Intervista di ABO a F.Mauri]
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[* Silvia Bre, La fine di ques’arte – Giulio Einaudi Editore]
©Interior Dimensional Wormhole, 2019 – acrilico su tele 41×41 – Courtesy of R. Mura