Olbia | Arte e tradizioni dal Messico negli spazi dell’Associazione Libere Energie

Novembre 2021 – Aria messicana ad Olbia, negli spazi dell’ Associazione Libere Energie, per una collettiva di artisti di Durango che irrompe nel torpore autunnale e ci induce, in concomitanza della Festività dei Morti, a riflettere sul tema della morte in toni più “luminosi” per la presenza di contrasti cromatici vivaci ed intensi, propri della tradizione messicana.

La curatrice Nuria Metzi Montoya, – di origini messicane e discendente del Montoya muralista, contemporaneo di Diego Rivera, marito della più celebre Frida Kahlo,- propone in mostra opere di alcuni suoi connazionali quali: Manuel Piñon, Alma Santillán, Antonio Díaz Cortés, Armando Montoya, Candelario Vázquez, César Muñoz Carranza, Diana Franco, Tomás Castro Bringas, Juan Rodríguez López, Germán Vallez, Eulene Franzcelia, José Luis Ruiz “el Piípi”, Helder Gandara, Paco Nava, Ricardo Fernández, J.Carlos Mendívil, Manuel Valles Gómez, Milton Navarro, Leonor Chacón Vera, Valentino Salas.

Ma, nella sala espositiva, si percepisce un’insolita energia associata ad un richiamo visivo, che scaturisce dalla varietà cromatica e dalla presenza di una pluralità di oggetti disposti su una struttura triangolare a piccoli gradini: fiori, ceri votivi, arance, frutta secca, specchi, bambole, piccoli teschi, pani, ventagli, marmellate, maschere. È un altare votivo tipico della tradizione popolare messicana che, in questo periodo, numerose famiglie allestiscono in un angolo della casa, in memoria dei propri cari.

Un altare del ricordo per il Dia de Muertos che nello spazio espositivo è dedicato al primo presidente messicano, originario di Durango, Guadalupe Victoria, al pittore realista e muralista Francisco Montoya de la Cruz, allo scultore Benigno Montoya, celebre per le sue stele funerarie e infine alla pittrice Mercedes Burciaga, nonna della curatrice e moglie di Francisco.

Altare domestico

L’allestimento dell’altare domestico come un’installazione artistica, quasi un far confluire l’arte nel quotidiano, oltre al tema della morte – che acquisisce connotati umani da esser identificata nella iconica Catrina (termine coniato da Diego Rivera)* simbolo nazionale, rappresentata con abiti europei come una sposa, – li potremo avvicinare, anche se in maniera semplicistica, alla definizione di “umore nero” che il surrealista, André Breton, vide radicato nella popolazione messicana che tende riconciliare/unire vita e morte.

Un concetto elaborato la cui assimilazione (almeno per noi) risulta complessa, che potremo definire d’avanguardia proprio come quei surrealisti che nei primi del novecento (1920) furono affascinati dalla cultura messicana in cui il linguaggio artistico esprimeva contenuti che stupivano, emozionavano e sconvolgevano.

Ma, sembrerebbe anche un concetto contemporaneo perchè derivato dalla stratificazione, meglio trasversalità, delle varie culture tra le quali: quelle precolombiane associate a culture di varie etnie; quella repressiva e violenta da parte dei colonizzatori spagnoli che tentarono di soffocare usi e costumi autoctoni; la diffusione della religione cristiana; la cultura africana diffusa con la tratta degli schiavi e altri fattori hanno creato un sincretismo originale caratterizzante l’identità culturale messicana, legata al culto dei morti.

Conciliarsi con la morte comporta un elevato grado di atteggiamento riflessivo, di spiritualità, di accettazione, di rassegnazione e implica un esilio dal tangibile, dal materialismo per far emergere tracce di pensiero, azioni, emozioni di coloro che hanno lasciato la terra, convivono nell’anima e si percepiscono come vivi.

La vita accoglie il suo senso con queste “presenze” e la morte diviene più concreta, più umana. Un significato che il poverello d’Assisi ben comprese ed espresse nel suo Cantico delle Creature.

©️Manuel Valles, Attesa, 2012

Osservando le opere esposte, di cui molte legate al Dia de Muertos, si traspone in pittura il sentimento del ricordo, il desiderio di presenza, l’esserci.

Tra gli astratti si colgono urla implose in graffi ripetuti che invadono lo spazio o luoghi dagli esili confini che sembrano sfumare dinanzi al fluire eterno.

Nel figurativo tra surreale, popolare e espressionista troviamo alcuni volti abbozzati, altri profondamente segnati dalla sofferenza dell’assenza – come la bellissima paternità di Tomás Bringas, maestro incisore di Durango – che predispongono ad un’arte figurativa di indagine e di equilibrio nel rappresentare il dolore che rende, inermi dove il colore da struttura, dialoga con gli spazi, emana silente energia o dove la luminosità del bianco illumina e trasfigura quasi alludendo ad una distaccata rassegnazione.

©️Tomás Bringas, Día de los muertos, 1995 | monotipo su cartoncino [particolare]

E ancora figure che diffondono nella spazio della tela la loro consistenza materica in dissoluzione o altre con echi simbolisti che vagano sopra la terra mostrando la nuova natura di angeli che vigilano e proteggono.

La vista è l’organo preposto a seguire pieghe, riflessi taciuti, impercettibili presenze, soccorre dove manca la dimensione, dove accanto alla fissità e piattezza di bizantiniana memoria vi è  sottesa una sorta di bellezza pura che mira all’essenziale senza particolari tecnicismi ma volta ad enfatizzare l’istante creativo nel segno del colore che assume valore semantico.

©️Armando Montoya, Untitled 2005 | vetro, acrilico

S’intravvedono alcune citazioni artistiche, ma la bellezza dell’arte è la capacità di sintesi nell’emulazione inconscia. Ciò apre squarci di cielo per nuove idee.

Una mostra che merita una visita: non solo per vivere un momento di nuove conoscenze etno-antropologiche, riflettere sulla sorella morte per utilizzare le parole di Francesco, gustarsi opere distanti dalla nostra sensibilità estetica ma perché l’evolversi della creatività va di pari passo con quella libertà a cui tutti aneliamo.

©️lyciameleligios

Nuria Mezli Montoya | Sito http://nuriametzli.blogspot.com/

Associazione Libere Energie | via Bramante 55 | h. 18,30 – 20,00 | mostra fino al 12 novembre

Red Wine live | Il Bluegrass, musica che crea spazio al pensiero

La musica ha un potere che nessun’altra cosa possiede. Avete mai notato di ritrovarvi a far defluire pensieri e lasciar spazio a nuovi contenuti, quando esausti o di malumore per una situazione vissuta, ascoltate la vostra musica preferita, pop o allegra?

Certa musica, se filtrata con l’anima, permette di rinnovare luoghi della mente. Fa spazio. Crea respiro.  Trasmette stati d’animo sotto forma di contagio — come l’allegria, la gioia, la positività — che si declinano con l’esecuzione di determinate variazioni musicali.
In sintesi ciò che si è vissuto sabato scorso durante la terza serata del Musicultura World Festival 2021: “Musica dalle Finis Terrae” di San Teodoro.

Protagonisti i Red Wine, un quartetto di validi musicisti genovesi di bluegrass: preparati, ironici, coinvolgenti, famosi in Italia e all’estero che hanno reso speciale e indimenticabile, la serata teodorina,  luogo dove trasparenze del mare sfumano orizzonti, senza segnare confini di cielo.

E, sotto la volta stellata, nell’angolo dedicato ai concerti live, si sono esibiti Marco Ferretti alla chitarra, Lucas Bellotti al basso e Silvio Ferretti e Martino Coppo, storici del gruppo , rispettivamente al Banjo e al mandolino, con un vocal range accurato, coeso, armonico che ha conquistato il parterre.

Archivio Musicultura Festival | ©️bruno piccinnu


Durante la serata, hanno eseguito alcuni brani dall’ultimo lavoro, Caroline Red, insieme a testi iconici della storia della musica, arrangiati in stile country, con qualche digressione nella canzone italiana. Uno spettacolo ben dosato, gradevole e soprattutto capace di farci sognare.

Si, il sogno é stato l’ orizzonte verso il quale siamo stati proiettati. Un viaggio immaginario, intessuto di emozioni, nelle terre del “sogno americano” — che mai aderì alla realtà immaginata — almeno per coloro che emigrarono in America, alla ricerca di un benessere socio-economico, proprio negli anni in cui si diffuse il bluegrass.

Nato nel Kentucky, intorno agli anni ‘30 del secolo scorso, il bluegrass è un ramo del genere country che mostra assonanze con la musica inglese e irlandese, inflessioni residuali dei primi colonizzatori europei.

S’inizia con la classica ballata country, “Everything I use to do”, un testo di Ernie Rowell che evoca la fine di un amore. Il giovane protagonista, ancora innamorato della sua amata, riflette un agire distratto dal pensare il suo sentimento. Un tema di carattere universale che ha prodotto le più belle ed eterne canzoni d’amore.

Al contrario del melodico italiano, si può notare come nel genere country, la narrazione di una sofferenza causata dalla fine di un amore, mostra una struttura musicale briosa, allegra, e nella sua velocità sembra scandire il tempo dinamico, incalzante, rapido.
Si ricompone un equilibrio, dove le sonorità sembrano ribellarsi ad una sorta di ripetizione, aspirano ad una nuova stabilità giocando in un susseguirsi di scatti, prossimità, vicinanze, confluenze.

Protagonista il mandolino, in vivace dialogo con gli altri strumenti, quasi la musica volga ad alleggerire pensieri, infondere speranza, e forse invitare ad “ascoltarci”, come diceva il maestro Ezio Bosso, a rimodulare il senso dell’esistenza, vivere il passato, non semplicemente come ricordo ma come ciò che struttura il domani, come anima del nostro futuro in continua evoluzione. Le esperienze formano nel loro “stramarsi” dalla rete dell’esistere.

 Con “Archetto e violino”, brano scritto da un loro amico, ci ritroviamo negli ampi saloni di una tipica festa dai toni irlandesi quale momento per socializzare, da vivere in spensieratezza e innamorarsi. Innegabile l’energia di questa ballata che richiama le atmosfere dell’intenso film Alabama Monroe del regista Felix Van Groeningen. 

©️Archivio Red Wine


Di seguito “Last the old american dream” in cui  la voce narrante è una macchina, costruita nel 1958,   che suggerisce al proprietario di ripararla per ripartire verso nuove mete. 

Sogno americano inteso come libertà, ma anche benessere. Qui si allude  ad una “cura”, una manutenzione per poter continuare a viaggiare.

La macchina ha una sua forza concettuale che trasposta nella condizione degli  esseri umani sembra suggerire la necessità di provvedere alla cura del sé per acquisire quella capacità di fuga dalla staticità che logora, annienta, crea ristagno e involuzione.

Inoltre, si può cogliere un altro riferimento metanarrativo che prende spunto da una temporalità definita, a cui forse si allude, la diffusione del genere country in seguito alla realizzazione, nel 1958, di un film musicale “Country Music Holiday”, che aveva tra gli interpreti la mitica Zsa zsa Gabor, per affermare la dirompente diffusione di questo genere musicale sempre più seguito, seppur con accenti diversi.

Armonizzazioni delicate, accompagnate da un testo fluido, arioso, è la nuova dimensione dove l’esperienza permette di fare musica  “… dancing in the wind” danzando nel vento che viene ripetuto nel ritornello della ballata “Evergreen”, dal CD Caroline Red. 

Questo è il loro manifesto. Tanti sono gli anni trascorsi dall’anno di nascita del gruppo, formatosi nel 1978, che oggi continua a lavorare,  proporre musica con entusiasmo e passione, segnata dalla libertà di creare, come agli inizi della loro carriera. Ieri come oggi, generi musicali intramontabili, fondamenta della musica contemporanea da tutelare, custodire quale patrimonio artistico immateriale dell’umanità.

Rimettendoci in cammino, “chiudiamo gli occhi” e ci ritroviamo in Louisiana nel centrale e frenetico quartiere francese di New Orleans, bagnato dal fiume argentato del Mississippi, tra le vie pullulanti di ogni umanità con graziosi localini in cui si suona il dixieland. Una festa eterna di suoni, colori e umanità. Il pezzo eseguito “The dark times” pur senza fiati, riesce a codificare quel sentimento di accettazione e fiducia presente nella tradizione della musica afroamericana da cui deriva questo filone musicale. 

E dall’America, una breve sosta in Italia con alcune canzoni del nostro repertorio melodico tra le quali  “Oi Marì”, “Malafemmena” di Murolo e ancora “Buonasera signorina” di Buscaglione,  che esaltano il virtuosismo degli strumenti acustici, o ancora, la bellissima canzone scritta da Massimo Bubola e cantata da Fiorella Mannoia “Il cielo d’Irlanda”, una vera poesia che riprende significati universali con luoghi poetici che emozionano per la purezza e profondità delle parole.

Archivio Red Wine | ©️ken voltz

Rientriamo negli USA, nel Tennessee, con “Back to you” un testo d’amore dal tema nostalgico sullo sfondo della Guerra civile, motivo che spesso ricorre nel repertorio country americano.

Il protagonista, un soldato in trincea, ha nostalgia della sua amata e sembra vivere il desiderio di rivederla come una forza spirituale che gli permette di superare la dolorosa realtà vissuta al fronte.

Dagli USA ci spostiamo verso la nazione delle immense distese, dei cromatismi taglienti che “accecano” per bellezza, con quella sana voglia di vivere: il Brasile. Ed ecco le variazioni del mandolino, veloci sulla tastiera, che svuotano oscurità e diffondono gioia nel famoso brano “Tico Tico” del celebre compositore brasiliano Zequinha de Abreu (1880-1935).

Alla fine, lo spettacolo si fa ancora più intenso, con  un momento dedicato a coloro che sono stati grandi pionieri e innovatori, che hanno osato stravolgere musicalità e hanno lasciato segni indelebili. Funamboli del pentagramma.

Il primo artista Tom Petty, — grandissimo cantautore rock americano, creatore geniale, collaboratore e amico del grande Bob Dylan — di cui cantano “American girl”con un arrangiamento country, canzone icona per le future bande rock.
Verso la fine il ricordo dei Grateful Dead, una band che si distinse per la capacità rivoluzionaria di fondere vari generi musicali e dar vita al cosiddetto rock psichedelico. 

Una serata che ci ha fatto riscoprire l’intensità del vivere un concerto, perché esserci richiama esperienza stratificata per la sua totalità di sensazioni che l’web non potrà mai creare, reso possibile dalla bravura dei musicisti, dall’abilità dei tecnici del suono e delle luci e dalla gente che ha condiviso il momento come uno slancio verso il cielo e …ritorno.

©️lyciameleligios

Il sito dei Red Wine http://www.redwinemusic.net/band/

English Version

Red Wine | Bluegrass, the music that creates space for thought

Music has a power that no other thing has. Have you ever noticed that you find yourself letting thoughts flow and leaving room for new contents, when exhausted or in a bad mood for a lived situation, you listen to your favourite music, or pop or cheerful?


Certain music, if filtered with the soul, allows you to renew places of the mind. Make room. Create breath. It transmits states of mind in the form of contagion – for example, cheerfulness, joy, positivity – which are declined with the performance of a certain type of musical variations. This took place last Saturday during the third evening of the Musicultura World Festival 2021: “Musica dalle Finis Terrae” in San Teodoro.
The protagonists are Red Wine, a quartet of good bluegrass musicians: prepared, ironic, engaging, famous in Italy and abroad who made the Theodorine evening special, a place where the transparencies of the sea blur horizons, without marking borders.


And under the starry vault, in the corner dedicated to live concerts, Marco Ferretti on guitar, Lucas Bellotti on bass and Silvio Ferretti and Martino Coppo, historians of the group, respectively at Banjo and mandolin, performed with an accurate vocal range, cohesive, harmonious that has conquered the parterre.
During the evening, the group performed songs from the latest work, Caroline Red, along with some lyrics from the history of music, others arranged in a country style with some digression in the Italian song. A well-dosed, pleasant and above all able to make us dream show.
Yes, the dream was the horizon towards which we were projected. An imaginary journey, interwoven with emotions, in the lands of the “American dream” – never adhered to imagined reality – pursued by those who emigrated to America in search of socio-economic well-being, precisely in those years when bluegrass was spreading.


Born in Kentucky, around the 30s of the last century, bluegrass is a branch of the country genre that shows assonances with English and Irish music, residual variations of the first European colonizers.
It begins with the classic country ballad, “Everything I use to do”, a text by Ernie Rowell that evokes the end of a love. The young protagonist, still in love with his beloved, shows an action distracted by the thought of his feelings. A universal theme that has produced the most beautiful and eternal love songs.

Unlikely the Italian melodic genre, it can be seen that in the country genre, the narration of a suffering caused by the end of a love, shows a lively, cheerful musical structure, and in its speed it seems to mark the dynamic, pressing, rapid time. A vanished equilibrium is recomposed, where the sounds seem to rebel against a sort of repetition, aspire to a new stability by playing in a succession of shots, proximity, proximity, confluences.
The mandolin is the protagonist, in lively dialogue with the other instruments, as if the music wanted to lighten thoughts, instill hope, and perhaps invite us to “listen to us”, as the master Ezio Bosso said, reshape the meaning of existence, live the past, not simply as a memory but as what structures tomorrow, as the soul of our constantly evolving future. Experiences form in their falling away from the web of existence.
With “Bow and violin”, a song written by a friend of theirs, we find ourselves in the large halls of a typical Irish party as a moment to socialize, to live in carefree and fall in love. The energy of this ballad is undeniable, recalling the atmosphere of the intense film Alabama Monroe by director Felix Van Groeningen.
Below is “Last the old american dream” in which the narrator is a car built in 1958, which suggests to the owner to repair it in order to leave for new destinations.
American dream understood as freedom, but also well-being. Here we allude to a care, a maintenance to be able to continue travelling .
The machine has its own conceptual strength and in transposing the meaning on the condition of human beings it seems to suggest the need to take care of the self in order to acquire that capacity to escape from the stillness that wears out, annihilates, creates stagnation and involution.
Furthermore, we can grasp another metanarrative reference that takes its cue from a defined temporality, which is perhaps alluded to, the diffusion of the country genre following the realization, in 1958, of a musical film “Country Music Holiday”, which had among the interpret the legendary Zsa zsa Gabor, to affirm the disruptive diffusion of this increasingly popular musical genre, albeit with different accents.
Delicate harmonizations, accompanied by a fluid, airy text, is the new dimension where the experience allows you to make music “… dancing in the wind” dancing in the wind that is repeated in the chorus of the ballad “Evergreen”, from CD Caroline Red .

This is their manifesto. Many years have passed since the birth of the group, formed in 1978, which today continues to work, proposing music with enthusiasm and passion as if it were at the beginning of their career. Yesterday as today, timeless musical genres, foundations of contemporary music to be protected, to be preserved as an artistic heritage of the world.
Continuing our journey, we “close our eyes” and we find ourselves in Louisiana in the central French quarter of New Orleans, bathed by the silver Mississippi River, among the streets teeming with all humanity with charming little places where Dixieland
is played. An eternal feast of sounds, colours and humanity. The piece performed “The dark times”, even without wind, manages to encode that feeling of acceptance and trust present in the tradition of African American music from which this musical trend derives.


And from America, a brief stop in Italy with some songs from our melodic repertoire including “Oi Marì”, “Malafemmena” by Murolo and “Buonasera signorina” by Buscaglione, which enhance the virtuosity of the instruments, or even the beautiful song written by Massimo Bubola and sung by Fiorella Mannoia “Il cielo d’Irlanda”, a true poem that takes up universal meanings with poetic places that excite for the purity and depth of the words.

We return to the USA, in Tennessee, with a song linked to the sentiment of love, proposed here as a nostalgic theme, recurring in the American country repertoire, in the background the echo of the Civil War: “Back to you”.
The protagonist, a soldier in the trenches, misses his beloved and seems to experience the desire to see her again as a spiritual force that allows him to overcome the painful reality experienced at the front.


From the USA we move towards the nation of immense expanses, sharp colours that prove the sight, for the beauty, and healthy desire to live: Brazil. And here there are the variations of the mandolin, fast on the keyboard, that empty darkness and spread joy in the famous piece “Tico Tico” by the famous Brazilian composer Zequinha de Abreu (1880-1935).


In the end, the show becomes more intense, with a moment dedicated to great pioneers and innovators, who dared to overturn musicality and left indelible marks. Tightrope walkers of the pentagram.

The first artist Tom Petty, a great American rock singer-songwriter, collaborator and friend of the great Bob Dylan, who will follow on his tours . They sing, in a country arrangement, an iconic song for future rock bands “American girl” And finally a piece by the Grateful Dead, a band that stood out for its revolutionary ability to blend various musical genres and give life to the so-called psychedelic rock.

An evening that made us rediscover the intensity of living a concert, because being there recalls a layered experience for its totality of sensations that the web will never be able to create. Made possible by the skill of the musicians, the skill of the sound and lighting technicians and the people who shared the moment as a leap towards the sky and back.

©lyciameleligios

 

Imaginibus | Verità s/velata nelle opere di Rosalba Mura

Ma forse anche le cose come stanno / hanno un ordine

tanto più vasto / da uscire dall’inquadratura

così il massimo di reale / combacia con l’astrazione pura

come quando la notte / essere e non essere / niente / si equivalgono”

Silvia Bre*

In Italia, ormai da anni, si assiste ad una riqualificazione  e valorizzazione di edifici urbani di proprietà del clero.  Oratori, palazzi e chiese – parte del nostro immenso patrimonio culturale di incomparabile bellezza – mutano la loro funzione originaria, per divenire luoghi dove ospitare mostre sui nuovi linguaggi artistici o eventi culturali.

In sinergia con le amministrazioni locali,  associazioni culturali o privati il quartiere  assume valore ponendosi promotore di cultura a 360 gradi.

Uno di questi luoghi è l’Antico Oratorio della Passione depositario di bellezza che resiste il tempo, costruito alla fine del ′400. Adiacente la Basilica di Sant’Ambrogio, nel cuore pulsante di Milano, – città sempre più cosmopolita ma che continua a distinguersi per eleganza  e raffinatezza, – lo spazio ospiterà dal 12 al 17 novembre “Imaginibus” una mostra collettiva di  arte contemporanea a cura della Jelmoni Studio Gallery. 

La Galleria di Elena Jelmoni,  fondata nel 1995, lavora in un centro culturale tra i più attivi di Berlino, Londra, Milano. Si distingue per le collaborazioni con l’Accademia di Brera e per la sua costante attenzione a personalità artistiche emergenti e ai nuovi linguaggi espressivi dell’arte contemporanea.

Un Galleria prestigiosa, con esperienza pluriennale, fondata con artisti di rilievo come Denis Santachiara, Bruto Pomodoro, Eugenio Degani, Marina Burani, Graziano Pompili, Fondazione Pomodoro e altri.

Nella mostra “Imaginibus”, tra gli artisti di diverse nazionalità che vogliamo ricordare Paola Colombo, Paolina Ponzellini, Ludovica Chamois, Pino Chimenti, Stefano Robiglio, Eleonora Scaramella, Elisabetta Mariani, Roberto Marrani, Francesco Loliva, Liubov Fridman, Guanzhong Ge, Danny Johananoff, John Kingerlee, Sal Ponce Enrile, Carlos  E. Porlas M. Gabriela Segura, Emanuel Shlomo, Mark Stapelfeldt, Hiroshi Wada, David Whitfield, Judy Lange, Maria Scotti, sono presenti due artisti di origine sarda.

Il primo artista è Gianfranco Angioni nato a Cagliari che lasciata l’isola si trasferisce in continente. Ma la sua anima serberà nostalgia per la sua terra. Lascerà Milano per stabilirsi a due passi dal mare, in Liguria.

Sappiamo come il mare crea dipendenza, ma a seconda dello sguardo può evocare il concetto di prossimità e legame. Alleggerisce lo  sconforto e inebria i ricordi permanenti, che divengono più vividi.

Gianfranco Angioni è un’artista sperimentale, i suoi linguaggi sono sconfinamenti ora sull’astratto, ora sul figurativo.  A ciò si aggiunge una raffinata cura degli esiti cromatici.

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Rosalba Mura – Courtesy of artist

La seconda artista sarda è Rosalba Mura, originaria di Barumini, ma olbiese di adozione.  Formatasi all’Accademia di Belle Arti di Sassari, inizia il suo percorso artistico con l’utilizzo di  linguaggi legati alle  prime avanguardie. 

Oggi persegue la sua ricerca estetica verso un’espressività essenziale  tesa alla de/costruzione presente in alcune correnti artistiche che si svilupparono intorno agli anni sessanta come la Minimal Art e Conceptual Art.

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©Cubit, 2019 – acrilico su tela 20×20 – Courtesy of Rosalba Mura

Rosalba Mura sembra mostrarsi sensibile alla mutevolezza o vulnerabilità del reale e persegue nelle sue opere più recenti la rappresentazione di un’alterità che appare “fluida”, fuggevole. Il focus delle sue indagini è una figura geometrica basica il quadrato, struttura semplice, che sembra aver perso la sua perfezione numerica. Quasi a voler  condividere il pensiero di un grande astrattista italiano Luigi Veronesi  che affermava come i rapporti numerici della figura fossero “non immutabili”. Il significato sfugge ad un significante (forma) ingannevole o viceversa? “La capacità di errore dell’uomo è un guasto biologico esteso” diceva il grande Fabio Mauri.

Le ideologie mutano, strutturate dal tempo. La verità come la qualità divenute inafferrabili esseri fluidi, sembrano soggette ad ad[data]mento, a far/si  tempo, si decompongono per ricomporsi altre nel loro frammentarsi e suturarsi/rinsaldarsi o stratificarsi.

Potremo  ripercorrere le intuizioni illuminanti del grande Jackie Derrida e Zigmunt Bauman che pur nella loro diversità ci aiuterebbero a cogliere affinità, ma dovremo rimandare ad altri spazi la pluralità di riflessioni che si evidenziano nell’arte concettuale di Rosalba Mura per delimitare incastri logici che hanno usurato congiunzioni esistenziali.

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©Peace n marzo 2003 – acrilico su tavola 65×65 – Courtesy of Rosalba Mura

La mostra collettiva ha titolo “Imaginibus”, tradotto dal latino imago, imagĭnis che significa immagine nel risultato di forma esteriore di un oggetto come viene percepita attraverso il senso della vista o riflessa, ad esempio, in una superficie dando luogo ad una dualità di resa realista (oggettiva) o percepita (soggettiva).

Qui si vuole enfatizzare con indagini e percorsi degli artisti uno specifico  campo d’indagine relativo al ritratto nell’arte  della nostra contemporaneità, ponendo l’accento non solo su chi esegue l’opera ma su chi ne fruisce con un gioco di rimandi tra  rappresentazione, percezione e  realtà spesso soggettivata, quindi filtrata da analisi introspettiva o più inconscia.

La raffigurazione di questo genere si storicizza, condizionata dal mutare delle condizioni politiche e socio-economiche, dai conseguenti disagi esistenziali di una umanità in cammino che hanno influito sui linguaggi artistici modificando il modo stesso di percepire la realtà – ora più soggettivo – da mutare le caratteristiche fisionomiche dell’uomo.     

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©Interior Dimensional Wormhole 2, 2019 a. su tela 42×42 – Courtesy of Rosalba Mura

Ogni artista in mostra propone il suo “sentire” che a noi potrebbe sembrare incomprensibile ma, se si affronta con il linguaggio dell’arte, appare nella sua nitidezza.  Ognuno si esprime con la propria peculiarità distintiva ora  con  violenza cromatica,  ora si predilige il segno semplice estraneo al decorativismo,  oppure si altera  la superficie della tela con strumenti, o si distorce – lavorando sul subconscio – la fisionomia dei volti, o con estremizzazioni geometriche.

Ma perché questa esigenza? perché questi linguaggi espressivi? Se si guarda  alla storia dell’arte dalla fine del secolo scorso ad oggi il ritratto in senso tradizionale sembra non esistere. Le cause di questo “frammentarsi” sono attribuibili  alle condizioni socio-antropologiche che l’essere umano ha vissuto:  quali l’industrializzazione e l’avvento della psicanalisi, la diffusione della fotografia, il potere dilaniante della guerra illustratoci ad esempio dall’accentuato  cromatismo e successive alterazioni/deformazioni degli espressionisti (pensiamo al celebre Urlo di Edvard Munch) la violenza e astrusità dei campi di concentramento che creavano alienazione, le scoperte tecnologiche e la conseguente moda dei selfie.

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©Trittico BN – 2015 acrilico su tela – 3 pz 20×20 – Courtesy of Rosalba Mura

Possiamo quindi concludere che da ogni angolazione si osservi il reale, il rapporto pensiero e mondo, nel sua sintesi artistica, è e rimarrà sempre “proiettivo”, come diceva Fabio Mauri, di una “proiezione con contenuto, (di memoria, fantasia, di cultura) prevalentemente autonomo e produttore di linguaggio ulteriore, di significato inedito, nuovo”. [Intervista di ABO a F.Mauri]

 lyciameleligios

©Riproduzione riservata

[* Silvia Bre, La fine di ques’arte – Giulio Einaudi Editore]

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©Interior Dimensional Wormhole, 2019 – acrilico su tele  41×41 – Courtesy of R. Mura 

 

 

 

MAN | Arte Sarda nei nuovi percorsi espositivi : Anna MARONGIU e Collezione Permanente

Nelle ultime stagioni espositive, il Museo MAN  ha approfondito il ruolo della Sardegna, crocevia nell’area mediterranea,  “di flussi culturali, sociali e politici”.  Oggi propone due nuovi percorsi museali per riallinearsi a quello spirito che da sempre lo contraddistingue e che possiamo sintetizzare con due parole: indagine/ricerca e valorizzazione, metodi che hanno permesso di implementare la collezione permanente e promuovere opere di talentuosi artisti sardi.

Assistiamo, dunque, ad un nuovo sguardo sulla contemporaneità per mezzo di quel passato che ci definisce, delinea la nostra identità culturale e ne segna l’evoluzione estetica con due mostre dedicate all’arte sarda del Novecento.

La prima, un’importante retrospettiva a cura di Luigi Fassi,  con opening venerdì 8 novembre 2019 fino a domenica 1 marzo 2020, su Anna Marongiu (Cagliari 1907 – Ostia 1941), una grande artista scomparsa prematuramente a soli 34 anni, che ha lasciato un interessante corpus di opere, nonostante la vita abbia reciso troppo presto i suoi sogni.

Anna Marongiu per Il Circolo Pickwick – Courtesy Museo MAN

In esposizione avremo tre cicli di illustrazioni dedicati ad alcuni capolavori della letteratura inglese e italiana: la serie completa delle tavole di Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare del 1930, le illustrazioni de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni del 1926 e le tavole de Il Circolo Pickwick di Charles Dickens  del 1929.

L’elemento più prezioso della retrospettiva è  quest’ultima serie di tavole provenienti dal Charles Dickens Museum di Londra. Esposte per la prima volta in un istituzione museale, dopo ben novant’anni dalla loro realizzazione. Per la gioia di grandi e piccini, le 262 tavole realizzate a inchiostro e acquarello raffigurano le scene e i protagonisti del primo romanzo, capolavoro della letteratura inglese, che il geniale Charles Dickens scrisse nel 1836 “The Pickwick Papers”, pubblicato in fascicoli secondo la consuetudine del tempo.

Oltre all’esposizione è possibile vedere un breve docufilm  sull’artistarealizzato dal MAN e Film Commission Sardegna in collaborazione con il Charles Dickens Museum – con la regia di Gemma Lynch.  Inoltre, correda la  mostra il catalogo edito da Marsilio Editore.

Anna Marongiu

Ma chi era Anna Marongiu? Un’artista molto riservata, come si racconta. Devota alla sua arte, al suo disegnare. Era una persona curiosa e attenta alla realtà che la circondava. Grande osservatrice dei caratteri umani che traduceva in segni definiti, precisi, puliti.

Nelle sue delicate e raffinate illustrazioni,  ogni tratto sembra scorrere fluido senza incertezza,  legato al successivo con una straordinaria lucidità e immediatezza del gesto, del segno, per risultati equilibrati, armonici.

Una plasticità ricercata con resa tonale ben sfumata. Capace di penetrare l’animo dei personaggi raffigurati, si mostra abile nell’introspezione  psicologica sì da definire paradigmi caratteriali del genere umano che traduce con vigore espressivo. L’immediatezza visiva coinvolge e chiarifica le minuziose descrizioni dello scrittore e come per magia ci si ritrova protagonisti del racconto. 

Anna Marongiu si forma presso l’Accademia Inglese di Roma.  Ma fin da subito mostra “grande capacità di sperimentazione alle molteplici tecniche come il disegno, l’acquaforte, l’olio, il bulino. Il suo registro linguistico, caratterizzato da una forte espressività del segno, si muove tra l’umoristico e il drammatico, il comico e il mitologico, trovando originalità e vigore in tutte le tecniche da lei adoperate”.

La Galleria Palladino, importante centro d’arte di Cagliari, ospitò una sua prima mostra personale che in seguito le permise, nel 1940, di partecipare  alla Mostra dell’incisione italiana moderna di Roma.

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Anna Marongiu per Il Circolo Pickwick – Courtesy Museo MAN

Sorprende come oggi questa artista fosse un po’ dimenticata. Purtroppo sembra un destino comune a molti. Ancora tanti gli artisti sardi,  con linguaggi espressivi originali che meritano di esser  valorizzati.

L’ombra del mare sulla collina

La seconda mostra – che inaugura l’8 novembre 2019 ma termina domenica 12 gennaio 2020,  a  cura di Luigi Fassi e Emanuela Manca  presenta un titolo di evocazione surreale che vagamente potrebbe ricordarci l’eccentrico ma incantevole artista Salvador Dalì “L’ombra del mare sulla collina”,  vede esposte alcune opere della ricca e poliedrica Collezione Permanente del MAN tra disegni, pitture, sculture e film.

Il percorso espositivo ricostruisce le vicende artistiche del Novecento sardo attraverso alcune opere, tra le più rappresentative della collezione, e prosegue fino al presente instaurando uno stretto dialogo con diversi autori contemporanei.

La mostra prende nome da un’opera di Mauro Manca (Cagliari 1913 – Sassari 1969), – artista brillante, poliedrico, inquieto, – che segna un preciso momento storico del secondo dopoguerra, quando anche la Sardegna sembra aprirsi  ai linguaggi dell’arte moderna.

 

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Mauro Manca, L’ombra del mare sulla collina, 1957 – Courtesy Museo MAN

L’eterogeneità della storia artistica sarda, si palesa in confluenze e rimandi tra i vecchi linguaggi legati alla tradizione e quelli innovativi più vicini alle nuove forme sperimentali più spirituali, più introspettive, tese verso l’astrattismo. 

In esposizione le vedute di interni di Giacinto Satta e le nuove acquisizioni di Aldo Contini, Anna Marongiu e Mario Paglietti. Inoltre, avremo in mostra opere di artisti dai differenti linguaggi espressivi, divenuti figure chiave della scena artistica sarda: Edina Altara, Italo Antico, Antonio Ballero, Alessandro Bigio, Giuseppe Biasi, Giovanni Campus, Cristian Chironi, Francesco Ciusa, Giovanni Ciusa Romagna, Delitala, Francesca Devoto, Salvatore Fancello, Gino Fogheri, Caterina Lai, Maria Lai, Costantino Nivola, Rosanna Rossi, Vincenzo Satta, Tona Scano, Antonio Secci, Bernardino Palazzi.  A loro il merito di aver elaborato quei codici espressivi caratterizzanti l’arte dell’isola nel secolo scorso, creando contaminazioni presenti in alcuni artisti contemporanei.

Vogliamo, infine, ricordare le parole di una grande collezionista, Peggy Guggenheim: “sostenere e promuovere l’arte e gli artisti è un dovere morale” imprescindibile. L’arte è vita. Un riflesso della società che allude a conoscenza, delinea nuovi percorsi, suggerisce nuovi sguardi/idee.  Lodevole l’impegno delle istituzioni museali o fondazioni private  che promuovono  e valorizzano ciò che il tempo talvolta sembra occultare.

 

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©Riproduzione Riservata

(Articolo apparso su Olbia.it il 27 Ottobre 2019)

 

 

 

 

 

Musica | esplode l’anima del rock con i bravissimi Rock Tales

La Sardegna terra di silenzi, stasi e ripetizioni quasi un riflesso del suo mare, presenta esperienze culturali molto antiche di carattere etnografico. Tra queste le feste patronali che esercitano sempre grande fascino, molto suggestive nei riti  e consuetudini, molto sentite da parte dell’intera comunità; anche se alcuni antropologi sostengono che siano destinate a scomparire a causa del dilagante materialismo culturale, della globalizzazione che implica il concetto di appiattimento, di indifferenza, di atipicità, di disuguaglianza. Ma per noi sardi le radici culturali non sono solo ben impiantate, sono disperse nella roccia atavica e nel nostro mare che lambisce le coste. Sarà difficile sradicarle.

Queste feste un tempo erano momenti in cui prevaleva una sensazione di libertà e leggerezza, di distensione e gioia.  Ci si sentiva liberi di socializzare. Anche i piccoli avevano i loro privilegi: poter giocare e rincorrersi davanti al palco, dove si esibivano gli artisti della serata.

Impegno e presenza

Oggi le feste patronali sono organizzate da comitati spontanei delle comunità, dalle classi o in dialetto gallurese “fidali”, nati nello stesso anno. Le Classi/Comitati provvedono a curare ogni particolare organizzativo come ad esempio ricevono le bandiere del Santo o della Santa di cui ricorrono i festeggiamenti e allestiscono la chiesa, organizzano la processione religiosa, provvedono al divertimento della comunità coinvolgendo artisti, dj, cabarettisti etc…

Il lavoro impegnativo e gravoso nella raccolta dei fondi, nel predisporre tutto secondo i severi parametri della sicurezza non sono inezie, richiedono dinamismo, capacità organizzative e spirito di sacrificio.

Un riscontro di presenza da parte del pubblico dovrebbe esserci per  supportare e condividere chi organizza. Altrimenti sembrerebbe una festa privata, priva del significato primario della condivisione collettiva.

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Courtesy  of Rock Tales

Ma la tramontana ha anima rock?

Con un’aria dal sapore di tramontana sferzante, autunnale, sanamente combattuta con birra, buon vino rosso di  produzione locale, sambuca e del filu ferru (l’elisir di lunga vita della gente sarda)  qualche sera fa abbiamo assistito ad un’esibizione che merita di esser scolpita nella memoria.

Sul palco di Berchiddeddu (frazione di Olbia) in occasione della festa patronale 2019 in onore alla Beata Vergine Immacolata si sono esibiti i Rock Tales, una tra le band più apprezzate della Sardegna, in uno spettacolo avvincente sulla storia del rock, dagli anni ‘50 ai ‘90 del secolo scorso, con parallelismi storici e interferenze nella musica italiana.

Oltre due ore di greatest hits dei più grandi cantanti e gruppi rock della storia musicale, suddivisi secondo decadi, a cui si attribuisce un colore e relativo significato per rappresentare gli elementi più cool della musica del periodo.

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Photo ©credits Antonella Mura courtesy of Rock Tales

Con l’ausilio di uno schermo, dove scorrevano immagini e le caratteristiche del periodo musicale presentato, abbiamo riascoltato canzoni di Elvis, Beatles e del gruppo rivale Rolling Stone,  Jimi Hendrix, Jim Morrison e Doors, Janis Joplin, Deep Purple, e ancora Led Zeppelin,  Toto,  Queen, Nirvana e tanti altri artisti.

In scaletta erano presenti  anche canzoni di cantanti italiani per evidenziare le relative assonanze con la storia del rock: come Celentano, con la sua mitica Svalutation, la PFM, Lucio Battisti, Gianna Nannini, Litfiba, Vasco Rossi. A ciò si aggiungevano i continui riferimenti alla storia socio-culturale dei periodi analizzati  mostrando capacità di sintesi  e  ingegno  divulgativo della band.

 

Il progetto musicale Rock Tales

Il progetto  musicale nasce nel 2013 come storia del rock  dalle sue origini blues degli anni ′50, negli Stati Uniti,   fino agli anni ′90  ovvero la sua evoluzione in rock and roll e altre forme.

Da Johnny B. Goode del musicista americano Chuck Berry del 1958 in cui si parla del sogno americano preannunciato dalla madre di un ragazzo semplice, di campagna che pur non sapendo né scrivere né leggere riesce ad aver successo per il suo talento naturale nel suonare la chitarra.

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Photo ©credits Antonella Mura courtesy of Rock Tales

Era un blues rock di riscatto, con implicito riferimento alla  disuguaglianza e differenziazione delle classi sociali americane e al sogno di giustizia e integrazione della popolazione nera nella società americana. Infatti, il brano originale citava un ragazzo di “colore”, che poi Berry sostituì con ragazzo di “campagna” , per timore che il pezzo non venisse pubblicizzato trasmesso in radio. Il talento che uno possiede prescinde dal colore della pelle. Fu questo il vero significato purtroppo celato.

Poi è la volta del rockabilly, la musica dei bianchi. La canzone di Carl Perkins di cui si fece grande interprete Elvis Presley. Una canzone che in sé sembra non aver significato, mentre se approfondiamo la storia si capisce l’intenzione, forse in chiave ironica: lo sconcerto e disapprovazione di chi vede un ospite di una festa preoccuparsi delle sue scarpe di camoscio blu che erano state calpestate, non curandosi della donna che aveva accanto. Un linguaggio allusivo che sembra volerci suggerire che nella vita bisogna dare il giusto valore alle cose.  Perché preoccuparsi di una  cosa marginale e secondaria? Un paio di scarpe!?

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Photo ©credits Antonella Mura courtesy of Rock Tales

E la storia del rock continua con nuove suggestioni, significati, forme, come ad esempio lo struggente rock acustico o quello elettrico e quello più attuale.

Un immenso progetto musicale che unisce tutti.   Oggi appare  sempre  più apprezzato, anche per la genialità del gruppo che riesce a rinnovarlo: annualmente al tour si aggiungono date e vengono inserite nuove canzoni.

Il gruppo composto da eccellenti musicisti professionisti, – insegnanti di musica della zona di Oristano e Medio Campidano, – ha donato ai presenti uno spettacolo che trasudava saggezza, energia, positività. Ma non solo, anche tanta nostalgia di un tempo che ormai vive solo nei ricordi, insito in quelli che lo hanno  vissuto.  Periodi storico-culturali in cui originalità e creatività non erano concetti ma idee che si concretizzavano, si perseguivano, avvincevano e a volte scioccavano per imprevedibilità e spavalderia. Era rabbia e sete di giustizia, desiderio di riscatto,  pace, vita, e ancora erano armonizzazioni musicali quasi frasi ristoratrici dove l’anima trovava riparo dal caos esistenziale d’insanabile inquietudine.

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Photo ©credits Antonella Mura courtesy of Rock Tales

E ora il gruppo:  voce solista potente (Freddy avrà applaudito da lassù!) quella di  Martino  Mereu, insegnante di canto, voce versatile, fresca, che “spacca” (per utilizzare un termine caro alla cantante inglese Skin, giudice in un talent televisivo), Marco Pinna al basso e voce, GianMatteo Zucca chitarra e voce, Giovanni Collu alla batteria, Alberto “Benga” Floris chitarra e voce.

Non solo musica

Da un punto di vista tecnico confrontandoci possiamo considerarli eccellenti musicisti in armonia, senza individuali virtuosismi (possibili visto lo spessore dei musicisti sul palco) ma equilibrati e attenti a ricreare la giusta atmosfera musicale del pezzo suonato. Sembrerebbe una formazione insolita, per la presenza di due chitarre, atte a ricreare la parte armonica e solista, a supporto della melodia cantata. Tutte le parti armoniche delle tastiere sono state minuziosamente ricreate per chitarra, facendoci dimenticare la loro assenza in brani indelebili della nostra memoria musicale.

I due chitarristi si mostrano affiatati e intercambiabili nelle parti soliste e armoniche. La struttura ritmica viene eseguita dall’eccellente batterista di rinomata esperienza Giovanni Collu, supportata in simbiosi dal bassista Marco Pinna. Vanno inoltre menzionate le perfette armonizzazioni corali del gruppo creando un valore aggiunto  all’esecuzione.

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Photo ©credits Antonella Mura courtesy of Rock Tales

Ma sul palco non è solo canto, è presenza scenica non sguaiata. Ci si diverte e si scherza. Si manifesta una velata ironia. Ora sembra impetuosa, ora ha tinte più delicate. D’altronde tanti affermano che bisogna staccarsi dalle cose, con giusta ironia,  planare dall’alto per capire a fondo situazioni ormai legate al tempo.

Ora ci inducono a pensare con estemporanei quiz o riflettere su parole del passato,  allusioni a  incandescenze di vita sociale al di là di ogni logica, come i conflitti armati e la corsa agli armamenti, la globalizzazione, il materialismo ormai erba infestante, libertà di genere.

La musica diventa “struttura” sociale dove ricollocare il pensiero dell’uomo nel suo percorso. Loro l’hanno raccontata rendendola unica dove le differenze di forma sembrano annullarsi per con/temporaneità.

Oggi pur con forme diverse  permangono i significati. La  musica continuerà ad essere l’espressione più democratica, unirà, azzererà il tempo fino ad varcare la soglia dell’eternità. Dove eterna presenza diverrà una bella emozione. Oggi come ieri.

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© Riproduzione Riservata

All Photos ©credits Antonella Mura courtesy of Rock Tales

 

(Articolo apparso su Olbia.it 08 Settembre 2019)

 

 

34 Premio Dessì si conferma evento culturale di prestigio | Premiazione

Da qualche anno il tempo faceva sentire la sua voce fredda, pungente, come un’eco che parlava di autunni e creava scompiglio tra gli organizzatori dell’evento di Villacidro, costretti in tutta velocità a predisporre una location alternativa, per la serata di assegnazione del prestigioso Premio Dessì.

Ma quest’anno, finalmente, il tempo si è mostrato  clemente donandoci un’aria di fine estate, e nella piazza che taglia a metà il graziosio paesino, abbarbicato su un lembo di montagna,  tra l’affiorare di scorci poetici: campanili,  tetti, abbaini,  e sul basso stradine segnate dal tempo, il 5 ottobre si è svolta la serata di premiazione del 34° Premio Dessì, intitolato allo scrittore sardo Giuseppe Dessì (Cagliari 1909 -Roma 1977)  vincitore del Premio Strega nel 1972 con il romanzo Paese d’Ombre.

Un classico  della letteratura italiana che presenta una straordinaria forza di contemporaneità per contenuti,  oggi sempre più discussi, legati alla tutela e  salvaguardia dell’ambiente.

Alla serata era presente, oltre al pubblico numerosissimo, quel vento che alle volte disperde, avvicina, rimodula suoni e parole. Dà significato al silenzio come luogo del pensiero.

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 Umberto Broccoli e Francesco Permunian – Courtesy Archivio Fondazione Dessì

Sul piccolo palco che dominava la valle in cui l’orizzonte sembrava disperdersi, vi era una piccola scultura formata da gigantografie di libri, sovrapposti di taglio, che da attenta lettura dei dorsi erano alcuni romanzi dello scrittore. Ma ciò che attirava lo sguardo era la loro disposizione a forma di  x.  Erano tre e seppur alludendo al trentennale del Premio, (in realtà 34°) forzando sul segno grafico, come intersezione di due rette incidenti, sembrava si volesse enfatizzare quel centro del mondo, il paese di Villacidro, luogo di origine, partenza e arrivo di significati, di idee.

Come ricordato anche dal presentatore della serata Umberto Broccoli, archeologo e volto noto della televisione e voce di RadioUno: “Ogni punto dell’universo è anche il centro dell’universo” come diceva Dessì, in cui alludeva all’universalità e nello stesso tempo centralità del suo paese soggetto dei suoi romanzi,  ma prima di ogni cosa dell’uomo nel suo interrelarsi, nel suo stare al mondo.

Dai suoi romanzi, dalle sue inchieste conservate nelle Teche della Rai emerge una necessità di raccontare e raccontarsi nel trapasso dal passato al presente inspiegabile perché avvolto dal mistero e silenzio ancestrale. Dirà che l’uomo sardo anche se vive in continente “porta sempre con sé quell’alone di silenzio” derivato dall’essere abitante di un’isola, quindi isolato, lontano dai clamori della città. Da qui la volontà di reinterpretare, dare forma e significato al silenzio che si palesa in pensiero, in ricordo, in memoria.

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Il presentatore con Gianrico Carofiglio Courtesy Archivio Fondazione Dessì

E Marta Cabriolu, sindaco di Villacidro, nel suo discorso introduttivo sulle orme di Giuseppe Dessì nel suo dar voce al “silenzio”, evidenzia il ruolo degli scrittori “che sentono il mondo che ci circonda in tutte le forme e ne scrivono per suscitare emozioni in chi legge, perché leggere implica una crescita, una conoscenza”.

Ma, le parole non si soffermano a pura descrizione, ora divengono taglienti e dure. Vogliono richiamare l’attenzione sullo stato di abbandono percepito dai docenti e invoca le istituzioni in quanto loro, in primis, dovrebbero “sostenere il diritto assoluto all’istruzione e alla formazione”. Inoltre, possiamo aggiungere che i dati forniti dal MIUR – Ministero dell’istruzione dell’università e della ricerca – sulla dispersione scolastica sono inquietanti: se tra il 2015/2016 l’abbandono nella scuola secondaria di II grado era stato del 3,82%, tra il 2016/2017 è stato del 4,31%. Bisogna sensibilizzare sull’immenso valore della cultura che ha una enorme potere salvifico dalle sabbie mobili in cui sembra arrancare il presente.

“Mai come in questo periodo storico culturale in cui imperversa una triste povertà d’animo di valori e di sentimenti” – dice la Cabriolu – “il nostro paese ha bisogno di un forte richiamo al senso civico al rispetto delle persone, della loro intelligenza, della loro dignità”.

Non può mancare l’attacco ai social e alle realtà virtuali, alle aggressioni verbali, alla maleducazione, all’ignoranza. Un discorso limpido, ben strutturato, che non lascia indifferenti: le istituzioni e chi propone cultura devono impegnarsi per il recupero di una società che sta vacillando e rischia nel cadere di danneggiarsi in modo irreversibile.

Da qui l’urgenza continua la Cabriolu di “ricostruire le nostre identità, quelle delle nostre vite reali fatte di persone, bambini, gente disperata che muore in mare per cercare un futuro migliore”. Un devastante grido di aiuto se si riflette su verità che deflagrano. Fanno male. Arrecano dolore. Bisogna rieducare alla gentilezza, all’ascolto, alla bellezza, al confronto, predisporre luoghi dove potersi incontrare, porsi come esempio nei confronti dei ragazzi e soprattutto trasmettergli il senso del futuro che sarà migliore se verranno approfondite e studiate  l’esperienze del passato, quella memoria storica che è insita nella nostra anima, perché vissuta da chi ci ha preceduto, al fine di non ripetere gli stessi errori.

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Michele Mari e Italo Testa Courtesy Fondazione Dessì

E la vivace settimana culturale, legata ad uno dei premi italiani più longevi,  propone presentazioni di libri, dibattiti, simposi, coinvolgendo anche gli studenti delle scuole. Tra gli obiettivi vi è quello d’infondere l’amore per la lettura, perché leggere è un  ripiegarsi sulla vita stessa, per intuirne le oscure dinamiche. Non è solo raccolta di nozioni ma anche riflessioni. “Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto”  come diceva il nostro caro Antonio Gramsci.

La Giuria

Oltre alla settimana ricca di eventi culturali vengono premiati i testi selezionati da una giuria composta in prevalenza da accademici tra i quali il presidente della giuria Anna Dolfi docente dell’Università di Firenze e socia dell’Accademia Nazionale dei Lincei che nel discorso introduttivo presenta gli altri giurati: Duilio Caocci dell’Università di Cagliari, Giuseppe Langella e Giuseppe Lupo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Gigliola Sulis dell’Università di Leeds (Inghilterra); Gino Ruozzi dell’Università di Bologna; i giornalisti Luigi Mascheroni giornalista culturale de Il Giornale ed editore della collezione artigianale De Piante, Stefano Salis della pagina culturale del Sole 24 Ore; e il Presidente della Fondazione del Premio Dessì Paolo Lusci.

Diamo qualche numero per capire l’importanza e il valore che oggi ha assunto il Premio Dessì nel panorama della cultura italiana. I libri editi esaminati sono stati circa  500  e dopo un’iniziale scrematura di quindici testi, i giurati hanno scelto i tre finalisti.

La  poesia 

Per la sezione poesia sono stati premiati: Michele Mari, voce inconfondibile nel panorama della poesia italiana contemporanea, con un testo edito da Einaudi “Dalla Cripta” dove la parola affonda per struttura in quel passato classico,  che non è percepito solo come formazione necessaria del conoscere e del poetare ma, diviene valore assoluto ed eterno del contemporaneo per l’universalità dei temi trattati: “frammenti di memoria, noi e voi, / precipiti nel nulla a capofitto / perchè il passato è tutto, e siamo suoi”.

Altro poeta vincitore il docente di Filosofia Teoretica dell’Università di Parma Italo Testa, che propone una poetica diafana e trasparente, in cui l’indagine conoscitiva struttura il suo poetare, come sguardo su quella realtà che tutti vediamo ma che non “conosciamo”. Il valore di ciò che non è determinante, fondamentale, che ha una sua forza esistenziale.

Il testo edito da Marcos Y Marcos s’intitola “L’indifferenza naturale”. Una poesia sorta da un’ossessione, cara al poeta, del paesaggio “nel tentativo di precisare lo sguardo sul mondo. La poesia ha il compito di dare un nome alle cose senza nome, rivelarci l’esperienza e vederla sotto un’altro aspetto”.

La terza proposta, vincitrice del Premio Speciale Giuseppe Dessì è Patrizia Valduga.

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Patrizia Valduga e Francesco Permunian Courtesy Fondazione Dessì

Una poetessa lodata da Luigi Baldacci, uno dei più grandi critici del ‘900 e per lunghi tredici anni compagna di Giovanni Raboni, poeta e critico letterario. Il testo edito da Einaudi, s’intitola “Belluno. Andantino Grande fuga” e, se non sapessimo che fosse un testo poetico, dal significato delle parole potremmo pensare ad uno spartito musicale con la presenza di un  tempo leggermente lento e una struttura in musica a più voci. In realtà sono quartine che preparano il saggio finale sulla poesia di Giovanni Raboni.

Nate di getto nell’agosto del 2018 a Belluno, l’editore Einaudi impreziosisce la veste grafica, e propone il testo riportando sulla copertina il volto della poetessa quasi ad evidenziare l’originalità della sua voce poetica e del suo farsi esistenza. La parola crea raccordi  nel suo densificarsi  tra paesaggi, letteratura e amore, un sentimento che la poetessa svela e illumina con la parola.

Il testo si pone “come per raccogliere il testimone del grande poeta […] la poesia di Raboni, dopo 15 anni di speciale frequentazione, oltre la soglia della vita fisica,  attraversa l’intero libro ed è oggetto di considerazione della poetessa. Un saggio che vuole precisare questioni rilevanti della poesia e della poetica di Raboni”. Questa la motivazione della giuria che conferisce il premio “con convinzione al più recente e atipico libro di una delle voci più importanti della letteratura italiana contemporanea”.

La poetessa, (che personalmente, mi ha sempre ricordato l’incedere e l’allure della pittrice del secolo scorso Leonor Fini n.d.r.) si mostra nella sua esile e delicata figura dalla pelle bianchissima, quasi lucente, elegante nel suo abito total black. Sale sul palco, visibilmente felice ed incredula. Inizia a parlare. E con voce intimorita e segnata da commozione racconta la genesi dell’opera  nata da una profonda delusione: il mancato sostegno da parte del Corriere della Sera e del Comune di Milano ad un suo  progetto  : dedicare lo spazio di ciò che rimane del lazzaretto manzoniano a Giovanni Raboni. Luogo che peraltro si trova in prossimità della casa in cui è nato.

E continua la poetessa con la voce spezzata, commossa “così mi è venuta in mente questa cosa strana”. La fine dell’opera è segnata da un toccante appello al Presidente della Repubblica, una lettera: “mio caro Presidente, questo è quanto/ accolga la mia supplica e il mio pianto/ che è senza lacrime / che non si asciuga/ il 10 agosto Belluno Valduga.”

Una supplica accorata quella della poetessa, che speriamo venga accolta. L’opera di Giovanni Raboni, al pari di altri intellettuali e letterati, deve avere un proprio spazio perché la sua opera ha contribuito in modo considerevole alla grandezza della poesia e della critica letteraria in Italia e nel mondo.

La narrativa

Dopo un breve intermezzo musicale, dalla voce di Irene Nonnis, si prosegue con la presentazione dei finalisti per il genere della narrativa. Viene premiato Gianrico Carofiglio, autore per certi versi innovativo che è riuscito sviluppare in Italia un nuovo genere letterario il legal thriller. Scrittore molto conosciuto e stimato per la sua lucidità e coerenza intellettuale. Il romanzo premiato “La versione di Fenoglio” edito da Einaudi.

Ma qui ci si vuole soffermare su una domanda posta dal presentatore della serata, che vede una certa assonanza tra Dessì e l’autore sull’utilizzo della parola “scelta”. Una parola presente nel suo saggio “La manomissione delle parole” una riflessione sulla manomissione del linguaggio pubblico”. La finalità posta era quella di recuperare il significato di parole spesso abusate quale giustizia, ribellione, vergogna, bellezza e scelta. Come? iniziando ad evidenziare i contrari delle parole. Dopo un’attenta ricerca la parola “scelta” è apparsa l’unica a non avere contrari. “La scelta  – dice Carofiglio –  è una virtù e la prerogativa fondamentale più ancora della libertà. È un presupposto dell’esercizio della libertà. Per scegliere bisogna esser consapevoli e l’accento viene posto sulla scelta che implica azione” e coerenza.

Dopo una breve lezione di etica (starei ore e ore ad ascoltare Carofiglio per la semplicità espositiva di temi complessi n.d.r.)  viene premiato “Il Sillabario dell’amor crudele” edito da ChiareLettere di Francesco Permunian a cui verrà assegnato il super premio Dessì. Uno scrittore che mostra subito il suo tessuto esistenziale: sensibile, genuino, si definisce ex-centrico, fuori dal centro, lontano da contesti letterari o giornalistici, ama vivere tra le sue cose e i suoi libri, restio ai viaggi, agli spostamenti:  “Gli unici viaggi sono quelli tra le pareti della mia mente. Nello specchio del Garda si specchia il mondo intero” e continua dicendo che non amavano spostarsi tanti altri autori e cita carlo Emilio Gadda, Andrea Zanzotto e poi Vitaliano Brancati che pur avendo viaggiato “vedeva” tutto nel suo paese Zero Branco, in provincia di Treviso. Lì riusciva a vedere la Cina persino l’Olanda. Permunian si rivela una persona che nonostante tanta sofferenza ha raggiunto la sua “misura” della vita, adattando il suo universo creativo alla  scrittura.

La giuria nella motivazione evidenzia la capacità dello scrittore di abbracciare una narrativa ricca di tante sfumature che vanno dal grottesco al comico che “si proietta oltre il racconto di provincia volendo legare dialetto, antropologia, memorie del territorio con le contaminazioni di un’Europa laica e illuminista.”

Il suo stile narrativo, che è stato avvicinato a quello di Calvino e Sciascia, “svela uno scrittore coraggioso, appartato poco incline alle mode letterarie inconfondibile nella voce e nella fisionomia.”

Lo scrittore ama il genere comico, per lui è fondamentale. E per definirne l’importanza cita una frase di un suo autore preferito il filosofo Ralph Waldo Emerson: La comicità è la signora del dolore. Continua in un’irrefrenabile loquacità a parlare dei suoi autori di formazione tra i quali ci sono le “righe” del Cardinale Martini e alcuni autori visionari come Sergio Quinzio, il fotografo Mario Giacomelli che pur avendo la quinta elementare “aveva una capacità fotografica e visionaria in cui mi sono riconosciuto” specialmente nelle tematiche legate all’età dell’infanzia o della vecchiaia.

Si mostra felice di esser ritornato in Sardegna. Quando venne 13 anni fa, aveva trovato una terra simile al suo Polesine, povero e travolto dall’alluvione del Po degli anni ’50. Oggi desiderava rivedere Villacidro. Ma la commozione per il premio diviene tangibile, più intensa quando parla della sua famiglia, della sua storia, della necessità di scrivere quasi per superare un dolore abissale e il suo viso accoglie lacrime e con voce labile, debole parla della figlia Benedetta, alla quale dedica il premio. “Io ho potuto scrivere perché ho avuto accanto una figlia meravigliosa che mi ha sostenuto sempre nella mia vedovanza. Oggi lei ha 40 anni e mi fa da sorella, madre, amica. Mia moglie è morta giovanissima 39 anni fa. Questo premio è per le donne della mia vita. Loro mi hanno dato quel microclima mentale da monaco della scrittura, come lo era Flaubert”.

Il dolore di un vedovo con la figlia di un anno da aiutare nella crescita è incommensurabile. Non ci sono parole. Solo chi vive quell’istante ne percepisce l’abisso.

Dopo questo ricordo struggente che suscita commozione e applausi in tutti i presenti Permunian continua a parlare dei suoi maestri e cita i maestri del Nord Europa, Franz Kafka, Thomas Bernhard, Antonio Lobo Antunes tra i più importanti autori portoghesi con il quale lo scrittore ebbe uno scambio epistolare quando Antunes, medico specializzato in psichiatria, dirigeva l’ospedale Miguel Bombarda di Lisbona. Ora cita i poeti che più preferisce Philippe Jaccottet e Giovanni Raboni.  Loro gli hanno insegnato “cos’è la scrittura, la pulizia, la parola assoluta che ti dà l’esercizio della poesia”. Instancabile e con quell’entusiasmo di un bimbo che affronta la vita con curiosità irrefrenabile per poi raccontare con slancio vitale le esperienze positive vissute, continua a raccontarsi.

“Quando ero studentello  a Padova si credeva che la parte più alta della letteratura fosse la poesia. I miti di allora erano Andrea Zanzotto, Diego Valeri, Ezra Pound ormai chiuso nel suo mutismo. Io mi sono laureato con una tesi su un poeta Vittorio Sereni. Cominciavo a scrivere versi che portavo a Pieve di Soligo da Zanzotto.”

L’autore ricorda che aveva 35 anni era rimasto vedovo da pochissimo tempo. Scriveva poesie che esprimevano la disperazione e il dolore per ciò che aveva vissuto. Tanto che un giorno il poeta lo prese da parte e gli disse ” devi smettere di scrivere con le lacrime agli occhi perché le lacrime escono e cadono sulla pagina e sporcano tutto. Devi scrivere con il ricordo delle lacrime e mi diede la Recherche di Proust e le opere di Raboni”. L’inquietudine, la profondità, la nobiltà d’animo di  Francesco Permunian rimarranno  indelebili nei ricordi dei presenti.

E ora parliamo del terzo vincitore, Matteo Terzaghi, con il suo libro edito da Quidlibet “La terra e il suo satellite”.

Matteo Terzaghi parla della sua incapacità a divagare e dell’importanza della sintesi nella sua opera. Testo conciso, impregnato di significato “come se altre forme non fossero possibili”[…] aggiunge di non esser capace a scrivere un romanzo. “Forse  c’è una corrispondenza tra la forma mentis e la forma dei testi che scriviamo”.

Questa osservazione rimane sospesa, meriterebbe approfondimenti, ma per esigenze di spazio siamo costretti a ricordare le altre importanti premiazioni: Premio speciale della giuria a Claudio Magris uno dei più autentici intellettuali del nostro tempo, autore di libri indimenticabili tra i quali Microcosmi con il quale vinse il Premio Strega nel 1997. Con questo premio si vuole evidenziare “il valore della cultura, dell’intelligenza, dell’impegno, della passione letteraria e civile che ha guidato la sua vita […] un modello di intellettuale” da porsi come esempio. Mentre il Premio Speciale Fondazione di Sardegna viene consegnato: a  Tullio Pericoli, scrittore e disegnatore che sembra render giustizia all’indecifrabilità, la sua è “un’arte della precisione e della visione, […] una pittura che sembra calligrafia dell’anima e del territorio”; altro Premio Speciale Fondazione di Sardegna a Lina Bolzoni, critica letteraria, che ha insegnato alla Scuola Normale di Pisa per il suo lavoro divulgativo inerente alle numerose pubblicazioni e saggi editi sulla Letteratura”.

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Una serata piacevole a tratti divertente ma che ha toccato momenti di pura commozione, scandita e impreziosita dalle letture estrapolate dai testi e da spazi musicali. Intarsi armonici che hanno donato bellezza all’evento.

Si sono valorizzate le opere senza tralasciare i messaggi di portata etica e per certi versi antropologica dello scrittore sardo. Un Premio che continua ad allinearsi con una propria fisionomia tra i più importanti del panorama letterario italiano.

”Quale occasione migliore per offrire una rassegna di scrittori impegnati a riflettere sulla nostra condizione storica, sui nostri problemi, senza che si perdano di vista i problemi più generali del mondo intero… “ Parole di Giuseppe Dessì e Nicola Tanda poste nella prefazione dell’antologia Narratori di Sardegna, una significativa premonizione (anche se nel caso sopracitato gli autori si riferivano agli autori sardi presenti nell’antologia) sugli obiettivi, finalità  e portanza di contenuti del Premio Dessì.

I libri cosa sono in definitiva? sono conchiglie che poggiate all’orecchio per ascoltare il rumore del mare/mondo fanno confluire in noi diverse sonorità/ significati / esperienze   e luoghi di pensiero, stanze da cui non vorremmo andar via.

 

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