Olbia | Arte e tradizioni dal Messico negli spazi dell’Associazione Libere Energie

Novembre 2021 – Aria messicana ad Olbia, negli spazi dell’ Associazione Libere Energie, per una collettiva di artisti di Durango che irrompe nel torpore autunnale e ci induce, in concomitanza della Festività dei Morti, a riflettere sul tema della morte in toni più “luminosi” per la presenza di contrasti cromatici vivaci ed intensi, propri della tradizione messicana.

La curatrice Nuria Metzi Montoya, – di origini messicane e discendente del Montoya muralista, contemporaneo di Diego Rivera, marito della più celebre Frida Kahlo,- propone in mostra opere di alcuni suoi connazionali quali: Manuel Piñon, Alma Santillán, Antonio Díaz Cortés, Armando Montoya, Candelario Vázquez, César Muñoz Carranza, Diana Franco, Tomás Castro Bringas, Juan Rodríguez López, Germán Vallez, Eulene Franzcelia, José Luis Ruiz “el Piípi”, Helder Gandara, Paco Nava, Ricardo Fernández, J.Carlos Mendívil, Manuel Valles Gómez, Milton Navarro, Leonor Chacón Vera, Valentino Salas.

Ma, nella sala espositiva, si percepisce un’insolita energia associata ad un richiamo visivo, che scaturisce dalla varietà cromatica e dalla presenza di una pluralità di oggetti disposti su una struttura triangolare a piccoli gradini: fiori, ceri votivi, arance, frutta secca, specchi, bambole, piccoli teschi, pani, ventagli, marmellate, maschere. È un altare votivo tipico della tradizione popolare messicana che, in questo periodo, numerose famiglie allestiscono in un angolo della casa, in memoria dei propri cari.

Un altare del ricordo per il Dia de Muertos che nello spazio espositivo è dedicato al primo presidente messicano, originario di Durango, Guadalupe Victoria, al pittore realista e muralista Francisco Montoya de la Cruz, allo scultore Benigno Montoya, celebre per le sue stele funerarie e infine alla pittrice Mercedes Burciaga, nonna della curatrice e moglie di Francisco.

Altare domestico

L’allestimento dell’altare domestico come un’installazione artistica, quasi un far confluire l’arte nel quotidiano, oltre al tema della morte – che acquisisce connotati umani da esser identificata nella iconica Catrina (termine coniato da Diego Rivera)* simbolo nazionale, rappresentata con abiti europei come una sposa, – li potremo avvicinare, anche se in maniera semplicistica, alla definizione di “umore nero” che il surrealista, André Breton, vide radicato nella popolazione messicana che tende riconciliare/unire vita e morte.

Un concetto elaborato la cui assimilazione (almeno per noi) risulta complessa, che potremo definire d’avanguardia proprio come quei surrealisti che nei primi del novecento (1920) furono affascinati dalla cultura messicana in cui il linguaggio artistico esprimeva contenuti che stupivano, emozionavano e sconvolgevano.

Ma, sembrerebbe anche un concetto contemporaneo perchè derivato dalla stratificazione, meglio trasversalità, delle varie culture tra le quali: quelle precolombiane associate a culture di varie etnie; quella repressiva e violenta da parte dei colonizzatori spagnoli che tentarono di soffocare usi e costumi autoctoni; la diffusione della religione cristiana; la cultura africana diffusa con la tratta degli schiavi e altri fattori hanno creato un sincretismo originale caratterizzante l’identità culturale messicana, legata al culto dei morti.

Conciliarsi con la morte comporta un elevato grado di atteggiamento riflessivo, di spiritualità, di accettazione, di rassegnazione e implica un esilio dal tangibile, dal materialismo per far emergere tracce di pensiero, azioni, emozioni di coloro che hanno lasciato la terra, convivono nell’anima e si percepiscono come vivi.

La vita accoglie il suo senso con queste “presenze” e la morte diviene più concreta, più umana. Un significato che il poverello d’Assisi ben comprese ed espresse nel suo Cantico delle Creature.

©️Manuel Valles, Attesa, 2012

Osservando le opere esposte, di cui molte legate al Dia de Muertos, si traspone in pittura il sentimento del ricordo, il desiderio di presenza, l’esserci.

Tra gli astratti si colgono urla implose in graffi ripetuti che invadono lo spazio o luoghi dagli esili confini che sembrano sfumare dinanzi al fluire eterno.

Nel figurativo tra surreale, popolare e espressionista troviamo alcuni volti abbozzati, altri profondamente segnati dalla sofferenza dell’assenza – come la bellissima paternità di Tomás Bringas, maestro incisore di Durango – che predispongono ad un’arte figurativa di indagine e di equilibrio nel rappresentare il dolore che rende, inermi dove il colore da struttura, dialoga con gli spazi, emana silente energia o dove la luminosità del bianco illumina e trasfigura quasi alludendo ad una distaccata rassegnazione.

©️Tomás Bringas, Día de los muertos, 1995 | monotipo su cartoncino [particolare]

E ancora figure che diffondono nella spazio della tela la loro consistenza materica in dissoluzione o altre con echi simbolisti che vagano sopra la terra mostrando la nuova natura di angeli che vigilano e proteggono.

La vista è l’organo preposto a seguire pieghe, riflessi taciuti, impercettibili presenze, soccorre dove manca la dimensione, dove accanto alla fissità e piattezza di bizantiniana memoria vi è  sottesa una sorta di bellezza pura che mira all’essenziale senza particolari tecnicismi ma volta ad enfatizzare l’istante creativo nel segno del colore che assume valore semantico.

©️Armando Montoya, Untitled 2005 | vetro, acrilico

S’intravvedono alcune citazioni artistiche, ma la bellezza dell’arte è la capacità di sintesi nell’emulazione inconscia. Ciò apre squarci di cielo per nuove idee.

Una mostra che merita una visita: non solo per vivere un momento di nuove conoscenze etno-antropologiche, riflettere sulla sorella morte per utilizzare le parole di Francesco, gustarsi opere distanti dalla nostra sensibilità estetica ma perché l’evolversi della creatività va di pari passo con quella libertà a cui tutti aneliamo.

©️lyciameleligios

Nuria Mezli Montoya | Sito http://nuriametzli.blogspot.com/

Associazione Libere Energie | via Bramante 55 | h. 18,30 – 20,00 | mostra fino al 12 novembre

Arte | Rosalba Mura, tra lo spazio dell’essere e l’oltre

L’esistenza attiene allo spazio,

e lo spazio emana presenza.

Jorge Eielson

 

“L’arte è una maniera di conoscere, di capire e di rendersi conto cosa è il mondo” – dice Rudolf Arnheim, importante rivoluzionario storico dell’arte, sostenitore del pensiero visuale. 

“Un artista che opera intorno ai problemi dell’esistenza attraverso le immagini inventa, giudica e costruisce – sostiene lo storico –  quando l’immagine raggiunge il suo stato finale egli percepisce in essa il risultato del suo pensare visuale. Un’opera d’arte visuale non è quindi un’illustrazione dei pensieri, ma la manifestazione finale di quello stesso pensare”.

Abbiamo citato il pensiero di Arnheim per affinità con il pensiero e percorso creativo di Rosalba Mura, artista originaria di Barumini ma olbiese di adozione, sempre più presente nella scena artistica italiana ed estera.

Attualmente le sue opere sono esposte fino al 25 Gennaio 2020 a Cagliari nella sede culturale di Hermaea Archeologia e Arte in via Santa Maria Chiara, 24/a,  in una importante retrospettiva dal titolo “StratificAzioni…lo spazio e oltre” a cura di Elisabetta Gaudina e Lucia Putzu. 

Le opere esposte – circa una trentina – rimandano al periodo post Accademia dell’artista, dal 2007  fino  alle più recenti sperimentazioni  vicine a rimodulazioni di Arte Concettuale tra Astrattismo Geometrico, Spazialismo e Minimal Art, dove l’esistere si sintetizza palesando un suo spazio vitale in cui si scandiscono forme, si attuano  scelte monocromatiche, asimmetrie volumetriche, riverberi di luci. Un farsi luogo del tempo teso  a fendersi, a trasmettere, a plasmare, ora a suturare significati che sembrano  rinnovarsi in quella costante temporale  custode e premonitrice nel suo estroflettersi da spazialità disadorna.

Le opere richiamano quella forza impetuosa che trascina inarrestabile al pari della natura: il pensiero e il suo “dinamismo dialogico ininterrotto” come avrebbe suggerito il filosofo Edgar Morin, una frenesia inquieta volta alla ricerca che si spande, si contrae, si dilata, ritorna nel suo esser presente, momento di ri/nascita eterna. 

Oppure le sue indagini si soffermano su quell’oltre dominato da fessure che ora si riempiono, sembrano ripiegarsi, divenire ripetizioni di un sé per riformulare il continuum inafferrabile e imprevedibile, spazio di congiunture, di riflessioni ontologiche ma anche proiezioni interpretative dello scibile.

O forse scelte esistenziali in una contemporaneità di cui si è smarrito il senso, sempre più indecifrabile, che mostra comunque opportunità, alternative di crescita anche se ancora da definirsi ma che esistono nel loro non-essere.

È solo lo sguardo che deve mutar direzione: meno verticale, più  obliquo o meglio trasversale come ci avrebbe suggerito il critico d’arte Philippe Daverio. Uno sguardo più eclettico e com/partecipato che si definirà nel suo divenire.

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©️Rosalba Mura, Compendium 2003 – Acrilico su tavola 10 pz. 

Rosalba Mura viene iniziata all’arte fin da bambina trascorrendo la sua infanzia tra colori, tele e statue che suo padre l’artista Evasio Mura, dipinge e restaura.

I colori, le forme, gli espressivi segni dell’anima nei personaggi ritratti impressionano la piccola Rosalba, dal carattere timido ed introverso, tanto da assimilarne manualità, armonia cromatica e sognare di poter diventare lei stessa una pittrice come lui.

Evasio Mura (1927-2014) un brav’uomo che aveva fatto della sua passione per l’arte una ragione di vita, era un artista/artigiano – secondo l’accezione più rinascimentale del termine – molto affermato. Infatti il clero, principale committente, gli richiedeva opere a tema religioso che oggi è possibile ammirare in vari luoghi di culto della Sardegna: Tuili, Sedilo, Lunamatrona, Barumini, Gesturi e altri.

Ma la vera formazione di Rosalba inizia durante gli anni del Liceo Artistico  dove ebbe come insegnanti alcuni protagonisti dell’arte sarda tra i quali Foiso Fois, Attilio Della Maria e Gaetano Brundu. Mentre Enzo Orti, Giandomenico Semeraro e Clavicembalo Venceslao saranno i suoi professori di riferimento nel Corso di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Sassari, dove nell’approfondimento di tecniche e stilemi della Storia dell’Arte,  inizia a definire il suo percorso artistico  – attratta dal desiderio di “smarrirsi”, percependo un’atmosfera più affine alle sue inclinazioni  – all’interno del prolifico labirinto dell’informale e della sperimentazione, mostrandosi curiosa e partecipe verso le nuove scoperte scientifiche e tecnologiche.

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©️Rosalba Mura, Croce 2005 – foglia oro

Si avvicina all’astrattismo geometrico focalizzando il suo percorso su un elemento, una forma terrena, il quadrato, che al contrario del cerchio con valenza spirituale, rimanda a semplicità espressiva,  purezza e allude  alla volontà dell’uomo a razionalizzare una realtà indecifrabile, sfuggente, mutevole: l’unità di misura dello spazio, su cui molti artisti declinarono i loro linguaggi da Kazimir Malevič a Piet Mondrian,  Giulio Paolini.

La figura ha quattro lati, quattro possibilità di aderenze su superfici diverse o aperture verso l’altro. Avvicinamenti che preannunciano scambi, ri/scoperte, sovrapposizioni, scelte. Rimodulazioni del pensiero che mostra la sua infinita duttilità e valore gnoseologico. La conoscenza assoluta sembra de/comporsi nei suoi elementi formali e l’indagine dell’artista si svolge nel “marcare” una pluralità di punti di vista, nuovi equilibri e prospettive dove significati del reale sembrano  dilatarsi, scivolare in altre territorialità concettuali, o possono venir alterati da fattori socio-temporali.   

La tensione al pensare viene ac/colta, prima che voli come farfalla, per riposarsi su nuovi ed imprevedibili campi semantici.

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©️Rosalba Mura, Working Progress B 2002/2004 – acrilico su legno

L’artista, come Maria Lai, predispone le sue opere verso un’apertura che  pone sullo stesso piano dell’intuizione creativa la tensione ermeneutica consequenziale per colui che l’osserva. Si annullano differenze, e si pone sullo stesso livello chi crea e chi fruisce.

In alcune opere la pluralità di forme sembrano sfaldarsi in un dinamismo fluido, leggero non caotico nel suo ripetersi diseguale. Ma la ripetizione è estranea identità. Lascia intuire che la diversità è il luogo dove ogni possibilità può trovare la sua coerenza.

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©️Rosalba Mura, Sutura 1 2012 – acrilico su tele

Ripercorrendo lo spazialismo di Lucio Fontana oltre la superficie di cui ci narra nei suoi tagli, Rosalba Mura pur vicina al pensiero del maestro argentino, si sofferma nell’approfondire le recenti teorie cosmiche a cui si potrebbe dare un riferimento più esistenziale.

Potremo vedere – avvicinandoci al pensiero di un grande maestro della letteratura  David Foster Wallace, –   i tagli sulle tele come atti di coscienza di ciò che siamo, e forzando nel significato,  la nevrosi esistenziale incisa come uno scalpellino nelle pagine dei suoi libri (penso a Infinite Jest) qui scandita nella tavola dell’esistere con una pluralità d’istanti in cui si afferma, si analizza, si penetra, si sutura, si fa “tasca” si propone un’alternativa o prospettiva/sguardo e poi ancora un’altro, fino all’infinito, come i  mo(n)di a cui sembra voler alludere il linguaggio espressivo di Rosalba Mura.

I tagli di Fontana erano nati da risentimento e il significato che lo stesso artista attribuì fu secondario alla resa formale, semplice intuizione geniale. Alla rabbia e sconforto da parte dell’artista escluso dalla selezione per la realizzazione delle formelle per la porta del duomo di Milano (lavoro che venne assegnato allo scultore Luciano Minguzzi) seguì una reazione: con impeto tagliò la tela con una spatola. La raffigurazione di un oltre con pluralità di declinazioni che precedentemente mai nessuno era riuscito a sintetizzare in un’espressione artistica.

Rosalba interpreta le teorie più recenti sulla teoria convenzionale dell’inflazione eterna sugli universi-tasca molteplici e non solo interrompe lo spazio ma crea una sorta di “tasca”.

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©️Rosalba Mura, Taglio 2 2019 – Acrilico su tele

Se ci distacchiamo da un’ermeneutica dello spazialismo e ripercorriamo riflessi di psicologia emotiva i tagli divengono simboli per ferite, lacerazioni interiori o sociali  e le “tasche”, che ora sembrano coprire le ferite e le fragilità, quali inversioni storiche con una potenzialità, un fieri che implica  superamento proprio per il fatto che è suturato sul limite del vuoto, quindi non più libero. E ci si pone come avvio verso una nuova consapevolezza,  dove il “prima” acquisisce una luce ri/generatrice atta a risanare, ricostruire il “dopo”. 

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©️Rosalba Mura, Working progress 2004  – acrilico su legno 

In alcune opere utilizza doppie tele, o incastra telai in maniera asimmetrica creando una tensione dinamica, quasi fughe verso nuove realtà. Il multiverso oggi prevale allontana, crea divari e disagi e l’artista con un filo chirurgico sutura, chiude ferite. Ricompone, suggerisce nuovi percorsi: la vecchia strada non verrà abbandonata ma rimodulata con nuove idee. I significati soggetti ad usura del tempo possono dissolversi o riplasmarsi.

Il moto perpetuo della modernità divenuto ora fare e disfare, viene rielaborato o riproposto come  curare, riformulare, rimediare quasi a ricordarci che l’oblio di ciò che è stato non salva.

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©️Rosalba Mura, Nike 2003 – acrilico e tecniche miste su tela

In “Nike” (2003) – opera realizzata durante la crisi economica della Grecia – la ricerca formale s’imbastisce su un preciso momento storico. Sottesa una volontà quasi di rimarginare le sofferenze di una nazione sull’orlo della bancarotta, un tempo culla di una delle civiltà più importanti del Mediterraneo. 

Si definisce la temporalità presente/passato con una sovrapposizione, stratificAzione che genera un forte contrasto. Da una parte appare l’oggi (la tela lacerata) nell’atto di esser ri/cucito,  sullo sfondo disegnato a matita un’icona del passato    in cui si evince capacità tecnico-espressiva  – la Vittoria (Nike) di Samotracia (190 a.C) – attribuita a Pitocrito che oggi si può ammirare nella sua straordinaria e ammaliante bellezza al Louvre – in cui s’intravvedono le pieghe della veste increspate dal vento, oggetto di studio di tanti artisti.

La raffigurazione della Nike evoca le grandi vittorie di un tempo che oggi sembrano aver smarrito il senso. Anzi sembrano disancorate dalla realtà lontanissime ed “estranee”. 

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©️Rosalba Mura, Embrione 3 2019 – acrilico su tele e matita 

In “Embrioni” (2013), – di cui analizziamo Embrione 3 –  l’artista esplora con un linguaggio plastico-figurativo l’importanza della geo-metria (misura e proporzione) e delle potenzialità dell’uomo quale unità di misura della realtà. 

La tela presenta alcuni tagli. Una gestualità che ricrea piccole onde, quasi il movimento del pensiero che richiama evoluzione e di cui solo la parte esterna si ricollega alla contemporaneità.

La fessura crea un nuovo spazio in cui è raffigurato l’uomo Vitruviano – homo ad circulum et ad quadratum – di Leonardo Da Vinci (1490), la celebre figura umana elaborata da Leonardo (che dopo aver studiato le proporzioni degli arti nell’uomo arrivò a confermare le teorie di Vitruvio)  diviene metafora dell’uomo come  misura di tutte le cose. Oggi concezione superata dal geomorfismo con il sistema metrico-decimale dallo studio sulla circonferenza della terra. 

Il simbolo dell’uomo vitruviano e delle figure geometriche – quadrato inscritto nel cerchio – allude al superamento del duale, ragione-spirito, verso un nuovo equilibrio, poiché l’uomo stesso “con/tiene” in sé l’universo. Figura ripresa come nuova sintesi concettuale  intorno alla prima metà del novecento e armonia a cui Leonardo aspirava nelle sue infaticabili ricerche.

“Colui che niente ignora mi creò. E io reco in me ogni misura: sia quelle del cielo, sia quelle della terra, sia quelle degli inferi. E chi comprende se stesso ha nella sua mente moltissime cose, e ha nella sua mente il libro degli angeli e della natura” dall’uomo Vitruviano secondo l’interpretazione del Taccola (1381-1458).

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©️Rosalba Mura, SpaceSATOR 2019

Un’altra opera, sempre finalizzata alla sua ricerca spaziale ed estetica, sembra approfondire, ancora una volta, il suo campo d’indagine tra armonia/bellezza ed equilibrio tra parti. Sulla traccia del passato recupera simbologie antiche, enigmi non ancora risolti vicini a riscontri polisemici  come “SpaceSATOR” (2019).

Composta da quattro tele poste una sull’altra, con la presenza di aperture quadrate in ordine crescente dall’interno verso la superficie, in alto a sinistra si  poggia il rettangolo aureo. Centrale leggermente a destra  è posto il quadrato magico del Sator arepo tenet opera rotas, frase che può esser letta in ogni direzione.  La sua presenza è stata rinvenuta in vari elementi architettonici ma anche in luoghi di culto di tradizione cristiana. Diverse le interpretazioni attribuitegli. A noi interessa riportare la pluralità di intuizioni e concezioni, verità che si nascondono dietro a questo quadrato: quasi la difficoltà di cogliere quella definitiva in cui sembra convivere razionalità e spiritualità.

Se osserviamo attentamente l’opera, nella parte inferiore è riscontrabile la sezione aurea o divina proporzione (o numero di Dio) ad esempio riscontrabile in natura (nella conchiglia che tutti conosciamo il  Nautilus) che ingloba con segni di matita il quadrato del SATOR ad enfatizzare il legame tra ragione e lo spirito di Dio presente nella natura e quindi la necessità di dare una interpretazione più spirituale dell’arte.

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©️Rosalba Mura Sinapsi, 2010 – elaborazione e stampa digitale

Un’opera d’arte digitale è “Sinapsi” (2010) dove l’artista definisce la sua interpretazione creativa mostrando la natura dell’intuizione che raffigura come fonte di energia.   

Il primo elemento che emerge è l’affermarsi di una condizione paritaria tra uomo e donna in quanto l’arte non è solo maschile,  ma femminile anche se il cammino di valorizzazione e accettazione è stato molto difficile e spesso incompreso. Inoltre, l’artista immagina l’intuizione creativa al pari dell’energia emessa dal brillamento solare avvenuto nel settembre del 2010.

Come è ben visibile dall’opera, Rosalba riproduce la sua immagine come donna vitruviana, creatrice/artista da cui si genera “l’energia visionaria che si dirama  attraverso le sinapsi” e che investe non solo l’Italia ma si estenderà  al cosmo ad  enfatizzare il legame indissolubile tra il potere creativo e la forza/energia nella realizzazione delle opere non solo pittoriche ma architettoniche, ingegneristiche etc.

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©️Rosalba Mura Qubit 2019 – acrilico su tele

Nell’esplorazione delle varie dimensioni e del multiverso si inseriscono due opere “Qubit” e “Qubit2” con una resa plastica intensa oserei lirica, pur nella loro piccola dimensione. Alla ricerca di  nuovi equilibri l’artista lacera le tele scandendo con appositi spazi il divenire con stratificAzioni che evocano il cammino dell’uomo: frammenti  incollati uno sopra l’altro in un processo evolutivo  su cui il tempo inafferrabile scrive le sue memorie e la luce degli anni s/bianca, cancella per indurre l’uomo a riscrivere. Una tensione concentrica da un interno più piccolo      in seguito sempre più grande, in ordine crescente,  per segnare non solo ciò che è permanenza ma anche ciò che è  innovazione. 

Sono opere vicine alla scultura, aiutano i sensi a librarsi, ad alleggerirsi, a lasciarsi guidare dalla casualità. Il rigore delle opere precedenti sembra superato da un desiderio di espansione, compresenza.

I precedenti equilibri spezzati, sembrano alludere al caos della frammentazione  ma lo spazio creato al centro appare una via di fuga verso una nuova dimensione che permetterà di ritrovare creatività ed elementi da cui ripartire per nuove indagini e percorsi.

Il bianco è il colore dell’inclusione, della polisemia, della ricettività assoluta. È luce che permette di spostarsi tra pluralità. Quella luce che in un’indagine spaziale l’artista rivede quale tunnel spazio-temporale, realtà multipla soggetta a varie forze come ad esempio la velocità che distorce, devia, muta strutture originarie, per accogliere diversità.

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©️Rosalba Mura, Barumini …tracce 2019 acrilico color Barumini su tele

Le digressioni sulle origini affiorano attraverso un linguaggio espressivo vicino all’informale materico. Rosalba rivisita i suoi luoghi in “Barumini … tracce” (2019). Ai tagli disposti secondo una linea diagonale si aggiungono in ordine sparso quadrati di varia grandezza per accentuare il carattere bidimensionale, al pari di una carta topografica.

In alto sulla sinistra il bassorilievo del complesso Nuragico di Barumini situato in un  quel passato che l’artista ricorda ed evidenzia come luogo impregnato di luce, dove le fissure in alto   si aprono verso la pianta del nuraghe alle quali  tende   lo spazio della tela, compresi gli altri tagli in un velato movimento. Ci chiediamo il perché della marginalità, forse si intende enfatizzare quella forza centrifuga che la allontanerà dal suo paese natale? Pensiamo sia per una resa armonica che persegue in ogni sua opera. 

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©️Rosalba Mura, Bimbi Earth 2008 – rielaborazione e stampa digitale

La sfera personale è presente in un’altra opera molto suggestiva “Bimbi earth” (2008) in cui Rosalba scopre la sua maternità ma non desiste dall’idea di creare, di dipingere. Evita l’utilizzo di colori e con la tecnica digitale crea quest’opera in cui sovrappone il mondo alla riproduzione della prima ecografia del suo bambino. 

“Come un ventre materno custodisci e fai crescere la vita. Il mistero sarà mai svelato?” dirà a sé stessa. Ecco che lei diviene forza cosmica e identifica il suo ventre con il mondo che contiene l’essenza pulsante della vita e immagina suo figlio generato “dalla polvere delle stelle” parte/cipe dell’universo, per riprendere un concetto fondante in Jorges Luis Borges.

Rosalba Mura mostra di esser un’artista poliedrica che non conosce confini, attenta a sperimentare sempre nuovi linguaggi espressivi, con un potenziale semantico innovativo e originale, senza tralasciare indagini e rimandi alle  ultime scoperte scientifiche e/o tecnologiche.

La sua arte mai fine a se stessa, votata al dinamismo e alla ricerca, promuove l’essere umano nella sua es/tensione di esperienze, l’immediatezza del percepito, il suo spingersi sempre più lontano fino a sfiorare nuovi orizzonti attraverso un pensare che è per sua natura quell’andare oltre che struttura e dà significato al nostro vivere.

Strofiniamo il buio

per farne luce” 

Franco Arminio

 

©️lyciameleligios

Riproduzione Riservata

Atelier Bolt | Segni dell’anima: l’arte astratta di Jean Córdova

Accadrà ancora, di nuovo

l’immagine frana nella luce

succede sempre, senza scampo

nulla torna mai intero. 

 

Italo Testa 

 

Nel cuore dell’Europa, in quella zona della Svizzera orientale definita Cantone dei Grigioni, dove la natura si veste di abbracci tra acque lacustri, montagne di luce, cieli che filtrano sogni, in un dinamico centro d’arte, l’Atelier Bolt di Klosters, è in corso la prima solo exhibition dell’artista tempiese Giancarlo Orecchioni, in arte Jean Córdova.

La retrospettiva a cura di Adrian Schütz, storico dell’arte, è in mostra fino al 15 novembre 2019,  espone le opere di un lungo arco temporale: dal 2009 ad oggi. Questo, permette di analizzare  il lungo percorso evolutivo e di ricerca del giovane artista.

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©️Archivio Atelier Bolt

La sede espositiva, di proprietà dello scultore Christian Bolt ha una funzione rilevante nel suo porsi centro di promozione e sostegno dell’arte. Infatti, con cadenza annuale si allestisce una mostra dedicata ad un giovane artista emergente, ovvero che sia riuscito ad imporsi con il suo caratterizzante linguaggio espressivo tra quelli complessi e polimorfici dell’arte contemporanea.

Christian Bolt è uno scultore molto apprezzato, celebre per le sue intense sculture. Tra i suoi estimatori troviamo il grande cantante pop Elton John, che  ha  acquistato alcune opere per la sua eterogenea e ricca collezione d’arte. 

Jean Córdova, l’artista scelto per l’anno 2019, vive tra la Sardegna e la Lombardia, anche se da alcuni progetti sembra mostrare un legame indissolubile con la sua città natale, Tempio Pausania, in Gallura. 

Luogo con un caratteristico centro storico, dove i frammenti di quarzo, dal granito delle case,  sembrano brillare a seconda dell’inclinazione dei raggi solari. Ora riflettono, ora assorbono  luce, creando atmosfere dai forti contrasti: gioia o malinconia.

Ma ciò che pervade è una sensazione di atemporalità, di pacatezza, di misura, di silenzio, in spazi preposti alla meditazione e al riposo. Da quel piccolo centro si origina quella riflessione profonda che diviene paradigma e struttura del linguaggio artistico di Jean Córdova. 

Dopo aver frequentato il liceo artistico nella sua città natale, l’artista continua la formazione a Carrara iscrivendosi all’Accademia di Belle Arti e in seguito allo IED – Istituto Europeo di Design – di Milano. In quegli anni di peregrinazioni incontra lo scultore Christian Bolt che sarà una figura di riferimento per la sua “crescita artistica e umana”.

Oggi Jean Córdova è un’artista stimato, che ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Presente in mostre personali e collettive in varie regioni d’Italia dal 2008.  Qui, si ricorda tra gli artisti che hanno rappresentato la  Regione Sardegna nel Padiglione Italia di Torino, in occasione della 54 Biennale di Venezia.

Da un primo sguardo d’insieme alle opere pittoriche  di Jean Córdova è possibile evidenziare la sua vocazione astratta, (anche se lui non ama definirsi astrattista) tendenzialmente aperta a continue sperimentazioni, non legata ad alcun elemento figurativo. Le forme nascondono  tracce di vita da cui attingono e divenute simboli  ne abbracciano pensieri, concetti. 

Un’arte concettuale, introspettiva che sembra riflettere l’altro da sé che appare molto vicina all’interessante avanguardia americana degli anni ‘50, definita Espressionismo Astratto. Aldilà della sgocciolatura o action painting inventata da Jackson Pollok, o del clima di protesta che aveva determinato la nascita del movimento, qui sembra si assista alla presenza di una certo gesto spontaneo delle pennellate,  ad ampie stesure del colore, semplificazioni,  scelte cromatiche più vicine allo spirituale dell’arte di Vasilij Kandinsky dove il colore  assume un  valore semantico.

Le opere del Córdova oltrepassano la sfera della fisicità, del realismo, esprimono concetti/idee che sembrano disporsi  in una rete di ricordi associativi. Ogni idea ne richiama un’altra.

La relazione come struttura del  conoscere è un campo d’indagine della filosofia del ‘900, l’artista sembra supportare questo indirizzo presentato in  varie serie con elementi interconnessi  tra loro, permettendo di cogliere quell’unità semantica che altrimenti non potrebbe esser colta.

 

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Serie Aegritudo Fulgura #2 – Courtesy of Jean Córdova 

Una serie realizzata nel 2015 s’intitola “Aegritudo”. Mostra una esperienza estetica che riesce a dare forma all’imponderabile. Il titolo è una parola latina che significa sofferenza dell’anima, lacerazione, strappo.

Sulla tela segni di margini, confini, ripetizioni, ma anche legami, contatti. Lo spazio appare circoscritto. Si può leggere un certo dinamismo e prospettiva. Il cerchio è la figura/simbolo che prevale. Si stacca dalla tela. Un malessere che incide, lascia traccia ma sembra originare una luminosità circoscritta differente. Un varco, una potenzialità. L’alternativa, un mutare.

Sisifo invece è un’opera – all’interno della stessa serie, sulla sofferenza dell’anima -che richiama un mito della Grecia antica.  L’uomo più astuto tra i mortali, nel Regno dell’Ade  vive la ripetizione eterna di una stessa azione, quasi un’automa, privato della sua volontà, è costretto a trascinare un pesante masso lungo un pendio collinare in modo ciclico (raggiunta la vetta il masso cade a valle e Sisifo lo ritrascina a monte).

Un’immagine dell’uomo contemporaneo, soggetto a corsi ricorsi iconicizzati, un silente urlo di dolore: quella ripetitività diviene immobilismo, impedisce un’evoluzione.

Anche in questa tela sembra che l’oscurità e i lembi della lacerazione lascino spazio a significati diversi. Una potenzialità inespressa rimane sospesa. Gli accenti cromatici ora più sfumati, rosso e viola. La luce una verità di presenza, di possibilità. La ripetitività aliena forza  che devasta, segrega.

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Serie Rerum Naturae (Corpora Rerum) – Courtesy of Jean Córdova 

La necessità di un’indagine metafisica è presente nell’opera “Rerum Naturae” (Corpora Rerum)  tradotto dal latino la “Natura delle cose” – i corpi delle cose. La scritta latina potrebbe ricondurci al poema lirico scritto da Lucrezio, De Rerum Natura, nel I sec.a.C. Forse acquisisce l’idea di Lucrezio che la natura è materia ma anche  vuoto? Nell’opera “Incertus” l’indagine viene spostata verso le categorie di tempo e spazio. 

Continua nelle sue ricerche filosofiche ora più impregnate di esistenzialismo. L’uomo non è solo essere ma esser/ci, e in quanto esistenza sente l’esigenza d’indagare sull’animo umano e sui tormenti della contemporaneità.

Un’opera s’intitola “Acedia”. “Una brutta bestia” che immobilizza l’essere umano e se analizziamo il disegno sembra visibile un volto stilizzato di un animale.

Colpisce per i segni scuri, di un nero intenso e cupo nella parte bassa, che lentamente virano verso un rosso Persia o veneziano nella parte più alta. Una via di fuga determinata da una fonte di energia? dall’amore? Da una rinnovata spiritualità? O semplice consapevolezza?

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 Serie Aegritudo, Acedia 2015 – Courtesy of  Jean Córdova 

Dal greco akedia: malinconia da spirito di solitudine, da mancanza d’interesse, da noia. E citiamo l’esistenzialista, intellettuale Jean Paul Sartre che ne parla in un suo capolavoro La Nausea, sostenendo che l’acedia si identifica con la nausea, il non senso che trasforma l’essere fino allo smarrimento e depressione. Legato all’insoddisfazione che si cronicizza, nell’individuo crea fratture e in un percorso di vita, argina o delimita sempre più lo spazio esistenziale.

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Serie Come Vaganti, Ad Oriente 2016 – Courtesy of Jean Córdova 

In una serie del 2016 “Come vaganti” sembra sviluppare concetti di libertà spazio-temporale. “Vagare” è un andare senza meta, quasi “un brancolare nel buio” avvolti dal mistero del destino, quel filo che lega la vita alla morte.

Si tracciano percorsi emotivi, esperienze, sensazioni, materia che l’artista traduce e vivifica attraverso il suo linguaggio espressivo. Sotteso un monito che sembrerebbe  racchiudere un celebre proverbiò che dice  “se non sai più dove stai andando, ricorda da dove vieni”. Ma si potrebbe alludere all’eterna inquietudine dell’essere umano che alimenta l’energia vitale e creatrice?

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Serie Oblomov, #5 – Courtesy of Jean Córdova 

Nella serie “Oblomov” del 2016 la forma diviene margine, ha funzione decorativa. Assistiamo a pennellate piatte, larghe che mostrano un ritmo simmetrico.  Lo spazio diviene luogo esperienziale da riempire di eventuali finalità/contenuti.

 In alcune tele la presenza di sottili segni verticali possono alludere alla velocità. Forse la fugacità della vita, tra incidenze che plasmano significati e formano l’essere umano.

Ma chi era Oblomov e che rapporto ha con le opere dell’artista? Qui si potrebbe evocare il personaggio del celebre romanzo di Ivan Gončharov, capolavoro della letteratura russa.

Oblomov era un uomo ricchissimo che viveva una vita “sospesa”: un continuo rimandare il momento del suo vero e autentico vivere. Viveva di riflessi, delegando, oziando. Una vita intrisa di paure, idee preconcette e pregiudizi. Una triste vita a margine del fluire dell’esistenza. Nelle tele lo spazio centrale libero, esprime l’assenza,  potrebbe contenere una sintesi esperienziale, sembra preposto ad accogliere.

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Un grembo gonfio di nuvole d’oro, o grigie, e nere (Serie In forme) Courtesy of Jean Córdova 

Dopo l’indagine sullo spazio esistenziale dove si aggira l’essere nella sua affannosa  ricerca, la serie “In forme 2018” presenta alcune opere con cromatismi che evocano plasticità, in altre sembra si attribuisca alle pennellate una certa tensione dinamica o si cerca di definire lo spazio con piccole campiture di colore tipo taches (macchie).  

Nell’opera presentata sopra vi è un percorso che si snoda all’interno di un campo cromatico giallo che trasuda energia. Un volgersi verso, un tendere a,  si focalizzano   passaggi che implicano stadi necessari per raggiungere l”in forma”. Ovvero, nella vita di ogni individuo assume valore fondante l’esperienza che ci forma e ci definisce nell’essere.

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Serie Labirinti: Labririnto + Case + Acqua, 2009 Foto G.Pedroni Courtesy Jean Córdova 

In Jean Córdova, o almeno in queste opere analizzate e visibili in mostra, appare inscindibile il binomio arte e filosofia. Infatti è possibile delineare una propensione ad una indagine  metafisica e esistenziale dove “l’uomo è natura che prende coscienza” – per utilizzare le parole di un grande libero pensatore Élisée Reclus, –  s’interrela con lo spazio ed è caratterizzato da quell’anelito esistenziale che lo conduce verso un cercare infinito.

Sono presenti dei passaggi che inducono ad una consapevolezza maggiore del desein (esserci) di Martin Heidegger: l’uomo è da considerarsi non solo nel suo essere ma con una finalità quella del cercare, che implica dei percorsi e definisce l’esser/ci.

Si può ritrovare inoltre quella soggettività che tradotta come energia e movimento da Jackson Pollock, ha reso visibili ricordi, pensieri, sfumature dell’animo. Il piacere estetico potrebbe esser il “riflesso filosofico della verità” come avrebbe detto lo storico dell’arte Michel Seuphor mentre la natura della forma è l’incarnazione della sua stessa vita.

Un artista che scruta con accuratezza il suo presente contemporaneo, da cui enfatizza quel passato che struttura l’istante  vissuto e nella sua ricerca di resa d’assoluto o di tensione universale del suo rappresentare,  permette di smarrirci tra meraviglia e stupore: quale la risacca dell’onda nel suo rimaner sospesa. 

Quell’istante trascurabile, che noi a stento riusciamo a vedere assume un’importanza straordinaria. È la tregua che ritempra l’animo in ascolto al respiro della vita. Il luogo  che permette di ritrovare unicità, semplicità, verità. Sì, perché negli spazi creati da frammenti, negli istanti sospesi, lì palpita la vita nella sua potenzialità. Un decostruire per ridefinirsi e aprire la mente verso nuovi flussi di pensiero.

“Ogni persona che vive nel ventesimo secolo dovrebbe  sapere che la perfezione fisica è che la conoscenza quantitativa o scientifica è semplicemente informazione o un assoluto di perpetua incompletezza, e che l’estetica è quasi completa o perfetta come possiamo, essendo l’unica forma qualitativa di conoscenza che possediamo”. (Michel Seuphor – Abstract Painting Lauren Edition)

 

lyciameleligios

©Riproduzione Riservata

 

(Articolo pubblicato su Olbia.it il 3 novembre 2019)

A GAVOI è “Bloomday” | MAN_Museo presenta opera di Miroslaw BALKA che celebra JAMES JOYCE

Non era un giorno qualunque. Era un giorno che diverrà un  punto chiave della nostra modernità. La descrizione di una lunga giornata saltellando dentro e fuori i pensieri dei protagonisti, in un tempo privo di confini, per ritrovarci travolti da fiumi di parole  o meglio definito  “stream of consciousness” – flusso di coscienza – pensieri in libertà come si originano nella coscienza senza ordine logico. E con un viaggio all’interno di se stessi si rifiniva un nuovo abito di scrittura creativa. Si direbbe. In tanti l’avrebbero indossato, minuzzato e adattato a sé. 

Era un giovedì 16 giugno 1904.  Forse, alcuni ricordano questa data oggi divenuta simbolo di modernità, nell’ambito letterario, per la nascita di nuova forma di romanzo non  più soggetta a  rapporto di causa ed effetto come voleva la tradizione precedente. Nasceva il romanzo psicologico del ‘900.

Il giorno, “luogo” di scena che sembra non conoscere confini, è tratto  dal suo romanzo più famoso l’Ulisse dove si raccontano le 24 ore trascorse dal suo antieroe Leopold Bloom.

Lui è lo scrittore più rivoluzionario ed innovativo che la storia  della letteratura ricorda: James Joyce (Dublino 1882 – Zurigo 1941). Un autore che intimorisce per l’esuberanza di una scrittura esplosiva, complessa, a tratti ostica.

Dublino, Città della Letteratura per l’Unesco, rivive l’atmosfera di quel giorno nel Bloomday,  festival letterario frizzante e movimentato a tratti folcloristico, molto coinvolgente.

Anche la Sardegna, sembra idealmente coinvolta. Celebrerà lo scrittore e la sua opera nel “magico” paesino di Gavoi, dove il cielo disegna la sua luce su graniti e gerani rossi, nel Preludio del Festival Letterario “Isola delle Storie” che si svolgerà dal 4 al 7 luglio.

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Al Museo del Fiore Sardo domenica 16 giugno (stesso giorno del romanzo) alle ore 18:00 ci sarà l’opening di una mostra, curata dal Direttore del MAN di Nuoro Luigi Fassi, –  grazie alla Fondazione Antonio Dalle Nogare di Bolzano,  – vedrà esposta fino a domenica 7 luglio l’opera scultorea  (250 x 280 x 120) “Sweets of Sin”  di Miroslaw Balka  (Varsavia 1958) ispirata a James Joyce e alla sua opera letteraria l’Ulisse.

L’Artista

È prestigioso avere un’opera di Miroslaw Balka in Sardegna. Impegno di un’istituzione museale, il MAN di Nuoro, che orienta le sue ricerche e proposte in un’ottica sempre più internazionale con linguaggi artistici che riflettono la complessità del nostro viver contemporaneo.

Balka è un artista-filosofo di grande rilievo nella scena dell’arte contemporanea che vanta tante presenze alla Biennale di Venezia,  alle  Biennali di Liverpool, di San Paolo, di Sydney e Documenta IX solo per citarne alcune.

Un artista che nelle sue opere non si pone solo finalità estetiche, ma concettuali, intellettuali. Secondo un processo di comprensione dell’opera (specie nell’arte contemporanea) il fruitore non è un semplice osservatore passivo ma colui che partecipa attivamente con il proprio pensiero. Le opere di Balka, inducono  a riflettere e ad analizzare l’opera quasi  fosse un testo letterario.

Le sue indagini sono “in bilico” su precipizi o abissi del nostro viver contemporaneo: superficialità, frivolezza, fragilità, vuoto mediatico, solitudini, sentimenti, memoria storica… “cosa ci rende umani” promuovendo quel “conosci te stesso” caro a Socrate. La sua finalità è definire e recuperare valori sempre più alla deriva.

In quest’opera, una scultura dal titolo 250 x 280 x 120 Sweets of Sin realizzata da Balka nel 2004 per la collettiva “Joyce in Art”, l’artista mediante un’opera simbolica di raffinata e armoniosa sintesi, rimanda ad alcuni elementi dell’universo joyceano per celebrare l’autore e la sua opera più famosa l’ Ulisse.

Opera rivoluzionaria per struttura narrativa e linguaggi, pubblicata nel 1922 a Parigi che fece scandalo e attirò critiche e polemiche. Tre i protagonisti: Leopold Bloom, Molly, moglie fedifraga ma a sua volta tradita dal marito e Stephen Dedalus, alter ego di Joyce.

Balka sintetizza il “fluire” offrendoci una pluralità di “assonanze” con il testo di Joyce.

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Courtesy of Museo MAN

L’opera

L’opera, nell’analisi spaziale, è composta da due elementi uno sopra l’altro o vs., una struttura orizzontale e una verticale con cavità regolare, disposti in maniera armonica quasi fossero un unico blocco di sostegno reciproco nel loro completarsi.

Questo potrebbe rimandare al monologo interiore e/o al flusso di coscienza che caratterizzano la tecnica narrativa dello scrittore, dove i ricordi, gli stati d’animo, i pensieri dei personaggi si rincorrono spontaneamente nella loro coscienza, in apparenza senza un filo logico, intaccando in vari livelli la struttura del romanzo.

Quasi pensieri concatenati seppur in libertà: una struttura orizzontale sembra esser sovrapposta (un po’ come l’accavallarsi delle idee, al pari delle onde)  all’altra verticale dalla quale, come se fosse una fontana, da un piccolo tubicino fuoriesce del whisky; una figura solida “l’accavallarsi” delle idee, al pari del moto ondoso fluido, inarrestabile.

Un elemento che allude alla sua vita. Joyce, infatti, era un gran bevitore di whisky che sembra essere un “valore” costante nei suoi romanzi, gli attribuisce salvazione, diviene “sorgente di vita” al pari dell’acqua. Forse, anche lui, aveva necessità di bere per evidenziare idee su livelli diversi, come diceva Ernest Hemingway riguardo al suo scrivere.

Ma, il fluire continuo di questa sostanza potrebbe simboleggiare lo scorrere delle immagini che rimandano alle idee contrastanti nei monologhi dei suoi personaggi.

Oltre all’utilizzo interscambiabile dei vari registri linguistici, Joyce utilizza la figura retorica della sinestesia: la contaminazione dei sensi su base soggettiva, che oggi è sempre più utilizzata nell’arte contemporanea e dai pubblicitari. Balka la riprende  per indurci verso lo stupore, vuole farci percepire una nuova sensazione. L’odore forte del liquore si propaga attorno alla fontana che profuma di whisky. Un contrasto incisivo che lede la nostra consuetudinaria immaginazione.

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Courtesy of Museo MAN

L’asse orizzontale è fatto di gommapiuma, materiale utilizzato nei materassi, qui appoggiato all’asse verticale potrebbe alludere all’insonnia dei protagonisti; durante la notte il flusso dei pensieri inesorabile continua inarrestabile, irrequieto e tumultuoso.

Ricordando il titolo dell’opera 250 x 280 x 120 Sweets of Sin (Le dolcezze del peccato) si può notare come l’artista abbia ripreso lo stesso titolo del romanzo erotico che leggeva Molly Bloom moglie di Leopold.

Joyce ha sempre temuto di esser stato tradito dalla moglie Nora e riporta questo suo malessere nell’Ulisse. Balka lo ha ripreso è reso universale. Si riaffaccia un certo filone religioso che induce a riflessioni sul peccato e forse possibili rinascite. La scoperta delle lettere di Joyce alla moglie Nora testimoniano la sua predisposizione per contenuti erotici e le allusioni esplicite sono presenti anche nell’Ulisse.

L’Ulisse di Joyce è  un’opera che implica un’indagine nel cammino di un uomo dall’interno della sua coscienza, non più dall’esterno come nel vagabondare “materico” di Ulisse nell’Odissea.

E la stilizzazione del flusso del liquore nell’opera di Balka oltre a riflettere sul continuo fluire della vita, del tempo inarrestabile,  soggiace alla stessa idea di Joyce ovvero la percezione deriva da un’impressione esterna verso la propria interiorità. 

Quasi un corollario all’opera di Balka estremamente raffinata, mimesi di letteratura contemporanea che conferma quel lega/me  inscindibile con l’arte.

©lyciameleligios

(Articolo pubblicato su Olbia.it il 15 Giugno 2019)

 

Al MAN di Nuoro “Personnages” prima mostra in Italia di Maliheh Afnan

“La memoria non è un cassetto dove giacciono, come oggetti già definiti e noti, i nostri ricordi. Piuttosto, si infiltra nelle pieghe del nostro tempo, contamina la nostra percezione attuale…” Questa frase di Massimo Recalcati racchiude l’essenza dell’opera artistica di una pittrice palestinese – in mostra fino al 9 giugno al Museo MAN di NuoroMaliheh Afnan, pittrice molto apprezzata nel panorama artistico internazionale, presente in alcune collezioni importanti – tra cui il Metropolitan Museum di New York e il British Museum di Londra, – e per la prima volta una sua mostra in Italia.

Nata a Haifa nel 1935, da genitori persiani di fede bahá’í.  Ancora adolescente conobbe il dramma di una vita diasporica per motivi religiosi e politici.  Inizialmente con la sua famiglia si trasferì a Beirut dove si laureò presso l’Università Americana. Nel 1956 andò in America, a Washington DC dove conseguì nel 1962 un MA in Belle Arti presso la Corcoran School of Art. Ritornata in Medio Oriente per circa una decina di anni, nel 1974  si trasferirà  prima a Parigi e poi Londra, dove morì nel 2016.

DSC_7837What Remains, 2014 (particular); mixed media installation – ph. ©Lycia Mele Ligios

Maliheh Afnan è un’artista che trovò ispirazione dalla tragedia della diaspora e il conseguente dolore – per aver abbandonato la sua terra natia, colpita da una guerra che sembrava non aver fine, − facendo confluire il suo vissuto drammatico nelle opere. La pittura le permise di ricollocarsi nel fluire del tempo, dopo aver assimilato e interiorizzato il suo dramma.

Gli oggetti che era riuscita a salvare divennero finestre di memoria, “sculture” parlanti segnate dal dolore. Ed ecco i vecchi libri degli avi conservati come reliquie in “What Remains” − “luoghi” del tempo e dei ricordi − dai quali trarre forza per dare un senso al domani e ritrovare quella dimensione artistica che le infondeva gioia di vivere, serenità. “Vengo da un luogo dove ci sono reliquie di antiche civiltà, – disse in un’intervista del 2014 – sia che si tratti del Libano o della Palestina. È inevitabile che in qualche  modo io sia attratta da questo genere di cose”. Da un lato la sua indagine espliciterà ataviche tradizioni mediorientali, dall’altro darà consistenza al suo vissuto con un linguaggio vicino all’espressionismo astratto, con pochi accordi cromatici come le terre, il bianco e il nero, con una tensione più spirituale, intimista. In alcune opere il colore viene “graffiato”, asportato con gestualità inconscia, appare stratificato e in alcune zone mancante quasi ad esprimere quella sofferenza subìta che si vorrebbe sradicare ma che è impossibile, perché è pensiero ubicato in quello spazio di eterna contemporaneità.

DSC_7841Contained Thoughts, 2000 (particular) (8 works) ph. ©Lycia Mele Ligios

L’urgenza di custodire la memoria è riposta in questo assemblage Contained Thoughts”(2000): i suoi lavori arrotolati e legati con uno spago, dove si allude alla transitorietà e al desiderio di salvare dall’oblìo oggetti personali di grande valore affettivo. Il vuoto al lato dei disegni sembra enfatizzare “ferite” che non si suturano e/o spazi per trattenere  pens/ieri. Una “scultura” modulare con le superfici arrotondate e dislivelli, a dimostrazione che la precarietà della vita diviene radice dell’esistenza umana.

Le persone che conobbero Maliheh Afnan la ricordano come una donna ironica, saggia e molto elegante con una casa ben curata in cui si respirava un’aria esotica. Non amava esser definita “artista mediorientale” e neppure “artista donna”.

In verità le definizioni creano solo gabbie, sovrastrutture che vincolano. Sono “confini”. Anche il suo linguaggio artistico, che spaziava tra vari generi, figurativo, astratto e informale, induce a pensare ad una sorta di indipendenza del suo modo di esprimersi.

E906F4EB-B9E9-4CF0-8AA3-6E5C36314324Wartorn 1979 – Courtesy Lawrie Shabibi Gallery

Innegabili echi di Alberto Burri (1915-1995) e il suo informale materico come in “Wartorn” (1979)  e Silent Witness (1979) in cui l’artista utilizza del cartone che brucia con una fiamma, – come Burri aveva fatto con i sacchi di iuta e con il legno – dove sembra trasporre la sua sofferenza e la sua angoscia,  il fuoco della guerra che divora le case, i bagliori delle armi che sparano. Ciò che un tempo esisteva, ora è solo memoria. Ma la distruzione richiama la vita e diventa urlo, espresso con accordi cromatici che riflettono luce. L’urgenza di essere testimone nel silenzio assordante dei ricordi. 

0AE06D20-9E9C-4A2B-9BDF-5808264BA5F2Silent Witness 1979 – Courtesy Lawrie Shabibi Gallery

Le opere figurative sono “personaggi” o meglio “figure” definite da segni che affiorano da luoghi di memoria senza preciso ordine, subordinati al ricordo di un’umanità incontrata negli anni, concentrata più sulla diversità che sull’omologazione.  Maliheh Afnan lavorava sui volti per giungere ad esprimere quell’unicum presente in ogni essere, ovvero l’anima. Voleva definire un “denominatore comune”, la preziosa unicità che sta alla base del genere umano che rende diversi seppur simili.

DSC_7839Sam, 1990 (particular) – ph. Lycia Mele Ligios

In alcuni volti affiora una delicata sfumatura caricaturale, quasi ad  enfatizzare elementi fisionomici ad esempio occhi piccoli e ravvicinati, oppure bocca piccolissima, leggermente segnata,  su teste in apparenza deformi. Un inconscio evocare il carattere del personaggio ritratto? Figure atemporali, strutture di memorie, tracce di esistenze “confuse” nel marasma del ricordo.

Aveva sviluppato un grande senso d’ironia, che le permetteva di sdrammatizzare e focalizzarsi su elementi che avrebbero suscitato ilarità, mostrando così la sua acuta intelligenza e fantasia e attribuendo valore alla semplicità.

Certi disegni mostrano dei volti stilizzati in assenza di prospettiva, come se – visti dall’alto – fossero elementi di una carta topografica dove non sono presenti particolari ma solo contorni del volto, uniti dal filo sottile dell’uguaglianza. Sembrano non esserci differenze sostanziali. La scelta di metterli vicini, uno accanto all’altro, sintetizza il concetto di fratellanza e umanità presente nei principi fondanti della sua fede Bahá’í in cui viene a superarsi il concetto di razza oltre quello di classe sociale.

DSC_7844Nuchis 1985 – (particular) – ph. ©Lycia Mele Ligios

Dall’indefinito che supporta l’uguaglianza al definito che sfiora il lirismo per intensità: il ripetuto scrivere il nome di un luogo che le era caro in una sua opera, “Nuchis” . L’artista amava la Sardegna: vi si era recata in vacanza insieme alla figlia ed era rimasta affascinata da un piccola frazione di 400 anime, nei pressi di Tempio Pausania, Nuchis, in Gallura. Un grazioso paesino, ai piedi del Monte Limbara, con piccole case realizzate con blocchi di granito e immancabili gerani nei balconi, immerso nel verde brillante, sfumato in una miriade di tonalità della campagna gallurese. Quei luoghi s’impressero nell’anima di Maliheh Afnan. Si erano “incollati” addosso e non voleva dimenticarli per quel senso di benessere che le infondevano. Al rientro dipinse un quadro astratto su campitura terra d’ombra bruciata con leggeri punti cromatici rosso cupo – forse cinabro – su cui attaccò tanti piccoli pezzi di scotch che colorò  e su cui scrisse in vari punti la parola Nuchis, quasi volesse attaccare o incollare alla sua anima la bellezza e le emozioni provate in quel piccolo pezzo di paradiso. Luogo che le aveva trasmesso serenità interiore e momentaneamente allontanato dai suoi ricordi, le sofferenze del passato.

dsc_7868-e1555522109126.jpgThe visitor, 1992 – Photo ©Lycia Mele Ligios

La tensione all’uguaglianza è quasi un grido “graffiante” nelle sue opere, dove i pensieri si traducono in espressione artistica con stesure di colore più aggressive  e dense, oppure più trasparenti e delicate. Come in quei ritratti dove con difficoltà s’intravvedono le figure dei visi dispersi in un colore che assorbe, in cui i lineamenti si disperdono nello spazio della tela. Volti in cui l’indefinito diventa la piega dell’anima ancorata a corpi, dalle tonalità  calde, origini di terra bruciata e forse dolore. Si intravvede uno studio, una ricerca teleologica – come avrebbe detto l’intellettuale e politico italiano Luigi Sturzo – di una coscienza che tende ad attenuare le sopravvalutazioni nazionali per dar luogo ad un sentimento di maggiore comunione tra i popoli”.

I significati di questa pittrice sono di una contemporaneità che sorprende, se pensiamo al clima sociale presente attualmente in Italia come la recrudescenza della xenofobia e del razzismo.

Innegabili gli influssi dei linguaggi artistici del periodo in cui visse e lavorò − espressionismo astratto, astrattismo, arte informale − che esprimono il vibrante ed energico clima culturale europeo e americano del tempo, ma che possiamo dire Maliheh Afnan li abbia filtrati, esprimendo con un linguaggio espressivo originale  le sue tensioni, le sue sofferenze, i suoi ricordi.  Indagini che scandagliano significati di grande valore come la libertà, l’umanità, l’uguaglianza. Ma alla fine, attraverso gli occhi dei vari “Personnages” che ci guardano, sembra porci una famosa domanda di Socrate:  “Che cos’è dunque l’uomo?”. Lascio a voi la risposta.

©Lycia Mele Ligios

MAN | Museo d’Arte Provincia di Nuoro

Via Sebastiano Satta 27, Nuoro

http://www.museoman.it | info@museoman.it T. +39 0784 252110


English Version

“Memory is not a drawer where our memories lie, as objects already defined and known. Rather, it infiltrates the folds of our time, contaminates our current perception … “This phrase by Massimo Recalcati contains the essence of the artistic work of a Palestinian painter – on display until June 9 at the MAN Museum of NuoroMaliheh Afnan, a very appreciated painter in the international art scene, present in some important collections – including the Metropolitan Museum of New York and the British Museum in London, – and for the first time on display in Italy.

Born in Haifa in 1935, from Persian parents of Bahá’í faith. While still a teenager, he experienced the drama of a diasporic life for religious and political reasons. Initially with his family he moved to Beirut where he graduated from the American University. In 1956 he went to America, to Washington DC where he obtained in 1962 an MA in Fine Arts at the Corcoran School of Art. Returning to the Middle East for about ten years, in 1974 he moved first to Paris and then London, where he died in 2016.

Maliheh Afnan is an artist who found inspiration for her art from the tragedy of the diaspora and the consequent pain – for having abandoned her homeland, struck by a war that seems to have no end, – bringing her dramatic experience into the works . Painting allowed her to relocate herself in the flow of time, after having assimilated and internalized her drama. The objects she had managed to save became windows of memory, talking “sculptures” marked by pain. And here are the old books of the ancestors preserved as relics – places of time and memories – from which to draw strength to make sense of tomorrow and rediscover that artistic dimension that gave it joy of life, serenity. “I come from a place where there are relics of ancient civilizations, – she said in a 2014 interview – whether it is Lebanon or Palestine. It is inevitable that somehow I will be attracted to this kind of thing”. On the one hand, her research will explain ancestral Middle Eastern traditions, on the other hand she will give consistency to her lived with a language close to abstract expressionism, with few chromatic chords such as “lands”, white and black, with a more spiritual, intimate tension . In some works the color is “scratched”, removed with unconscious gestures, it appears stratified and in some areas is missing almost to express the suffering suffered that one would like to eradicate but that is impossible, because it is thought placed in that space of eternal contemporaneity.

The urgency to preserve the memory is placed in this “Contained Thoughts” assemblage: her works are rolled up and tied with a string, which alludes to the transience and the desire to save personal objects of great emotional value from oblivion. The emptiness at the side of the drawings seems to emphasize “wounds” that do not suture and/or spaces to hold thoughts/yesterday. A modular “sculpture” with rounded surfaces and differences in height, demonstrating that the precariousness of life becomes the root of human existence.

The people who knew Maliheh Afnan remember her as an ironic, wise and very elegant woman with a well-kept home where one breathes an exotic air. she didn’t like to be called a “Middle Eastern artist” or even a “woman artist”.

In truth the definitions only create cages, superstructures that bind. They are “borders”. Even her artistic language, which ranged between various genres, figurative, abstract and informal, leads us to think of a sort of independence of her way of expressing herself.

Undeniable echoes by Alberto Burri (1915) and his informal material as in “Wartorn” (1979) and “Silent Witness” (1979) in which the artist uses cardboard that burns with a flame, – as Burri had done with sacks of jute – where his suffering and anguish seems to transpose, the fire of war that devours houses, the flashes of firing weapons. What once existed is now only memory. But destruction recalls life and becomes a scream, expressed with chromatic accords that reflect light. The urgency to be a witness in the deafening silence of memories.

The figurative works are “characters” or rather “figures” defined by signs that emerge from places of memory without precise order, subordinated to the memory of a humanity encountered over the years, focused more on diversity than on homologation. Maliheh Afnan worked on faces to come to express that unicum present in every being, or the soul. She wanted to define a “common denominator”, the precious uniqueness that underlies the human race that makes it different but similar.

In some faces a delicate caricature tinge emerges, as if to emphasize physiognomic elements, for example small and close eyes, or a very small mouth, slightly marked, on apparently deformed heads. An unconscious evoke the character of the portrayed character? Timeless figures, memory structures, traces of “confused” existences in the chaos of memory.

She had developed a great sense of irony, which allowed her to play down and focus on elements that would arouse laughter, thus showing her acute intelligence and imagination and attributing value to simplicity.

Some drawings show stylized faces in the absence of perspective, as if – viewed from above – they were elements of a topographic map where there are no details but only contours of the face, united by the thin thread of equality. There seem to be no substantial differences. The choice to put them close, one next to the other, summarizes the concept of brotherhood and humanity present in the founding principles of her Bahá’í faith in which the concept of race beyond that of social class is overcome.

From the indefinite that supports the equality to the defined that touches the lyricism by intensity: the repeated write the name of a place that was dear to her in one of her works, “Nuchis”.

The artist loved Sardinia. She had gone on holiday with her daughter and was fascinated by a small fraction of 400 souls, near Tempio Pausania, Nuchis, in Gallura. A pretty village, at the foot of Mount Limbara, with small houses built with granite blocks and inevitable geraniums in the balconies, immersed in brilliant green with a myriad of shades of the Gallura countryside. Those places were impressed in the soul of Maliheh Afnan. They had “stuck” on her and she did not want to forget them for that sense of well-being that infused her.

On the way back, she painted an abstract painting on a shaded umber field with light chromatic dots dark red – perhaps cinnabar – on which she attached many small pieces of scotch which she colored and on which she wrote the word Nuchis in various places, as if she wanted to stick or paste to her soul the beauty and emotions felt in that little piece of paradise. Place that had transmitted interior serenity and momentarily distanced herself from its memories, the sufferings of the past.

The tension towards equality is almost a “scathing” cry in her works, where thoughts are translated into artistic expression with more aggressive intense or dense colors, or more transparent and delicate. As in those portraits where the figures of the faces dispersed in an absorbing color can be glimpsed with difficulty, in which the features are dispersed in the space of the canvas. Faces in which the indefinite becomes the fold of the soul anchored to bodies, with warm tones, origins of scorched earth and perhaps pain. A study can be glimpsed, a teleological research – as Italian intellectual and politician Luigi Sturzo would have said – of a conscience that “tends to attenuate national “overvaluations” to give rise to a feeling of greater communion between peoples ”.

The meanings of this painter are of a surprising contemporary, if we think of the social climate currently present in Italy as the resurgence of xenophobia and racism.

The influences of the artistic languages ​​of the period in which she lived and worked were undeniable – abstract expressionism, abstractionism, informal art – which express the vibrant and energetic European and American cultural climate of the time, but we can say that Maliheh Afnan has filtered them, expressing with a language original expressive her tensions, her sufferings, her memories. Investigations that probe meanings of great value such as freedom, humanity, equality. But in the end, through the eyes of the various “Personnages” who look at us, she seems to ask us a famous question from Socrates: “What then is man?” I leave the answer to you.

©Lycia Mele Ligios


 

 

 

 

 

Il fotografo François-Xavier Gbré dona al Museo Man di Nuoro la sua opera “Sardegna”

“Noi ora dobbiamo affrontare il fatto … che il domani è oggi. Noi ci stiamo confrontando con la feroce urgenza dell’oggi…Sulle ossa e sui resti di numerose civiltà erano scritte queste patetiche parole:”troppo tardi”.

Martin Luther King  – 4 Aprile 1967

Nel mondo dell’arte, il luogo e l’identità sono temi ricorrenti che gli artisti inseriscono nei loro progetti, a volte segnati dall’aggressione del tempo che trasforma spazi e muta certezze.

Infatti, alcuni luoghi sembrano esser soggetti a logiche “dell’interruzione” per un’improvvisa sospensione dell’attività lavorativa o per l’incompiutezza di una struttura. Un ricorrente “volto con/temporaneo“, secondo quel concetto di contemporaneità definito dal filosofo Giorgio Agamben  “una singolare relazione con il proprio tempo, che aderisce ad esso attraverso una sfasatura e un anacronismo”.

Così un “presente” intriso di memoria storica, che mostra stratificazioni temporali, contraddizioni e discordanze, è stato oggetto del lavoro di François-Xavier Gbré, fotografo di fama internazionale, presente nella mostra fotografica  “Sogno D’Oltremare durante la penultima stagione espositiva  del MAN_Museo d’Arte Provincia di Nuoro.  

L’artista di origini franco-ivoriane nasce a Lille nel 1978. Tra le sue collaborazioni più importanti si ricorda quella con il grande maestro della fotografia a colori Stephen Shore, – amico e fotografo di Andy Warhol – autore del malinconico e mitico libro di fotografia  “Uncommon places”. Una collaborazione che gli ha permesso di affinare tecniche e linguaggi che forse lo hanno indirizzato verso un determinato tipo di percorsi artistici.

Anche François-Xavier Gbré ri/cuce memorie al presente nella ricerca spasmodica di strutture/architetture abbandonate, legate a mutamenti socio-economici. Inoltre, sceglie luoghi dove il tempo sembra essere sospeso,  mentre la natura s’impone con la sua travolgente libertà.

Ospite del MAN durante la scorsa estate, in collaborazione con la Sardegna Film Commission, ha percorso la nostra isola dal nord al sud per raccogliere materiale, al fine di sviluppare la  sua  articolata indagine storico-sociale e  in un excursus fotografico  comparava la sua terra d’origine, l’Africa, alla Sardegna per evidenziarne similarità.

Courtesy sito ©Françoise-Xavier Gbré 

La Sardegna e l’Africa terre separate da un mare che, in realtà, unisce lembi di terra, baricentro di civilizzazioni che hanno segnato la storia: il Mare Nostrum o Mar Mediterraneo.

Se pronunciamo lentamente la parola “m-e-d-i-t-e-r-r-a-n-e-o” ad un’iniziale apertura dell’apparato fonatorio, segue una chiusura verso la fine, quasi un’abbraccio come un onda che declina verso il suo inizio, dopo aver raggiunto la sua sommità. Oppure, l’abbraccio dell’artista che accoglie in sé il tempo, a cui sottrae istanti del passato per ridonarli all’eterno fluire, impreziositi da suggestive inquadrature, armoniche composizioni e malinconici giochi di luci. Riflessi di immensa sensibilità scanditi dal desiderio di rimodulare, ridefinire e infondere nuova vita  a ciò che sfiora con lo sguardo.

Nella mostra erano visibili testimonianze,  alle volte inquietanti e dolorose come i riferimenti  al periodo coloniale e lo sfruttamento delle risorse in Africa. Elementi  comuni con la nostra isola un tempo colonizzata, sfruttata, considerata margine.

Oggi in un presente “indefinito” è possibile cogliere echi di memorie. Il tempo visualizzato in ciò che “resiste”  sembra predisposto a conciliare con tutto ciò che resta, che è visibile e possiamo solo sfiorare o immaginare. La presenza umana percepita in alcune fotografie, dove ancora sono visibili i segni dell’uomo, è sospesa protagonista di un passato reo per aver distrutto e reso invivibili luoghi legati ad un dinamismo socio-economico che avrebbe potuto “descrivere una storia diversa“, forse migliore.

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“Sardegna” Courtesy MAN ph. ©Pierluigi Dessì – Confinivisivi

Tra le opere esposte c’era una “Costellazione” di 70 scatti dal titolo “Sardegna” che l’artista ha donato alla Collezione Permanente del MAN. Sono fotografie di vari luoghi dell’isola che hanno subito un’antropomorfizzazione,  opere incomplete e strutture di archeologia industriale dove i cicli di produzione sembrano esser stati interrotti.

129C78B2-20D3-4246-9C08-E5472FE62D70Courtesy MAN ph. ©Pierluigi Dessì – Confinivisivi

Azioni del passato che si intuiscono tra resti informi privi di senso: porzioni di edifici pubblici, strutture ricettive, ville, centrali elettriche, borghi fantasma… Un lavoro che esula da significati unicamente estetici e induce obbligatoriamente verso profonde riflessioni. Appare forse a livello inconscio la responsabilità sociale dell’artista e il suo impegno finalizzato  a “ri/scritture”?

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Courtesy MAN ph. ©Pierluigi Dessì – Confinivisivi

Forse sarebbe possibile recuperare i tanti luoghi abbandonati, più volte denunciati,  catalogati – come nell’eccellente lavoro svolto da Sardegna Abbandonata, – che ancora si stagliano contro la natura selvaggia e cieli depositari di storie taciute, e sui quali ci sono stati esigui interventi di ristrutturazione o riqualificazione?

Alcuni siti dovrebbero esser bonificati con urgenza per tutelare e salvaguardare la nostra terra. Oggi sono divenuti silenti presenze che riescono a farci esternare solo rabbia.

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Courtesy MAN ph. ©Pierluigi Dessì – Confinivisivi

E pensiamo alla Base USAF nel monte Limbara, nei pressi di Tempio Pausania,  che dovrebbe essere smantellata con una bonifica della zona; il Cementificio di Scala di Giocca, vicino Sassari. Come sarebbe interessante riqualificare forse per finalità turistiche o museali il borgo fantasma di Pratobello vicino Orgosolo; l’Albergo ESIT nel Monte Ortobene, a Nuoro;  la Miniera di San Leone, vicino Cagliari… Troppi luoghi se consideriamo che  la superficie della Sardegna è di appena 24.100 km²!

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Courtesy MAN ph. ©Pierluigi Dessì – Confinivisivi

In attesa di una maggior consapevolezza verso un intervento finalizzato alla tutela ambientale e al recupero della memoria storica, ci si chiede: quale funzione abbiano questi luoghi, al limite tra testimonianza e racconto, considerata la vocazione primaria dell’isola legata al turismo?

François Xavier-Gbré con la sua sensibilità, in un dialogo intimo dove l’incompiutezza, l’imperfezione potrebbe evocare la natura dell’uomo, i cicli di nascita e di morte, ha realizzato delle immagini liriche, di grande pathos che fanno “vibrare” il passato con giochi chiaroscurali, inquadrature rigorose e geometrie, alla ricerca di nuove logiche, forse nuove dimensioni dell’esistere.

Da qui la ricerca di quel senso che sfugge e ci induce a chiederci “perché”  ha sentito l’urgenza di fotografare quelle strutture abbandonate?

Aveva cominciato la sua indagine nella sua terra d’origine l’Africa. A Dakar aveva fotografato il Palazzo di Giustizia oggi divenuto sede della Biennale d’Arte Contemporanea, oppure la Piscina Olimpionica riaperta dopo esser stata ristrutturata da un azienda cinese. Quale sarà invece il destino di tutte queste strutture abbandonate nella nostra isola?

Le immagini acquisiscono senso nell’esprimere la bellezza malinconica e struggente di alcuni luoghi. E il fotografo avvalendosi di una scrittura di luce realista, coglie quelle sfumature che impressionano,  recupera il tempo dando il giusto valore riformulando funzioni, suggerendo implicitamente interventi mirati e urgenti in linea con la salvaguardia dell’ambiente, per lasciare uno spazio vivibile alle generazioni future.

L’isola è un’appendice della nostra anima. E tutti, anche coloro che non sono nati nell’isola ma la considerano terra d’adozione,  devono tutelarla.

Francois Xavier Gbré con il suo dono ha manifestato generosità e riconoscenza per  la città di Nuoro –  che lo ha accolto – e per tutti i sardi. Rimane così un segno del suo passaggio nella nostra isola. Un grande artista, delicato e sensibile che non solo ha colto l’importanza del nostro passato storico-culturale, ma lo ha ricollocato nel flusso del tempo donandogli nuovi significati e una “nuova”  struggente eternità.

©Lycia Mele Ligios 2019

 

English Version

 

Now we have to face the fact … that tomorrow is today. We are confronted with the fierce urgency of today … These pathetic words were written on the bones and remains of numerous civilizations: “too late”.

Martin Luther King – 4 April 1967

 

In the world of art, place and identity are recurring themes that the artists insert in their projects, sometimes marked by the aggression of time that transforms spaces and changes certainties.

In fact, some places seem to be subject to “interruption” logic due to a sudden suspension of work or due to the incompleteness of the structure. A recurring “con/temporary face”, according to concept of contemporaneity defined by the philosopher Giorgio Agamben as a “unique relationship with one’s own time, which adheres to it through a mismatch and an anachronism”.

Thus a “present” steeped in historical memory, which shows temporal stratifications, contradictions and discrepancies, was the subject of the work of François-Xavier Gbré, photographer of international fame, present with the photographic exhibition “Sogno D’Oltremare” in the penultimate exhibition season of the MAN Museum of the Province of Nuoro.

The artist of Franco-Ivorian origins was born in Lille in 1978. Among his most important collaborations I remember that with the great master of color photography Stephen Shore, – friend and photographer of Andy Warhol – author of the melancholic and mythical photography book ” Uncommon places ”. A collaboration that has allowed him to refine techniques and languages ​​that perhaps have directed him towards a certain type of artistic paths.

Even François-Xavier Gbré recalls memories in the present in the spasmodic search for abandoned structures / architectures, linked to socio-economic changes. And he also chooses places where time seems to be suspended, while nature imposes itself with its overwhelming freedom.

Guest of the MAN during last summer, in collaboration with the Sardinia Film Commission, he traveled our island from north to south to collect material, in order to develop his articulated historical-social investigation. And in a photographic excursus he compared his homeland, Africa, to Sardinia to highlight similarities.

Sardinia and Africa, lands separated by a sea that, in reality, combines strips of land, the center of civilization that have marked history: the Mare Nostrum or the Mediterranean Sea.

If we slowly pronounce the word “m-e-d-i-t-e-r-r-a-n-e-o” to an initial opening of the phonatory apparatus, there follows a closure towards the end, almost an embrace like a wave that declines towards its beginning, having reached its top. Or the embrace of the artist who welcomes time into himself, to which he steals moments from the past to give them back to the eternal flow, embellished by suggestive shots, harmonious compositions and melancholy plays of lights. Reflections of immense sensitivity punctuated by the desire to restructure, to redefine, to breathe new life into what touches with one’s eyes.

In the exhibition were visible testimonies, sometimes disturbing and painful as the references to the colonial period and the exploitation of resources in Africa. Common elements with our island once colonized, exploited, considered a margin.

Today in an “undefined” present it is possible to catch echoes of memories. The time displayed in what “resists” being present seems predisposed to reconcile with all that remains, which is visible and we can only touch or imagine.

The human presence perceived in some photographs, where the signs of man are still visible, is suspended protagonist of a past guilty for having destroyed and made uninhabitable places linked to a socio-economic dynamism that could “describe a different story”, perhaps best.

Among the exhibited works there was a “Constellation” of 70 shots entitled “Sardinia” that the artist donated to the Permanent Collection of the MAN.

They are photographs of various places on the island that have undergone anthropomorphization, incomplete works and industrial structures where production cycles seem to have been interrupted.

Actions of the past that can be sensed between shapeless remains devoid of meaning: portions of public buildings, accommodation facilities, villas, power stations, ghost towns … A work that goes beyond purely aesthetic meanings and necessarily leads to profound reflections. Does the social responsibility of the artist and his commitment aimed at “re / writing” appear at an unconscious level?

Perhaps it would be possible to recover the many abandoned places, repeatedly denounced, cataloged – as in the excellent work carried out by Abandoned Sardinia – which still stand out against the wild nature and the depository of untold stories, and on which there have been few interventions of restructuring or redevelopment?

Some sites should be urgently reclaimed to protect and safeguard our land. Today they have become silent presences that manage to make us express only anger.

I am thinking of the USAF base in Mount Limbara, near Tempio Pausania, which should be dismantled with a reclamation of the area; the Cement factory of Scala di Giocca, near Sassari. How it would be interesting to redevelop the ghost town of Pratobello near Orgosolo, perhaps for tourist or museum purposes; the ESIT Hotel in Monte Ortobene, in Nuoro; the San Leone Mine, near Cagliari … Too many places if we think that the surface of Sardinia is just 24,100 km²!

Waiting for a greater awareness towards an intervention aimed at environmental protection and the recovery of historical memory, one wonders what function these places have, on the border between testimony and story, considered the primary vocation of the island linked to tourism?

François Xavier-Gbré with his sensitivity, in an intimate dialogue where incompleteness, imperfection could evoke the nature of man and his evolutionary and involutive cycles, of birth and death, gave lyrical images, of great pathos that make the past vibrate with chiaroscuro games, rigorous shots and geometries that unconsciously seek new logics, perhaps new dimensions of existence?

Hence the search for that meaning that escapes and leads us to ask “why” did he feel the urgency to photograph those abandoned structures?

He had begun his investigation in his homeland of Africa. In Dakar he had photographed the Palazzo di Giustizia, which has now become the seat of the Biennale of Contemporary Art. Or the Olympic swimming pool that has been re-opened today because it was renovated by a Chinese company. What will be the fate of all these abandoned structures on our island?

Words have lost authenticity and power. They have become pure abstractions. Only the image takes on value in expressing with deafening silence the melancholy and poignant beauty of some places. And the photographer making use of a writing of realist light, captures those nuances that impress, recovers time giving the right value by reformulating functions, inciting targeted and urgent interventions in line with environmental protection, to leave a livable space for future generations .

The island is an offshoot of our soul, of our roots, so we must protect it, protect it more than we do ourselves. Because we are the island itself.

Francois Xavier Gbré with his gift showed generosity and gratitude for the city of Nuoro – which welcomed him – and for all the Sardinians. Thus it remains a sign of its passage through our land. A great artist, delicate and sensitive, who not only grasped the importance of our past, but put it back in the flow of time, giving it a “new” poignant eternity and new potential meanings.

©Lycia Mele Ligios