34 Premio Dessì si conferma evento culturale di prestigio | Premiazione

Da qualche anno il tempo faceva sentire la sua voce fredda, pungente, come un’eco che parlava di autunni e creava scompiglio tra gli organizzatori dell’evento di Villacidro, costretti in tutta velocità a predisporre una location alternativa, per la serata di assegnazione del prestigioso Premio Dessì.

Ma quest’anno, finalmente, il tempo si è mostrato  clemente donandoci un’aria di fine estate, e nella piazza che taglia a metà il graziosio paesino, abbarbicato su un lembo di montagna,  tra l’affiorare di scorci poetici: campanili,  tetti, abbaini,  e sul basso stradine segnate dal tempo, il 5 ottobre si è svolta la serata di premiazione del 34° Premio Dessì, intitolato allo scrittore sardo Giuseppe Dessì (Cagliari 1909 -Roma 1977)  vincitore del Premio Strega nel 1972 con il romanzo Paese d’Ombre.

Un classico  della letteratura italiana che presenta una straordinaria forza di contemporaneità per contenuti,  oggi sempre più discussi, legati alla tutela e  salvaguardia dell’ambiente.

Alla serata era presente, oltre al pubblico numerosissimo, quel vento che alle volte disperde, avvicina, rimodula suoni e parole. Dà significato al silenzio come luogo del pensiero.

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 Umberto Broccoli e Francesco Permunian – Courtesy Archivio Fondazione Dessì

Sul piccolo palco che dominava la valle in cui l’orizzonte sembrava disperdersi, vi era una piccola scultura formata da gigantografie di libri, sovrapposti di taglio, che da attenta lettura dei dorsi erano alcuni romanzi dello scrittore. Ma ciò che attirava lo sguardo era la loro disposizione a forma di  x.  Erano tre e seppur alludendo al trentennale del Premio, (in realtà 34°) forzando sul segno grafico, come intersezione di due rette incidenti, sembrava si volesse enfatizzare quel centro del mondo, il paese di Villacidro, luogo di origine, partenza e arrivo di significati, di idee.

Come ricordato anche dal presentatore della serata Umberto Broccoli, archeologo e volto noto della televisione e voce di RadioUno: “Ogni punto dell’universo è anche il centro dell’universo” come diceva Dessì, in cui alludeva all’universalità e nello stesso tempo centralità del suo paese soggetto dei suoi romanzi,  ma prima di ogni cosa dell’uomo nel suo interrelarsi, nel suo stare al mondo.

Dai suoi romanzi, dalle sue inchieste conservate nelle Teche della Rai emerge una necessità di raccontare e raccontarsi nel trapasso dal passato al presente inspiegabile perché avvolto dal mistero e silenzio ancestrale. Dirà che l’uomo sardo anche se vive in continente “porta sempre con sé quell’alone di silenzio” derivato dall’essere abitante di un’isola, quindi isolato, lontano dai clamori della città. Da qui la volontà di reinterpretare, dare forma e significato al silenzio che si palesa in pensiero, in ricordo, in memoria.

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Il presentatore con Gianrico Carofiglio Courtesy Archivio Fondazione Dessì

E Marta Cabriolu, sindaco di Villacidro, nel suo discorso introduttivo sulle orme di Giuseppe Dessì nel suo dar voce al “silenzio”, evidenzia il ruolo degli scrittori “che sentono il mondo che ci circonda in tutte le forme e ne scrivono per suscitare emozioni in chi legge, perché leggere implica una crescita, una conoscenza”.

Ma, le parole non si soffermano a pura descrizione, ora divengono taglienti e dure. Vogliono richiamare l’attenzione sullo stato di abbandono percepito dai docenti e invoca le istituzioni in quanto loro, in primis, dovrebbero “sostenere il diritto assoluto all’istruzione e alla formazione”. Inoltre, possiamo aggiungere che i dati forniti dal MIUR – Ministero dell’istruzione dell’università e della ricerca – sulla dispersione scolastica sono inquietanti: se tra il 2015/2016 l’abbandono nella scuola secondaria di II grado era stato del 3,82%, tra il 2016/2017 è stato del 4,31%. Bisogna sensibilizzare sull’immenso valore della cultura che ha una enorme potere salvifico dalle sabbie mobili in cui sembra arrancare il presente.

“Mai come in questo periodo storico culturale in cui imperversa una triste povertà d’animo di valori e di sentimenti” – dice la Cabriolu – “il nostro paese ha bisogno di un forte richiamo al senso civico al rispetto delle persone, della loro intelligenza, della loro dignità”.

Non può mancare l’attacco ai social e alle realtà virtuali, alle aggressioni verbali, alla maleducazione, all’ignoranza. Un discorso limpido, ben strutturato, che non lascia indifferenti: le istituzioni e chi propone cultura devono impegnarsi per il recupero di una società che sta vacillando e rischia nel cadere di danneggiarsi in modo irreversibile.

Da qui l’urgenza continua la Cabriolu di “ricostruire le nostre identità, quelle delle nostre vite reali fatte di persone, bambini, gente disperata che muore in mare per cercare un futuro migliore”. Un devastante grido di aiuto se si riflette su verità che deflagrano. Fanno male. Arrecano dolore. Bisogna rieducare alla gentilezza, all’ascolto, alla bellezza, al confronto, predisporre luoghi dove potersi incontrare, porsi come esempio nei confronti dei ragazzi e soprattutto trasmettergli il senso del futuro che sarà migliore se verranno approfondite e studiate  l’esperienze del passato, quella memoria storica che è insita nella nostra anima, perché vissuta da chi ci ha preceduto, al fine di non ripetere gli stessi errori.

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Michele Mari e Italo Testa Courtesy Fondazione Dessì

E la vivace settimana culturale, legata ad uno dei premi italiani più longevi,  propone presentazioni di libri, dibattiti, simposi, coinvolgendo anche gli studenti delle scuole. Tra gli obiettivi vi è quello d’infondere l’amore per la lettura, perché leggere è un  ripiegarsi sulla vita stessa, per intuirne le oscure dinamiche. Non è solo raccolta di nozioni ma anche riflessioni. “Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto”  come diceva il nostro caro Antonio Gramsci.

La Giuria

Oltre alla settimana ricca di eventi culturali vengono premiati i testi selezionati da una giuria composta in prevalenza da accademici tra i quali il presidente della giuria Anna Dolfi docente dell’Università di Firenze e socia dell’Accademia Nazionale dei Lincei che nel discorso introduttivo presenta gli altri giurati: Duilio Caocci dell’Università di Cagliari, Giuseppe Langella e Giuseppe Lupo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Gigliola Sulis dell’Università di Leeds (Inghilterra); Gino Ruozzi dell’Università di Bologna; i giornalisti Luigi Mascheroni giornalista culturale de Il Giornale ed editore della collezione artigianale De Piante, Stefano Salis della pagina culturale del Sole 24 Ore; e il Presidente della Fondazione del Premio Dessì Paolo Lusci.

Diamo qualche numero per capire l’importanza e il valore che oggi ha assunto il Premio Dessì nel panorama della cultura italiana. I libri editi esaminati sono stati circa  500  e dopo un’iniziale scrematura di quindici testi, i giurati hanno scelto i tre finalisti.

La  poesia 

Per la sezione poesia sono stati premiati: Michele Mari, voce inconfondibile nel panorama della poesia italiana contemporanea, con un testo edito da Einaudi “Dalla Cripta” dove la parola affonda per struttura in quel passato classico,  che non è percepito solo come formazione necessaria del conoscere e del poetare ma, diviene valore assoluto ed eterno del contemporaneo per l’universalità dei temi trattati: “frammenti di memoria, noi e voi, / precipiti nel nulla a capofitto / perchè il passato è tutto, e siamo suoi”.

Altro poeta vincitore il docente di Filosofia Teoretica dell’Università di Parma Italo Testa, che propone una poetica diafana e trasparente, in cui l’indagine conoscitiva struttura il suo poetare, come sguardo su quella realtà che tutti vediamo ma che non “conosciamo”. Il valore di ciò che non è determinante, fondamentale, che ha una sua forza esistenziale.

Il testo edito da Marcos Y Marcos s’intitola “L’indifferenza naturale”. Una poesia sorta da un’ossessione, cara al poeta, del paesaggio “nel tentativo di precisare lo sguardo sul mondo. La poesia ha il compito di dare un nome alle cose senza nome, rivelarci l’esperienza e vederla sotto un’altro aspetto”.

La terza proposta, vincitrice del Premio Speciale Giuseppe Dessì è Patrizia Valduga.

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Patrizia Valduga e Francesco Permunian Courtesy Fondazione Dessì

Una poetessa lodata da Luigi Baldacci, uno dei più grandi critici del ‘900 e per lunghi tredici anni compagna di Giovanni Raboni, poeta e critico letterario. Il testo edito da Einaudi, s’intitola “Belluno. Andantino Grande fuga” e, se non sapessimo che fosse un testo poetico, dal significato delle parole potremmo pensare ad uno spartito musicale con la presenza di un  tempo leggermente lento e una struttura in musica a più voci. In realtà sono quartine che preparano il saggio finale sulla poesia di Giovanni Raboni.

Nate di getto nell’agosto del 2018 a Belluno, l’editore Einaudi impreziosisce la veste grafica, e propone il testo riportando sulla copertina il volto della poetessa quasi ad evidenziare l’originalità della sua voce poetica e del suo farsi esistenza. La parola crea raccordi  nel suo densificarsi  tra paesaggi, letteratura e amore, un sentimento che la poetessa svela e illumina con la parola.

Il testo si pone “come per raccogliere il testimone del grande poeta […] la poesia di Raboni, dopo 15 anni di speciale frequentazione, oltre la soglia della vita fisica,  attraversa l’intero libro ed è oggetto di considerazione della poetessa. Un saggio che vuole precisare questioni rilevanti della poesia e della poetica di Raboni”. Questa la motivazione della giuria che conferisce il premio “con convinzione al più recente e atipico libro di una delle voci più importanti della letteratura italiana contemporanea”.

La poetessa, (che personalmente, mi ha sempre ricordato l’incedere e l’allure della pittrice del secolo scorso Leonor Fini n.d.r.) si mostra nella sua esile e delicata figura dalla pelle bianchissima, quasi lucente, elegante nel suo abito total black. Sale sul palco, visibilmente felice ed incredula. Inizia a parlare. E con voce intimorita e segnata da commozione racconta la genesi dell’opera  nata da una profonda delusione: il mancato sostegno da parte del Corriere della Sera e del Comune di Milano ad un suo  progetto  : dedicare lo spazio di ciò che rimane del lazzaretto manzoniano a Giovanni Raboni. Luogo che peraltro si trova in prossimità della casa in cui è nato.

E continua la poetessa con la voce spezzata, commossa “così mi è venuta in mente questa cosa strana”. La fine dell’opera è segnata da un toccante appello al Presidente della Repubblica, una lettera: “mio caro Presidente, questo è quanto/ accolga la mia supplica e il mio pianto/ che è senza lacrime / che non si asciuga/ il 10 agosto Belluno Valduga.”

Una supplica accorata quella della poetessa, che speriamo venga accolta. L’opera di Giovanni Raboni, al pari di altri intellettuali e letterati, deve avere un proprio spazio perché la sua opera ha contribuito in modo considerevole alla grandezza della poesia e della critica letteraria in Italia e nel mondo.

La narrativa

Dopo un breve intermezzo musicale, dalla voce di Irene Nonnis, si prosegue con la presentazione dei finalisti per il genere della narrativa. Viene premiato Gianrico Carofiglio, autore per certi versi innovativo che è riuscito sviluppare in Italia un nuovo genere letterario il legal thriller. Scrittore molto conosciuto e stimato per la sua lucidità e coerenza intellettuale. Il romanzo premiato “La versione di Fenoglio” edito da Einaudi.

Ma qui ci si vuole soffermare su una domanda posta dal presentatore della serata, che vede una certa assonanza tra Dessì e l’autore sull’utilizzo della parola “scelta”. Una parola presente nel suo saggio “La manomissione delle parole” una riflessione sulla manomissione del linguaggio pubblico”. La finalità posta era quella di recuperare il significato di parole spesso abusate quale giustizia, ribellione, vergogna, bellezza e scelta. Come? iniziando ad evidenziare i contrari delle parole. Dopo un’attenta ricerca la parola “scelta” è apparsa l’unica a non avere contrari. “La scelta  – dice Carofiglio –  è una virtù e la prerogativa fondamentale più ancora della libertà. È un presupposto dell’esercizio della libertà. Per scegliere bisogna esser consapevoli e l’accento viene posto sulla scelta che implica azione” e coerenza.

Dopo una breve lezione di etica (starei ore e ore ad ascoltare Carofiglio per la semplicità espositiva di temi complessi n.d.r.)  viene premiato “Il Sillabario dell’amor crudele” edito da ChiareLettere di Francesco Permunian a cui verrà assegnato il super premio Dessì. Uno scrittore che mostra subito il suo tessuto esistenziale: sensibile, genuino, si definisce ex-centrico, fuori dal centro, lontano da contesti letterari o giornalistici, ama vivere tra le sue cose e i suoi libri, restio ai viaggi, agli spostamenti:  “Gli unici viaggi sono quelli tra le pareti della mia mente. Nello specchio del Garda si specchia il mondo intero” e continua dicendo che non amavano spostarsi tanti altri autori e cita carlo Emilio Gadda, Andrea Zanzotto e poi Vitaliano Brancati che pur avendo viaggiato “vedeva” tutto nel suo paese Zero Branco, in provincia di Treviso. Lì riusciva a vedere la Cina persino l’Olanda. Permunian si rivela una persona che nonostante tanta sofferenza ha raggiunto la sua “misura” della vita, adattando il suo universo creativo alla  scrittura.

La giuria nella motivazione evidenzia la capacità dello scrittore di abbracciare una narrativa ricca di tante sfumature che vanno dal grottesco al comico che “si proietta oltre il racconto di provincia volendo legare dialetto, antropologia, memorie del territorio con le contaminazioni di un’Europa laica e illuminista.”

Il suo stile narrativo, che è stato avvicinato a quello di Calvino e Sciascia, “svela uno scrittore coraggioso, appartato poco incline alle mode letterarie inconfondibile nella voce e nella fisionomia.”

Lo scrittore ama il genere comico, per lui è fondamentale. E per definirne l’importanza cita una frase di un suo autore preferito il filosofo Ralph Waldo Emerson: La comicità è la signora del dolore. Continua in un’irrefrenabile loquacità a parlare dei suoi autori di formazione tra i quali ci sono le “righe” del Cardinale Martini e alcuni autori visionari come Sergio Quinzio, il fotografo Mario Giacomelli che pur avendo la quinta elementare “aveva una capacità fotografica e visionaria in cui mi sono riconosciuto” specialmente nelle tematiche legate all’età dell’infanzia o della vecchiaia.

Si mostra felice di esser ritornato in Sardegna. Quando venne 13 anni fa, aveva trovato una terra simile al suo Polesine, povero e travolto dall’alluvione del Po degli anni ’50. Oggi desiderava rivedere Villacidro. Ma la commozione per il premio diviene tangibile, più intensa quando parla della sua famiglia, della sua storia, della necessità di scrivere quasi per superare un dolore abissale e il suo viso accoglie lacrime e con voce labile, debole parla della figlia Benedetta, alla quale dedica il premio. “Io ho potuto scrivere perché ho avuto accanto una figlia meravigliosa che mi ha sostenuto sempre nella mia vedovanza. Oggi lei ha 40 anni e mi fa da sorella, madre, amica. Mia moglie è morta giovanissima 39 anni fa. Questo premio è per le donne della mia vita. Loro mi hanno dato quel microclima mentale da monaco della scrittura, come lo era Flaubert”.

Il dolore di un vedovo con la figlia di un anno da aiutare nella crescita è incommensurabile. Non ci sono parole. Solo chi vive quell’istante ne percepisce l’abisso.

Dopo questo ricordo struggente che suscita commozione e applausi in tutti i presenti Permunian continua a parlare dei suoi maestri e cita i maestri del Nord Europa, Franz Kafka, Thomas Bernhard, Antonio Lobo Antunes tra i più importanti autori portoghesi con il quale lo scrittore ebbe uno scambio epistolare quando Antunes, medico specializzato in psichiatria, dirigeva l’ospedale Miguel Bombarda di Lisbona. Ora cita i poeti che più preferisce Philippe Jaccottet e Giovanni Raboni.  Loro gli hanno insegnato “cos’è la scrittura, la pulizia, la parola assoluta che ti dà l’esercizio della poesia”. Instancabile e con quell’entusiasmo di un bimbo che affronta la vita con curiosità irrefrenabile per poi raccontare con slancio vitale le esperienze positive vissute, continua a raccontarsi.

“Quando ero studentello  a Padova si credeva che la parte più alta della letteratura fosse la poesia. I miti di allora erano Andrea Zanzotto, Diego Valeri, Ezra Pound ormai chiuso nel suo mutismo. Io mi sono laureato con una tesi su un poeta Vittorio Sereni. Cominciavo a scrivere versi che portavo a Pieve di Soligo da Zanzotto.”

L’autore ricorda che aveva 35 anni era rimasto vedovo da pochissimo tempo. Scriveva poesie che esprimevano la disperazione e il dolore per ciò che aveva vissuto. Tanto che un giorno il poeta lo prese da parte e gli disse ” devi smettere di scrivere con le lacrime agli occhi perché le lacrime escono e cadono sulla pagina e sporcano tutto. Devi scrivere con il ricordo delle lacrime e mi diede la Recherche di Proust e le opere di Raboni”. L’inquietudine, la profondità, la nobiltà d’animo di  Francesco Permunian rimarranno  indelebili nei ricordi dei presenti.

E ora parliamo del terzo vincitore, Matteo Terzaghi, con il suo libro edito da Quidlibet “La terra e il suo satellite”.

Matteo Terzaghi parla della sua incapacità a divagare e dell’importanza della sintesi nella sua opera. Testo conciso, impregnato di significato “come se altre forme non fossero possibili”[…] aggiunge di non esser capace a scrivere un romanzo. “Forse  c’è una corrispondenza tra la forma mentis e la forma dei testi che scriviamo”.

Questa osservazione rimane sospesa, meriterebbe approfondimenti, ma per esigenze di spazio siamo costretti a ricordare le altre importanti premiazioni: Premio speciale della giuria a Claudio Magris uno dei più autentici intellettuali del nostro tempo, autore di libri indimenticabili tra i quali Microcosmi con il quale vinse il Premio Strega nel 1997. Con questo premio si vuole evidenziare “il valore della cultura, dell’intelligenza, dell’impegno, della passione letteraria e civile che ha guidato la sua vita […] un modello di intellettuale” da porsi come esempio. Mentre il Premio Speciale Fondazione di Sardegna viene consegnato: a  Tullio Pericoli, scrittore e disegnatore che sembra render giustizia all’indecifrabilità, la sua è “un’arte della precisione e della visione, […] una pittura che sembra calligrafia dell’anima e del territorio”; altro Premio Speciale Fondazione di Sardegna a Lina Bolzoni, critica letteraria, che ha insegnato alla Scuola Normale di Pisa per il suo lavoro divulgativo inerente alle numerose pubblicazioni e saggi editi sulla Letteratura”.

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Una serata piacevole a tratti divertente ma che ha toccato momenti di pura commozione, scandita e impreziosita dalle letture estrapolate dai testi e da spazi musicali. Intarsi armonici che hanno donato bellezza all’evento.

Si sono valorizzate le opere senza tralasciare i messaggi di portata etica e per certi versi antropologica dello scrittore sardo. Un Premio che continua ad allinearsi con una propria fisionomia tra i più importanti del panorama letterario italiano.

”Quale occasione migliore per offrire una rassegna di scrittori impegnati a riflettere sulla nostra condizione storica, sui nostri problemi, senza che si perdano di vista i problemi più generali del mondo intero… “ Parole di Giuseppe Dessì e Nicola Tanda poste nella prefazione dell’antologia Narratori di Sardegna, una significativa premonizione (anche se nel caso sopracitato gli autori si riferivano agli autori sardi presenti nell’antologia) sugli obiettivi, finalità  e portanza di contenuti del Premio Dessì.

I libri cosa sono in definitiva? sono conchiglie che poggiate all’orecchio per ascoltare il rumore del mare/mondo fanno confluire in noi diverse sonorità/ significati / esperienze   e luoghi di pensiero, stanze da cui non vorremmo andar via.

 

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Olbia Archivio Mario Cervo | Reading Sonetàula di Giuseppe Fiori

“Guardare le cose in modo chiaro, non superficiale ed esprimerle in modo essenziale da rimaner scolpite e restare nel tempo” sono qualità che l’editore Laterza pronunciava nei confronti dello stile inconfondibile di un autore sardo della sua scuderia: Giuseppe Fiori (Silanus 1923 – Roma 2003).

Giornalista, saggista, scrittore, un’anima sarda che si ricorda per quel suo piglio di temerarietà,  consapevole del suo essere carismatico.

Ci ha lasciato interessanti  interviste, inchieste e articoli alle volte pungenti, ma non si discostava da quel fare garbato che lo distingueva. Molto attento, curioso e insaziabile di realtà, in particolare quella sarda.

Scriveva spinto da una necessità irrefrenabile di condividere, trasmettere significati, idee o esplicitare fatti. Si, aveva assimilato la lezione gramsciana o meglio pasoliniana (Pier Paolo Pasolini era il suo poeta preferito) sull’importanza degli ultimi, della genuinità, della purezza e ancora sulla lealtà intellettuale e l’esclusione di qualsiasi preconcetto.

Un suo romanzo Sonetàula (2008) capolavoro della letteratura sarda, – che per alcuni elementi (vendetta, faida, giustizia privata) si potrebbe avvicinare alla grande tragedia greca del V sec. a.C., è da ben undici anni portato sulle scene dall’Associazione Culturale Tra Parola e Musica – Casa di Suoni e Racconti.  

Qualche giorno fa è stato riproposto – grazie all’Archivio Mario Cervo, all’amministrazione del Comune di Olbia e all’ISRE – Istituto Superiore Regionale Etnografico – in un evento performativo nel grazioso giardino dell’Archivio Mario Cervo.

Un’istituzione costituita dagli eredi del collezionista  Mario Cervo (1929 – 1997) studioso di sonorità sarde, che oggi prosegue  nel suo lavoro di ricerca, d’indagini e nuove progettualità. Una vera e propria wunderkammer  o stanza delle meraviglie, luogo depositario di  rare e “piccole gioie” di cultura musicale, di archeologia musicale sarda e antropologia culturale dell’isola.

4f7902b1-377f-4efc-bb44-ab90d25a9c4f.jpegCourtesy of Archivio Mario Cervo ©Photo Ottavio Cervo

La voce narrante dell’attrice Camilla Soru e la chitarra del musicista Andrea Congia hanno creato intrecci di parole e note, legate come raccordi di stelle. La luce di quell’arcaicità che implica come il tempo, nel suo stratificarsi in forma dinamica, accolga semi evolutivi che è bene diffondere per far attecchire consapevolezza di un presente diverso e sicuramente lontano dal reiterarsi di dolorosa memoria.

Un monologo fluido interpretato da Camilla Soru  con espressività, coinvolgimento emotivo e acuta introspezione psicologica dei personaggi, riscontrabile nelle sfumature e varie tonalità  di voce, ben armonizzate per tono, volume, ritmo e tempo. Accanto alle parole, i suoni e le musiche create in una sorta di improvvisazione a trasmettere in musica i sentimenti percepiti dal musicista Andrea Congia.

L’atmosfera mostrava il suo volto duale: a tratti cupa e minacciosa, un po’ come la voce incalzante della narratrice, o a tratti suadente, introspettiva di un lirismo “luminoso”, velato. L’attesa, un’ombra d’inquietudine, una presenza impastata da greve materia di certi noir.

L’impossibilità di capire certe forme comportamentali, retaggi, consuetudini radicate nella piccola comunità di Orgiadas, divengono sculture, modelli di un tempo arcaico che ora ha deposto le sue memorie nella scrittura.

Quel passato, un passaggio doloroso che si è reso necessario  per poter assimilare alcuni fondamentali valori:  il rispetto per il bene altrui e il valore della vita. Il tempo/memoria si incide per far affiorare dal corso degli eventi la sua finalità pedagogica.

7561C473-9E55-4B02-8AEC-E880DCAF7F65Courtesy of Archivio Mario Cervo ©Photo Ottavio Cervo

Il romanzo racconta l’apprendistato del giovane Zuanne Malune, chiamato dagli amici Sonètaula, per via di quel rumore sordo, duro, che emetteva il suo corpo esile, quando bonariamente veniva colpito. Erano gli stessi amici che gli avevano attribuito questo improegliu  “suono di tavola”. Il suo corpo risuonava come il legno.

Una trasposizione simbolica che lega la tavola a qualcosa che esprime le caratteristiche del legno duro. Quasi una premonizione sulla sua vita futura  che sarà “dura”, difficile, grama, di sofferenza per un ragazzo che non conoscerà mai la spensieratezza, la leggerezza propria dei ragazzi della sua età, ma che diverrà adulto prima del tempo. Era ancora un bambino che all’interno della comunità agro-pastorale strutturata da codici orali e acquisiva  inevitabilmente consuetudini e comportamenti di questa società.

Giuseppe Fiori attento conoscitore e studioso di alcune dinamiche sociali (lotta di classe) in questo romanzo affronta il delicato problema del banditismo in Sardegna e la domanda che sembra suggerirci è la seguente: quanto incidono i modelli sociali sui bambini di società chiuse, che non hanno avuto possibilità di interagire con altri esempi/mondi diversi?

Un romanzo realista dove l’indagine assume peculiarità diverse. Il realismo di Émile Zola, ad esempio, era più legato a forme del destino, che qui  sembrano  esser superate. Infatti, non è possibile parlare solo di “destinati” ma di persone inserite all’interno di un  modello  sociale che ha sovrastrutture ben codificate anche se orali, parallelo ad un’altro modello con sovrastrutture scritte e definite, che si respinge, perché sentito innaturale, imposto da altri, “stranieri”.

Lo scrittore attinge al linguaggio di stampo giornalistico e senza fronzoli con una prosa asciutta ed essenziale, ma lontano da certo rigore positivista, sente l’esigenza di indagare, far emergere  e definire emotività, delineare come certe dinamiche possano avere determinate conseguenze. Ad esempio i riferimenti ad una forma di tutela personale come era la latitanza o “incalzare” per chiarire, quasi triturare, sminuzzare quella forza cieca che crea un corto circuito nella mente di una persona e induce alla vendetta. Perché?

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Courtesy of Archivio Mario Cervo ©Photo Ottavio Cervo

Aveva approfondito questa pluralità di tematiche in alcune sue inchieste. Forse voleva recuperare o reinserire nella società chi ingiustamente era stato condannato seppur con prove di innocenza per immobilismo burocratico (mancanza di giudici o altro) e non veniva ufficialmente scagionato.

L’unico modo per non perdere anni di vita era la latitanza, poiché la giustizia era lenta. A volte ci si dava alla “macchia” perché non si voleva testimoniare in un processo.

Così si costituiva un tribunale privato si ristabilivano equilibri interni alla comunità ma non per la legge.

E’ stato un periodo complesso, in cui la Sardegna sembrava abbandonata a se stessa.  La povertà era endemica, come le ferite aperte dai dominatori/colonizzatori spagnoli, piemontesi che utilizzavano l’isola solo per ricavarne guadagni dalle proprie risorse, non per risolvere i gravi problemi socio-economici.

La società ha necessità di buoni esempi e di idee che  “devono partire dalla realtà per migliorare la realtà stessa” diceva Giuseppe Fiori, e non da astrazioni.

Il primo personaggio che incontriamo è Anania Medas nella sua barberia. Era stato in carcere per scontare una pena e lì gli avevano insegnato un mestiere, anche se in realtà non ne era capace.

Lo scrittore sembra voler ricorrere a questa figura per evidenziare  l’importanza dell’integrazione sociale degli ex detenuti. É importante dare una ragione di vita e quindi un’altra opportunità, per sentirsi utili e non accogliere “sfide” diverse.

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Courtesy of Archivio Mario Cervo ©Photo Ottavio Cervo

Una volta scontata la pena, intorno alla metà del secolo scorso era difficile inserirsi nella realtà lavorativa e nella società. Paradossalmente venivano considerati, accettati e aiutati dalla stessa comunità quando erano ancora latitanti.

L’omicidio di Anania Medas, segna la vita di Sonetàula, un bimbo di Orgiadas, il paese “immaginario” dove lo scrittore colloca la sua storia. Il padre accusato dell’omicidio lascerà la famiglia per andare in carcere. Al piccolo viene nascosta  la verità.

La sofferenza del piccolo Sonetàula viene descritta dalle sonorità e dal pathos di ogni singola parola recitata.  Un fraseggio   che incalza, cresce e crea vortici di venti impetuosi, solitudini che devastano il piccolo.  Il padre verrà sostituito con la figura del nonno che si prenderà cura di Sonetàula e gli insegnerà a vivere.

Si certo, è abituato all’allontanamento del padre per la transumanza, ma almeno sa che prima o poi sarebbe tornato. Lo avrebbe potuto abbracciare e trascorrere del tempo insieme a raccontarsi cose da uomini.

Ora invece sarebbe partito e affiora un nuovo sentimento:  la paura che spinge,  per rapirlo. L’incognito, il timore di quel domani senza  padre e la necessità di doversi occupare della madre. Lui, da solo? Che responsabilità! e poi quella raccomandazione che gli rimbomba nella testa fino a squarciarla come gli echi  delle armonizzazioni che illuminano la scena. Non deve fare comunella con il figlio di Battista Malune, perché lo capirà da grande.

Ecco un primo instradamento all’interno di un codice orale conoscenze diverse per grandi e per piccini ma sempre conoscenze ingombranti che schiacciano e privano l’aria di ossigeno. E per rinforzare quel patto tra padre e figlio non si deve chiedere niente a nessuno, nella maniera più assoluta.

Al silenzio degli spettatori, tutti estremamente attenti quasi per timore di perde anche solo una parola,  si lega questo momento di sconcerto, di incongruenza: dovrà occuparsi della madre perché ritenuto ormai grande ma gli si vieta di capire meglio cose che a lui sfuggono, perché ancora piccolo, cose non  chiare, che non riesce a legare o a infilare nella collana della sue verità, ancora da comporre.

Sonetàula accompagna il padre alla corriera. E lì interpretato magistralmente dall’attrice con un’introspezione da farci rivivere la scena, lì in presenza del padre il bimbo piange, lacrime che scavano fragilità, fantasmi di perché accorrono nella mente del piccolino: perché deve partire?

Questo momento d’intenso pathos ad un tratto viene sospeso, quasi interrotto  da una frase che appesantisce quell’assenza a cui Sonetàula è abituato, perché è legato alla parola fine.  E presagisce quel tempo che giungerà a breve “mi piangi come un morto”. 

Il piccolo riabbraccerà il padre solo un’altra volta, perché la giustizia si mostrerà inefficace, lenta, informe, e da quella patria che lo considera margine, “confine sociale” ,  da condannato al confino anche se innocente, verrà convocato per combattere e poi morire, per lei.

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Courtesy of Archivio Mario Cervo ©Photo Ottavio Cervo

E così Sonetàula a soli 13 anni si ritrova ad avere una seconda casa fatta di macchia mediterranea, bosco, e cieli stellati e poi i suoi dolcissimi amici, compagni fedeli: gli animali. Inizierà a fare il pastore.

Ma basta poco per ritrovarsi avviluppato nel sistema di un codice orale sovrapposto al sistema giudiziario. Inizia ad oscillare verso la latitanza in seguito ad un furto di una pecora dal suo gregge. Come un lampo la velocità della sua risposta: l’uccisione di altre pecore appartenenti al presunto ladruncolo.  Denunciato, invece di costituirsi, decide per l’altra giustizia non per questo meno sofferta,  la latitanza, la via di fuga,  una consuetudine utilizzata da molti altri.

In paese è rimasto il suo grande amore che saltuariamente vedeva di nascosto. Ormai vive solo per poter sposare la sua Maddalena. In lei ha riposto la speranza di una vita futura. Evocata in una scena dove la parola narrata riesce a far rivivere una sorpresa mista ad emozione: il primo giorno di diffusione della luce elettrica nel piccolo paese. Ora finalmente durante la notte il paese sembra illuminarsi come fosse giorno.  L’ombra che taglia i viottoli e incupisce gli animi  sembra esser scomparsa ma vedremo che non sarà così, la storia d’amore avrà un’altro epilogo.

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Courtesy of Archivio Mario Cervo ©Photo Ottavio Cervo

Ambientato nella prima metà del secolo scorso, Sonetàula è il nostro grande romanzo epico. L’apprendistato che si sviluppa nelle pagine del romanzo, inteso come formazione non è acquisito viaggiando e visitando altre realtà, ma all’interno della piccola comunità subordinato a retaggi che implicano trasformazioni sociali, lotte tra ceti, dove appare una società chiusa ma fiera delle proprie tradizioni e codici tramandati oralmente.

È il racconto sofferto e commuovente, se lo si legge con empatia, di un bambino a cui è stata sottratta la presenza e l’amore di un padre che ingiustamente sconta il confino per una colpa non commessa. Alla fine dopo esser vissuto in quella “forma” sociale anche lui l’acquisirà nella sua interezza fino a vendicare il padre.

Ma la vendetta ha origini antiche. Potremo dire che sia nata con la nascita dell’uomo e del suo interrelarsi in una comunità. Ricordiamo la catena di vendette (faida) minuziosamente raccontate da alcuni autori greci come Sofocle o Euripide. Uno dei personaggi più narrati Oreste che vendica il padre macchiandosi di un matricidio. Oppure altra vendetta molto studiata nell’Amleto shakespeariano dove si “razionalizza” il sentimento di vendetta con sfumature dei moti d’animo legati a fragilità umana, ripensamento, incertezza.

La vendetta della civiltà barbaricina ha una matrice differente e cesserà quando ci si accorgerà che le uccisioni non “restituiscono il morto”. Una consapevolezza che verrà acquisita con il miglioramento delle condizioni socio-economiche e con la diffusione della cultura, un nuovo sguardo verso altri mondi e  nuovi modi di guardare il mondo.

“La cultura può rompere un varco”, con il grande dono di preveggenza che spesso mostra Giuseppe Fiori coglie quell’urgenza che avrebbe portato al cambiamento.

E riprendendo l’immagine della locandina dell’Isola delle Storie 2019 – il Festival  di Letteratura di Gavoi, in Barbagia, appena concluso – riflettiamo su questa bella metafora  raffigurata dove individui gettano sassi nel mare come la cultura lancia idee/storie e attende che prendano forma, si chiarifichino. Così l’acqua del mare dopo aver lanciato il sasso dopo un periodo di riposo, ritornerà brillante e trasparente più di prima perché le idee che all’inizio possono sembrare oscure incomprensibili in un secondo momento illuminano, aprono varchi verso nuove mete, creano rinascite.

“Mentre oggi vado ad Orgosolo – diceva Peppino negli anni ’60 – trovo una società nuova uno strato di intellettuali  organici della  società pastorale, figli di pastori o che sono stati pastori essi stessi da ragazzi. Trovo questo strato di nuovi dirigenti della comunità che parlano un linguaggio avanzato. In un circolo giovanile di Orgosolo si stampa un periodico ciclostilato in cui ho trovato testi di Don Milani, poesie di Neruda, di Garcia Lorca, di Brecht. Un’inchiesta sulla condizione della donna ad Orgosolo. Cultura viva non ossificata, armonizzata. È segno che in Barbagia qualcosa cambia nella direzione giusta”.

La cultura ha aperto e apre varchi  che non dovremo chiudere con la nostra ottusità.  Ma considerato il potenziale di crescita insito nel dubbio, cercare   di proporre idee  per quella passione che induce a creare,  a cogliere originalità,   senza mai tralasciare la memoria storica dalla quale attingere, riferimento per nuove riflessioni sul nostro presente. Luce per la nostra contemporaneità.

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© Riproduzione Riservata

[articolo apparso su Olbia.it il 14 luglio 2019]

Una conversazione con il maestro Delitala | La musica, ragione di vita

La musica talvolta m’avvolge come un mare!
E dispiego le vele
sotto un cielo di nebbia o negli spazi immensi
verso la mia stella pallida.
Charles Baudelaire

 

Nella vita s’incontrano persone che sono destinate a lasciare un segno nella comunità dove interagiscono. Ciò si evince da alcune dinamiche improvvise che veloci come il nostro vento di maestrale soffiano brezze per contrastare venti di cambiamento.

Sono persone che si riconoscono per la passione e dedizione che nutrono nel portare avanti progetti, trasmettere competenze. E seppur con difficoltà incresciose si mostrano caparbi, determinati.

Una presentazione insolita per il “protagonista” (un cliché che non ama) della vita musicale e culturale della città di Olbia, che con i numerosi concerti di musica classica e del Coro Polifonico cittadino è stato capace di indurci ad apprezzare questo genere musicale educandoci all’ascolto. Inoltre, è riuscito a trasmetterci la bellezza e capire fraseggi che dipingono vere emozioni nell’anima: note che giocano con il tempo tra allegri, andanti, adagi e altre espressioni musicali.

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Lui è il maestro Antonio Delitalia, direttore dell’ambita Scuola Civica di musica, di Olbia, uomo garbato, riservato, poco incline all’apparire, umile ma tenace che ha messo a disposizione le sue profonde conoscenze in materia musicale acquisite da lunghi anni di studio.

Questo ha permesso al tessuto sociale di crescere musicalmente, saltare l’oltre del silenzio dove le cose assumono significati se guidati da giuste competenze e abilità didattiche.

Inizialmente non è stato semplice avere consenso per una conversazione/intervista: “Nei miei tanti anni di esperienza musicale non ho mai rilasciato interviste, non amo mettermi in vetrina” rispondeva alla mia domanda in tono ossequioso, un po’ timido ma con il volto dipinto di sorpresa mista ad incredulità.

Alla fine dopo una leggera titubanza ha accettato mostrandosi una persona coerente, che del lavoro ha fatto la sua ragione di vita che ha elevato la città di Olbia dandogli un impronta di cultura musicale lodevole.

La musica è una “compagna di vita” e chi ne conosce l’intensità e la bellezza non riesce più a separarsi. Come è nata questa sua vocazione?

La domanda che mi pone mi conduce necessariamente agli anni della mia infanzia. Non so quando sia nata questa chiamata, questa “vocazione”. Può darsi che si tratti di qualcosa che appartiene al DNA di ciascuno di noi. E allora sono le circostanze della vita che si incaricano di trarre fuori ciò di cui ciascuno di noi è dotato.

Quello che posso dire con certezza è legato ad alcuni ricordi, assai nitidi, della mia infanzia a Nuoro. Ne cito alcuni: il primo è quello di mio padre che, in alcune riunioni familiari e con amici, suonava il violino; le lezioni di pianoforte a casa della Sig.ra Rosaria Denti quando avevo sei anni; il terzo ricordo: la possibilità di ascoltare musica sia con i dischi a 78 giri (avevamo le sinfonie di Beethoven, alcune dirette da Arturo Toscanini con la BBC di Londra su La voce del Padrone: la VI comprendeva ben cinque dischi; varie incisioni di arie d’opera e canzoni napoletane), sia con il vinile (avevamo diverse opere di Puccini che io sapevo a memoria a forza di ascoltarle).

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Photo Courtesy of Archivio A.Delitala

Che ricordi ha dei suoi studi nel periodo del Conservatorio? Quali musicisti preferiva?

Non sono stato un allievo interno del Conservatorio di Sassari: tutti gli esami li ho sostenuti come privatista. Mi sono diplomato in Canto Artistico sotto la guida di Antonietta Chironi, cantante dotata naturalmente di una voce straordinaria, di ampi e caldi colori e di grande duttilità esecutiva (passava dal repertorio barocco a quello popolare sardo con la medesima grazia e con pari capacità espressive). La frequenza regolare in Conservatorio è stata circoscritta solamente alle lezioni di composizione che il M° Luciano Pelosi, docente di Composizione, settimanalmente e per quattro anni, mi impartiva in totale gratuità.

Per quanto riguarda la seconda domanda debbo fare una precisazione: la preferenza verso alcuni musicisti non è qualcosa che rimanga immutabile nel tempo: dipende – almeno, per me – dalla maturità personale, dagli studi che, a chi li compie, permettono di approfondire la conoscenza di un compositore, di assimilarne lo stile, di farlo diventare una sorta di “habitus” interiore.

Seguendo questa evoluzione, mi sono trovato a confermare la predilezione per i musicisti della mia infanzia; ad amare il repertorio che da anni frequento e cioè la polifonia, dalla musica antica a quella contemporanea; e, infine, a maturare una sorta di coscienza, di interiorizzazione, quasi di religiosa adesione verso alcune composizioni, sia vocali sia strumentali, che hanno il potere di parlare, evocare, ispirare. Ma tutto questo penso sia esperienza di chiunque ascolti musica, senza dover essere necessariamente un musicista né aver fatto specifici studi in materia.

Nel 1978 istituisce il Coro “Città di Olbia”. Vuole raccontarci com’è nata l’idea, le prime persone che vi hanno aderito? I primi concerti?

Il Coro “Città di Olbia” ha una genesi che risponde a varie esigenze (alcune delle quali sono state motivo di sofferenza che poi il tempo ha saputo lenire) sviluppatesi all’interno del Coro Civitas quando il suo fondatore, l’allora parroco di San Paolo don Giuseppe Delogu, decise di lasciare momentaneamente la parrocchia per iniziare un proprio personale percorso pastorale fuori dalla Sardegna.

La più sentita di queste esigenze: continuare l’attività del coro privilegiando però la formazione musicale dei suoi cantori. Non tutti condivisero tale proposta: coloro che vi aderirono costituirono il primo nucleo del Coro “Città di Olbia”.

Il primo concerto si tenne nella Chiesa di San Paolo, venerdì 29 giugno 1979 con un repertorio – visto con l’esperienza di quaranta anni dopo – abbastanza impegnativo: comprendeva, fra l’altro, un mottetto di Marenzio, un responsorio di Ingegneri, un madrigale di Palestrina e, nella seconda parte, quattro lieder di Brahms e, per chiudere, tre brani del repertorio popolare sardo. Oggi alcuni brani di quel concerto indurrebbero qualsiasi direttore ad una attenta riflessione e ad una adeguata disamina sia sotto il profilo musicale, sia sotto quello vocale.

 

La scelta del repertorio? I ricordi che lo gratificano e quelli che lo hanno deluso o rattristato perché difformi da ciò che erano i suoi desideri?

Il repertorio, inizialmente, era quello che si sentiva eseguire dai complessi più famosi e che un direttore inesperto proponeva acriticamente ai propri cantori (anche se i brani scelti non erano quelli più adatti al proprio coro). I periodi e gli autori più frequentati erano quelli del Quattro, Cinque, Seicento, con incursioni nell’Ottocento (soprattutto tedesco) e nel repertorio folcloristico sardo.

Ricordi che mi gratificano e ricordi che mi rattristano? Ma, vede, Fosco Corti – straordinaria figura di musicista e di didatta scomparso nel 1986, maestro  prezioso di una intera generazione di direttori e del quale ho avuto la fortuna di essere allievo – ci diceva: «Non esistono buoni cori o cattivi cori: esistono buoni direttori o cattivi direttori». È una massima che tengo tuttora ben presente quando lavoro con il mio coro: fatta la tara di ciò che di imperfetto, nel cantore, non è direttamente riconducibile a me, il resto è da attribuire al direttore, nel bene e, soprattutto, nel male. Certo, quando un concerto rimane su un piano di dignitosa o eccellente esecuzione gioisco principalmente per i miei cantori; quando questo non accade è sempre un motivo, per me, di attenta analisi e indispensabili rettifiche.

Tanti riconoscimenti e premi. Vuole raccontare quello che lo ha emozionato maggiormente e quello che lo ha rattristato?

La prima volta di un premio è stata nel 1985 ad Arezzo dove vincemmo il 3° premio nel III^ Concorso Nazionale di Polifonia “G. d’Arezzo”; nel 1988, il 1° premio al VI^ Concorso Internazionale di Stresa e nel  1990 il 1° premio al 2^ Concorso Internazionale di Verona. Poi vennero altri secondi premi ( Arezzo, Crema) e altri terzi (Arezzo). Il premio che più mi ha emozionato è stato il Premio al miglior Direttore attribuitomi a Verona nel 1990 all’interno del 2^ Concorso, anche perché (l’ho saputo successivamente) nella precedente edizione non era stato assegnato. Premi che mi abbiano rattristati non ne conosco (ai concorsi si va per vincere ma anche per accettare eventualmente un posto fuori dal podio e il verdetto della Giuria si accetta così com’è); però una volta ad Arezzo – credo nel 1992 – ci fu assegnato il 2° premio mentre mi aspettavo il 1°. Subito dopo la proclamazione dei vincitori si avvicinò il direttore che vinse il 1° premio, si complimentò con me e, molto cavallerescamente, riconobbe che si aspettava un 1° ex aequo.

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Photo Courtesy of Archivio A.Delitala

La Scuola Civica di cui lei era sostenitore finalmente apre le porte agli studenti. Ci vuole raccontare di questa avventura forse un po’ sofferta (perché ancora itinerante senza location definitiva).

Il sottoscritto – come, del resto, altri cittadini – è stato un sostenitore della Scuola Civica di musica, ma il merito della sua istituzione, nel 2000, va alla Amministrazione Nizzi e al suo assessore Tommaso Degosciu.  Anche la mia nomina a Direttore della Scuola risale a quella data e al sindaco Nizzi. Da allora tutte le Amministrazioni comunali e i vari Commissari straordinari che si sono succeduti hanno confermato e sostenuto la presenza della Scuola, garantendole il relativo sostegno finanziario. Gli utenti, da allora, sono stati e sono sia bambini e ragazzi (dai quattro anni in su), sia adulti (nella Scuola non c’è un limite di età, la precedenza però viene data ai bambini e ai ragazzi).

Attualmente come si struttura e quali corsi privilegia? quanti studenti e quali validi musicisti?

Rispondo volentieri a queste domande, cercando di essere sintetico ma allo stesso tempo chiaro: la Scuola Civica persegue due obiettivi: il primo è  accogliere e favorire predisposizioni, inclinazioni verso la musica che provengono dai bambini e dai ragazzi; il secondo: guidare con particolare accuratezza la preparazione e la formazione di coloro che intendono proseguire gli studi musicali nei Conservatori. I corsi presenti nella Scuola sono i seguenti: corsi strumentali : violino, violoncello, contrabbasso, basso elettrico, arpa, batteria, chitarra classica, clarinetto, sassofono, flauto, tromba, pianoforte; corsi amatoriali: batteria, chitarra moderna, canto moderno; teoria e solfeggio (obbligatorio per tutti gli allievi dei dodici corsi) ; propedeutica musicale per l’infanzia;  infine musicoterapia.

In tutto sono 18 corsi, alcuni comprendenti più classi (chitarra, pianoforte, teoria e solfeggio, propedeutica).

Ogni allievo dispone – per lo strumento prescelto – dai trenta ai sessanta minuti di lezione settimanale individuale, a seconda dell’età e su valutazione del docente; collateralmente deve frequentare, sempre settimanalmente, anche la lezione di Teoria e solfeggio, questa sì, in forma collettiva, per scelta didattica.

Poi ci sono i corsi amatoriali (batteria amatoriale, chitarra moderna, canto moderno) destinati agli allievi a partire dai 16 anni, nei quali l’ora di lezione comprende tre, quattro allievi.

Inoltre, per i bambini dai quattro ai sette anni compiuti è stato predisposto un corso di Propedeutica musicale. Comprende quattro gruppi fino a dieci allievi ciascuno; lo scopo è quello della formazione dell’orecchio musicale mediante l’ausilio dello strumentario ritmico-melodico (legnetti, triangoli, tamburi, tamburelli, metallofoni, xilofoni, etc.). Attraverso una serie di momenti analitico-percettivi il bambino è condotto al riconoscimento dei parametri del suono (altezza, durata, intensità e timbro) per raggiungere gradualmente obiettivi più raffinati. In questo percorso l’utilizzo della voce, e quindi il canto, costituisce un momento rilevante ed essenziale. Essa è lo strumento attraverso il quale il bambino conosce, sperimenta, interiorizza il mondo sonoro che lo circonda e nel quale è immerso. L’esperienza del canto diventa, oltre che fattore di aggregazione e di condivisione, anche momento di sperimentazione e di consapevolezza dei propri mezzi espressivi e del proprio corpo. Purtroppo, oggi un errato concetto di uso e valore di questo strumento conduce alcuni genitori a speculare sulla voce dei propri figli al fine di partecipare a selezioni e concorsi canori, alla ricerca di una effimera popolarità televisiva.

Infine c’è un corso di Musicoterapia destinato agli allievi con difficoltà nell’apprendimento, tenuto da una docente con grandi capacità e competenze professionali ed umane.

Ha qualche dato? Le iscrizioni annuali aumentano annualmente o sono stazionarie?

Gli allievi della Scuola attualmente sono 160. È un dato che sostanzialmente rimane immutato negli anni (può variare, in più o in meno, di qualche unità) perché è legato al monte ore di cui la Scuola dispone. È significativo, comunque, che ogni anno la lista d’attesa per qualunque corso strumentale sia sempre lunga: segno inconfutabile della credibilità di cui gode la proposta didattica della Scuola.

Difficoltà ma grandi soddisfazioni. Ha rimpianti? Ripeterebbe ciò che ha realizzato o come lo rifarebbe?

Rimpianti? Ma, vede, al momento credo di non averne e nel futuro spero di non nutrirne. Per quanto riguarda ciò che ho realizzato, mi preme sottolineare che la presenza della Scuola Civica ad Olbia è opera del Comune; il mio impegno è stato quello di averle dato e di darle credibilità e prestigio sia attraverso la scelta didattica di cui ho parlato precedentemente, sia attraverso la presenza di docenti di eccellente professionalità e di indispensabili capacità didattiche e umane: sono le uniche peculiarità che un corpo docente deve possedere.  La lista d’attesa che correda ogni corso testimonia appunto la bontà di tale connotazione. Gli stessi Uffici regionali hanno sempre riconosciuto alla Scuola di Olbia un particolare rilievo educativo e formativo, considerandola il “fiore all’occhiello” della Regione in questo settore.

Un periodo la sezione staccata dell’Università attualmente situata nell’aeroporto  “Costa Smeralda” sembrava che volesse usufruire degli spazi preposti alla Scuola Civica nel Palazzo Expo. Lei riuscì a far desistere dall’interesse. Ci vuole sintetizzare questa situazione incresciosa?

In questo episodio, credo di non avere particolari meriti: si trattava semplicemente di mettere in risalto la inadeguatezza dei locali dell’Expo alle attività didattiche dell’Università.

Oggi invece alla Scuola Civica verrà assegnata la sua sede definitiva al Musmat, ex mattatoio. Quali sono i tempi previsti per la consegna? I locali sono molto più grandi dell’Expo? Inserirete altri insegnamenti?

Ignoro i tempi del trasferimento dall’Expo all’ex mattatoio; non so come siano stati organizzati gli spazi interni dei due grandi locali destinati alla Scuola; inserire altri insegnamenti è questione, innanzi tutto, di disponibilità finanziarie da parte dell’Ente pubblico, e poi di scelte e indirizzi didattici che attengono sia al Direttore, sia all’Amministrazione, sulla base, naturalmente, di ciò che emerge dal tessuto sociale e culturale della comunità.

Ricordo, tantissimi anni fa, alcuni concerti della Scuola Civica nella chiesa di San Paolo con pochi spettatori. Oggi finalmente si mostra più attenzione e sensibilità verso la musica classica e il pubblico partecipa attivamente.

Vede qualunque proposta culturale, in ogni campo, se si vuole che si radichi nel tessuto sociale, richiede ritmi che rispondono a maturazioni consapevoli e a percorsi di crescita lunghi. Ci vuole tempo e pazienza!

L’opera lirica forse crea ancora resistenza anche se sembra trionfare nei Talent televisivi, secondo lei sarebbe necessario educare all’ascolto?

La domanda che mi fa è di grande attualità e complessità e andrebbe rivolta più opportunamente ai Sovrintendenti dei nostri teatri e in particolare a quelli delle 14 Fondazioni lirico-sinfoniche.

L’opera è sempre stata, da quando è nata, un prodotto del giorno, non del passato. Mi spiego meglio l’argomento poteva, sì, rifarsi a episodi e personaggi storici e mitologi dell’antichità greco-romana (la prima opera a soggetto storico è del 1642, L’incoronazione di Poppea, di Claudio Monteverdi), ma i caratteri, le azioni, gli equivoci, la comicità, le ambiguità, l’indole, le passioni, i tormenti dei personaggi, i contrasti amorosi riflettevano e riproducevano in filigrana l’attualità. Naturalmente il librettista del tempo, rifugiandosi nei miti e nella mitologia, non correva il rischio di allusioni a persone e fatti a lui contemporanei, mettendosi così al riparo da possibili e pericolose ritorsioni. Inoltre l’edificio della sua rappresentazione, il teatro, era anche il luogo nel quale, inizialmente, – oltre che assistere alla vicenda tifando per questo o quel cantante – si svolgevano le più svariate attività: mangiare, giocare a carte, negoziare affari, intrecciare legami sentimentali: luogo per eccellenza di relazioni e quindi molto frequentato.

Poi divenne tempio della musica, in particolare dell’opera lirica. Il rischio che oggi l’opera si rinchiuda, in relazione all’utenza, in perimetri elitari può essere evitato in diversi modi (e sta già accadendo, per fortuna): accogliendo produzioni originali nel libretto, nella regia, nei costumi, nella scenografia (qualche mese fa Nicola Segatta, giovane compositore trentino, mi inviò la registrazione di una sua opera eseguita a Trento: struttura compositiva agile e scorrevole, strumentazione ricca di colori, interpreti giovani… ); aprendo i teatri agli studenti e, con le opportune modalità, ai bambini (quasi tutti i teatri hanno ormai introdotto nella loro programmazione tale offerta); divulgando (anche attraverso i Talent, come Lei ha opportunamente richiamato) le attività e le prestazioni di giovani cantanti emergenti. Attualmente in Sardegna abbiamo il caso di due giovani, presenti ormai nei più prestigiosi teatri del mondo: il baritono Alberto Gazale, di Sassari (che quando era agli esordi della sua carriera ho avuto l’onore di dirigere due volte nella Petite Messe Solennelle di Rossini) e il tenore Francesco Demuro, di Porto Torres che, poco più di un mese fa, è stato premiato a Doha, la capitale del Quatar, in occasione dell’International Opera e Classic Awards.

Penso che la città di Olbia – parlo degli abitanti – le debba essere grata poiché ha cercato di definire una identità culturale musicale che precedentemente non esisteva. I concerti da lei organizzati son tracce di memoria importanti per la bellezza delle esecuzioni e le intense emozioni che trasmettono (personalmente mi commuovo).

Le cose si fanno prima di tutto per rispondere a impulsi ed esigenze personali; in secondo luogo, per suscitare e condividere tutti quei moti dell’animo che appartengono all’uomo e che non possono essere descritti. La gratitudine non è un accessorio che debba corredare tali azioni. Personalmente non l’ho mai attesa né, tanto meno, cercata.

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Photo Courtesy of Archivio A.Delitala

Parliamo del coro. Oggi il coro vanta un repertorio vastissimo articolato che abbraccia i periodi più proficui dal punto di vista musicale della storia della musica, ma con uno sguardo verso la nostra tradizione e verso la contemporaneità. Cosa pensa al riguardo?

La scelta oculata del repertorio è una operazione che un direttore deve saper fare in relazione alle voci di cui dispone. Non tutto si può fare bene e con i medesimi risultati. Il “suono” di un coro (come, del resto, quello di un’orchestra) è qualcosa che il direttore deve saper costruire. Normalmente il raggiungimento di questo obiettivo può durare mesi e non è detto che sia acquisito definitivamente perché l’organico di un coro amatoriale non è mai stabile. Nel frattempo il direttore propone vari brani appartenenti a autori e periodi diversi, sperimenta, corregge, cambia la composizione interna del complesso (un soprano con un colore della voce scuro lo utilizza, se ne ravvede la necessità, come contralto); infine, a seconda dell’organico interno delle quattro voci – soprani, contralti, tenori, bassi – decide il repertorio.

Con il mio coro ho affrontato brani di autori che vanno dal Duecento ai nostri giorni; inoltre, con i due organici (voci maschili e voci femminili), separatamente, abbiamo studiato anche il repertorio gregoriano, indispensabile per possedere e saper gestire con consapevolezza il fraseggio non solo del gregoriano ma anche della polifonia. Detto questo, non è così scontato che un coro possa eseguire tutto. La letteratura polifonica è vastissima, da sola può riempire intere biblioteche. Il direttore di un coro si trova allora (almeno, nei primi anni di attività) nell’esigenza di dover scegliere tra ciò che gli piace – perché, magari, sentito da qualche complesso titolato, ma che il coro non è ancora in grado di affrontare – e ciò che, in quel dato momento, il proprio gruppo può eseguire. Attualmente il coro ha maturato una vocalità che predilige il repertorio rinascimentale e barocco e quello contemporaneo, due periodi distanti fra loro ma percepiti, vocalmente, simili.

Infine, come ogni coro sardo, in repertorio abbiamo anche brani ispirati alla nostra tradizione popolare e “rivisitati” nella loro struttura armonica per essere destinati ad un coro misto.

Possiamo dire che l’arte non ha età… se c’è passione in quello che si fa. Anche se sembra che la delibera del Comune di Olbia imponga limiti anagrafici per svolgere il ruolo del direttore?

A questa domanda preferisco non rispondere.

Sarebbe interessante istituire un corso di Storia della musica o meglio una educazione all’ascolto, in modo da poter avvicinare le persone alla musica lirica. Ha mai pensato a questa idea?

Sì e la abbiamo anche realizzata per alcuni anni era attiva la cattedra di Guida all’ascolto tenuta dal prof. Lucio Tummeacciu, docente di organo e composizione organistica presso il Conservatorio di Sassari. In ogni incontro veniva proposto un compositore oppure una forma musicale nella sua evoluzione storica (una sonata, una cantata, una sinfonia) e, al pianoforte, venivano man mano esemplificati i vari aspetti (la struttura compositiva, l’armonia, la melodia); successivamente si passava all’ascolto dell’intera composizione o di una parte di essa. Poi il prof. Tummeacciu si ammalò e, in quel periodo, non trovai un maestro disponibile per questo compito.

La sua scuola ha avviato studenti alla carriera di musicisti concertisti e/o docenti di musica? 

Questa è una di quelle domande che mi procurano un senso di grande soddisfazione personale. Dopo un periodo iniziale destinato a dare alla Scuola una struttura organizzativa e una connotazione didattica, in questi ultimi anni la Scuola ha visto sette nostri ex allievi raggiungere il traguardo della laurea triennale e specialistica: Gabriele Masala, Ilaria Sanna, Nicoletta Careddu in chitarra; Giulia Frau in pianoforte; Elias Lapia in sassofono; Eleonora Sale in arpa; Marco Derosas in violoncello. L’ottava laurea, in pianoforte, a luglio con Eléna Ortu.

Attualmente frequentano il Conservatorio di Sassari: Andrea Molino con la tromba, Marco Cocco con il basso elettrico, Lorenzo Agus con il contrabbasso jazz. Altri nostri ex allievi, pur impegnati in altre attività, mantengono la frequentazione con la musica come attività collaterale al loro lavoro: Antonello Staffa suona la tromba in un complesso jazz e Melania Piras, con il flauto, nell’orchestra dell’Università di Pisa dove frequenta il corso di laurea in Fisica. Infine, Gabriele Masala e Nicoletta Careddu sono diventati docenti di chitarra proprio nella Scuola dove hanno mosso i primi passi come allievi.

I direttori delle varie Filarmoniche son generalmente direttori a vita perché acquisire competenze in campo musicale è di vasta complessità, penso all’assiduo e intenso studio sui fraseggi, sugli spartiti. Nella musica la competenza è sinonimo di esperienza ed esercizio?

La Sua domanda mi fa venire in mente un motto sentenzioso, quasi un aforisma, di Daniel Barenboim, grande pianista e direttore d’orchestra argentino: «Il talento è un pericolo, chi ha talento tende a impigrirsi». Intende sottolineare il fatto che il talento da solo non basta esige un impegno assiduo e un quotidiano esercizio se si vogliono raggiungere elevati livelli di competenza.

Esplorare ampiezze sonore di grandi interpreti, assimilare la letteratura musicale per poi riproporla con intensità differenti come il lavoro meticoloso svolto con il coro “Città di Olbia”, le proposte delle Stagioni musicali… occorre una preparazione di molti anni.

Se mi da un po’ di tempo Le delineo quali sono stati in questi ultimi trent’anni gli eventi proposti dal coro ”Città di Olbia” e dalla Scuola Civica.

Tutto il tempo che è necessario!

Sia con il mio coro, sia con le stagioni musicali organizzate dalla Scuola Civica si sono voluti dare alla Città opportunità e occasioni per conoscere e fare apprezzare compositori ed esecutori  a volte sentiti solo nominare. La rassegna Consonanze, promossa dal Coro “Città di Olbia” dal 1990 al 1997, aveva una duplice connotazione: la durata (due soli giorni, venerdì e sabato) e la partecipazione, in ambedue i giorni, di due gruppi: uno corale e uno solistico, individuati sempre fra i maggiori complessi europei. La splendida cornice della Basilica di San Simplicio amplificava il fascino che il repertorio proposto aveva in sé: dal Canto gregoriano alla musica contemporanea. La ampia partecipazione del pubblico costituiva la migliore approvazione di tale formula rivelatasi vincente: due giorni, due gruppi. Contemporaneamente, sempre il Coro “Città di Olbia” aveva iniziato a realizzare il “Concerto di Natale”, proponendo ogni anno, il 22 di dicembre (data ormai diventata fissa), un concerto per soli, coro e orchestra con musiche di Monteverdi, Pergolesi, Durante, Sweelinck, Charpentier, Vivaldi, Bach, Händel, Mozart, Rossini. Questo appuntamento natalizio ha sempre costituito un momento di forte aggregazione sociale (oltre che culturale): la Chiesa di San Paolo era sempre gremita di pubblico anche quando il tempo era inclemente. Dopo qualche anno abbiamo dato inizio ad una nuova esperienza proponendo il Concerto di Pasqua la cui programmazione è ancora attiva.

Questo con il Suo coro. E con la Scuola Civica?

Fin dal primo anno ho chiesto ai colleghi che si rendessero disponibili per realizzare una stagione musicale estiva. Ero profondamente convinto di due cose: primo, che per gli allievi della Scuola e per le loro famiglie fosse importante vedere i propri insegnanti esibirsi in contesti al di fuori della lezione svolta all’interno di un’aula; secondo, mi sembrava giusto dare loro (tutti valenti concertisti, alcuni dei quali con un curriculum di rilievo internazionale) l’opportunità di fare un concerto in una città che potesse verificarne ed apprezzarne il valore: non sempre il talento ha la possibilità di avere la giusta visibilità. Tenga presente che spesso insieme con loro suonavano, in duo, in trio o in quartetto, anche altri musicisti. Inoltre, dall’anno scolastico 2012-2013 proposi una supplettiva stagione concertistica, questa volta fra l’inverno e la primavera, denominata “Omaggio alla Scuola” andata avanti fino a questa primavera (l’omaggio consisteva nel fatto che i concertisti suonavano gratuitamente, senza percepire alcun compenso). Nel frattempo si realizzavano collaborazioni con varie istituzioni, sia pubbliche che private che portarono a esiti assai importanti. La più significativa è stata quella con l’Ente Lirico di Cagliari che produsse due risultati: un seguitissmo concerto, con l’orchestra dell’Ente, nella Chiesa di S. Paolo l’11 aprile del 2003 e sconti considerevoli di ingresso a teatro per gli spettatori sponsorizzati dalla Scuola Civica di Olbia.

Kirill Petrenko direttore dei mitici Berliner Philarmoniker, d’origine siberiana, ma naturalizzato austriaco, in una intervista dichiara che «la musica è la sola dimensione nella quale si sente come fosse a casa». È così anche per lei?

Ma, vede: quando una persona si trova dinnanzi ad un paesaggio di particolare bellezza… ascolta musica… vede un quadro… entra automaticamente in un’altra dimensione, uno spazio indefinito che però diventa miracolosamente il luogo nel quale uno si riconosce meglio. Ritengo che ciò accada a chiunque faccia queste esperienze. Da giovane, quando mi capitava di ascoltare alcune composizioni di speciale interesse, o di leggere qualche poesia particolarmente significativa ed eloquente ero portato di istinto a percorrere sentieri inesplorati e a trasformarli in itinerari reali. Ricordo, al Liceo, una poesia di Baudelaire che mi aveva particolarmente ammaliato: La Musique. I suoi versi mi conducevano, dentro un vascello, nella vastità del mare alla mercé dei capricci del vento… Quel vascello, allora, diventava la mia casa (ma, forse, era a causa dell’età).

La musica è etica. E se riflettiamo predispone a una società multietnica, in cui l’individuo è in quanto può confrontarsi con l’altro. Naturalmente parlo di culture musicali diverse  ma importanti. Cosa pensa al riguardo?

Da sempre la musica è stata un collante fra culture e popoli diversi. Non esiste nessun periodo della storia della musica in cui un Paese, un musicista o comunque una corrente musicale non abbia assimilato o metabolizzato, maturandole, influenze provenienti da altri Paesi, vicini o lontani, o da musicisti particolarmente autorevoli e significativi. Gli esempi sono tantissimi: ad elencarli e commentarli si riempirebbe una intera biblioteca. A partire dal canto gregoriano e passando attraverso il Medio Evo, il Rinascimento, il Barocco, per arrivare all’Ottocento e al Novecento, non c’è stato periodo storico o musicista che non sia stato luogo di sintesi, con in sé i germi di una nuova esperienza. Mi consenta un ricordo della mia infanzia: da bambino, una delle composizioni che più frequentemente ascoltavo era la sinfonia n. 9 “Dal nuovo mondo” del musicista céco Antonin Dvořák. Pur essendo stata composta nel 1893 durante il suo soggiorno americano e pur riportando come titolo Dal nuovo mondo, dei neri o degli indiani d’America non aveva nulla, ma la didascalia bastava a farla passare per musica generata dal forte interesse che Dvořák nutriva per l’America e per il suo folclore. Questo – ma ancora numerosi altri esempi più pertinenti – dimostra che il linguaggio della musica contiene in sé, contemporaneamente, l’ineffabile e il dicibile; in una parola, l’arte del dialogo. A tale proposito mi capita spesso, parlando con gli allievi più grandi della Scuola, di citare spesso una frase dello scrittore Aldous Huxley: «Dopo il silenzio, ciò che si avvicina di più nell’esprimere ciò che non si può esprimere è la Musica». Da questo apparente paradosso nasce forse l’esigenza di esplorare “nuovi mondi” e capire nuove sensibilità ed esperienze.

La sua Scuola interagisce con questa bellissima potenzialità?

Sì, certo! Anche se in misura limitata e con intenti differenti, diversi nostri allievi sono stati all’estero a perfezionare i propri studi, proprio con il proposito di sperimentare e acquisire metodi, sistemi, conoscenze, abilità supplementari: Elias Lapia in Canada e in Francia; Ilaria Sanna, dopo il diploma in Italia, ha frequentato il Conservatorio reale di Amsterdam; Nicoletta Careddu è stata un anno a Sofia; Eleonora Sale a Madrid.

«Suonate sempre con l’anima; sono le leggi della morale quelle che reggono l’arte; senza entusiasmo non si compie nulla di grande». Robert Schumann lo straordinario folle. Passione, competenza, studio. Come li ordinerebbe? Quali priorità e perché?

La Sua citazione e la Sua domanda mi riportano ancora una volta ai tempi del Liceo e alla figura del mio professore di latino e greco, il compianto Prof. Nino Ferrara. Un giorno, affrontando l’etimologia di alcuni termini, ci spiegò l’origine della parola entusiasmo: deriva dal greco entheos, dio interno e per i greci questo dio interno era la fonte della creatività. Per loro, la parola entusiasmo riguardava un interesse, una sollecitudine così profonda verso ciò che si creava da implicare la “divina follia”.

Mi chiede poi le ragioni nel dare ordine e priorità a passione, competenza, studio. Premetto che non mi riconosco né autorità scientifica né autorità professionale che mi autorizzi a esprimere gerarchie su questo argomento. Posso solo tentare risposte personali.

Credo che qualunque persona abbia a che fare con il mondo dell’arte sia mossa, almeno inizialmente, da un duplice impulso: primo da una innata predisposizione (che si manifesta fin dalla più tenera età); secondo dalla curiosità se tale interesse si manifesta da adulti. L’entusiasmo cui lei fa riferimento citando Schumann, quando si trasforma in attività creativa o comunque operativa ha come caratteristica uno spiccato interesse per ciò che si vuole realizzare e che si trasforma in passione (le due cose credo siano inscindibili); in secondo luogo richiede impegno e applicazione quotidiani; infine, come naturale conseguenza, produce un bagaglio di conoscenze e abilità che formano ciò che viene definita una competenza. Questo itinerario formativo penso si attagli a qualunque attività umana, sia che riguardi la sfera squisitamente speculativa, sia quella manuale, artigianale, artistica.

Ora, un ultima domanda per concludere la nostra interessante conversazione per la quale la ringrazio di cuore a nome di Olbia.it. La formazione di un direttore di scuola civica di musica non si forma con un regolare percorso di studio. Deve integrare passione, dinamismo, capacità di ascolto e di sintesi di letteratura musicale per proporre nuovi percorsi?

Le domande che mi rivolge hanno dei risvolti molto personali che mi portano ad essere reticente. Ciò che sento di dire senza dover parlare troppo di me è che provo a svolgere con responsabilità i compiti che mi sono stati affidati, cercando di intuire le esigenze che provengono dagli allievi e dalle loro famiglie, di soddisfarle e, soprattutto, cercando di sbagliare il meno possibile.

 

lyciameleligios

©️Riproduzione Riservata

[Articolo pubblicato su Olbia.it il 29 Giugno 2019]

Edouard MANET al Museo Civico di OLBIA

Il mare non fu un richiamo ma un semplice ripiego. Quando la voce paterna gli impose scelte che lui non amava. Lo studio gli si incollava addosso, quasi  un vincolo alla sua inclinazione verso la libertà. Un concetto stratificato nella sua anima.  Perché avrebbe dovuto accettare imposizioni? Voleva seguire le sue  attitudini.

Iniziavano a palesarsi quasi “spiragli di luce” (complice sua madre che sempre l’appoggiò) che rimandavano alla sua  vocazione, diversa da quella voluta dal padre, affermato giurista. 

Il nostro protagonista non amava studiare. Dai suoi insegnanti era considerato “mediocre”. Ma era un ragazzo spigliato, con la battuta pronta e lo studio, che impone un certo rigore, applicazione costante, disciplina, non era fatto per lui. 

Il padre proveniva da una famiglia di funzionari pubblici e giuristi, mentre la madre era figlia di un diplomatico. Sembrava che il suo destino fosse segnato. Anche lui sarebbe diventato un famoso avvocato, proprio come il padre.

Ma diceva Eraclito, filosofo greco del V secolo a.C. “nel carattere è il destino”. Infatti, fin da piccolo, mostrava i segni del grande artista che attuò una grande “rivoluzione” nella Storia dell’Arte, al pari di Giotto o Caravaggio: Edouard Manet (1832-1883).

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Ritratto di se stesso alla palette, 1878-79 – Courtesy by S.A.Wynn

Edouard non amava imposizioni, era caparbio e determinato, intelligente e oserei  stravagante. Amava stupire e percorrere tracciati nuovi, originali e sfrontati. Chi si accorse del talento di Edouard fu lo zio materno che gli pagò un corso di disegno quando era ancora al Collegio. Naturalmente il padre era contrario e  per questo gesto litigò con il cognato.

Per far capire il temperamento forte e originale di Edouard, si racconta di come avesse preferito stravolgere un modello assegnatogli, durante un’esercitazione di disegno. 

Intanto la sua vocazione artistica iniziava ad intravvedersi sempre più, per una certa dipendenza da matita e una smania irrefrenabile di ritrarre tutto ciò che appariva sotto gli occhi. 

Così pur di non assecondare la volontà e i consigli del padre, preferì partire come allievo pilota su un’imbarcazione alla volta di un luogo che condensava memorie esotiche e a quel tempo ritrovo di persone in cerca di fortuna: Rio de Janeiro.

Oggi, quasi in un viaggio ideale, la sua presenza è giunta in Gallura su “un’imbarcazione”, una moderna struttura architettonica con ponti e oblò, circondata  dal mare nella splendida rìas di Olbia. Non più come allievo pilota, ma come artista che espone le stampe dalle sue incisioni a suo tempo molto apprezzate (almeno quelle!) dalle quali traspaiono  gli elementi innovativi del suo inconfondibile linguaggio espressivo.

Esposizione

Il riferimento è intuibile per chi conosce la suggestiva architettura sede del Museo Archeologico  di Olbia, che allude, per la forma, ad una nave stilizzata che sembra esser attraccata alla terra ferma con una piccola rampa di accesso. Dal 1 giugno ospita la mostra ‘Verba Volant Scripta Manet’ visitabile fino al 31 Luglio, in un’ottica di pluralità e differenziazione delle offerte culturali proposte dall’amministrazione cittadina.

Sono esposte trenta stampe da incisioni realizzate da Manet tra il 1860 e il 1882 utilizzando la tecnica dell’acquaforte, acquatinta e puntasecca provenienti dalla Collezione Ceribelli di Bergamo. Opere postume stampate nel 1905 da un collezionista tedesco Alfred Ströling dalle tavole originali di Manet.

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Lola di Valenza,1863, acquaforte e acquatinta 

Le stampe rappresentano uno spaccato della società del suo tempo. Edouard mostra  la sua abilità di osservatore acuto della sua “contemporaneità”  e la sua avversità verso le direttive dell’Accademia Francese, poiché non interessato a rappresentare scene mitologiche o di impostazione classica. La realtà colpisce diretta come affermava Marcel Proust  e quindi senza “intermediari”.

E per citare alcune stampe in mostra ritroviamo il ritratto di ‘Berthe Morisot’ 1872, pittrice impressionista, modella preferita e cognata di Manet; Philibert Rouvière  che interpreta l’Amleto ne ‘L’Attore tragico’ 1865-66; Joseph Gall, un suo amico pittore, che fuma la pipa ritratto ne Il fumatore 1866, La Lola di Valenza del 1863; a questi ritratti si aggiungono scene di vita come il celebre I Gitani, 1862, La coda davanti alla macelleria, 1870-71;   e ritratti per testi letterari come Edgar Allan Poe, 1860 utilizzato da Baudelaire per una sua raccolta di recensioni sull’opera di Poe, o Theodore de Banville, 1874, per un libro di poesie del poeta.

In queste opere colpisce la sottigliezza e precisione delle incisioni che infonde plasticità strutturata dall’abile resa chiaroscurale, ma anche il suo antiaccademismo: l’assenza di piani prospettici lineari (alcune figure sembrano adagiate  sullo sfondo); presenza di prospettive diagonali di rottura con la tradizione classica, come “Il torero morto”, 1867-68; centralità e perpendicolarità della luce, l’ombra a tratti pastosa che si piega a quella luce che diverrà fondamentale nella pittura di alcuni suoi contemporanei. Darà struttura e permetterà di accarezzare l’anima della natura, vibrante presenza dell’essenza di vita, che fluisce e si palesa nella sua delicata bellezza.  

Alcuni lavori sono molto definiti e di fattura raffinata, altri tratteggiati velocemente come fossero appunti, memorie.  Quasi segni tracciati su uno spazio, che lo dominano, per non smarrire l’idea colta dal reale. 

Vi sono acqueforti che ritraggono i suoi più celebri dipinti, come ad esempio l’Olympia del 1867, che segneranno il mondo dell’Arte  e  successivamente con  Paul Cézanne  daranno nuovi significati all’Arte Moderna. 

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Jeanne o La primavera, 1882, acquaforte

Iniziò il suo insofferente apprendistato nello studio di Thomase Couture d’impostazione più classica delineando ‘l’incipit’ con l’assimilazione e reinterpretazione di  tecnicismi per nuove letture e indagini da alcuni artisti suoi contemporanei,   ed inoltre, da grandi pittori del rinascimento italiano  e barocco spagnolo che studiò  e approfondì durante i suoi numerosi viaggi in Italia, Germania, Spagna, Olanda. Proprio per questa sua abilità Émile Zola lo definì  il ‘rigeneratore’dell’arte.

Immediati i riferimenti ai suoi modelli preferiti Goya, Velasquez, El Greco e Tiziano.  Il primo per la modulazione della luce che diverrà via via sempre più perpendicolare al dipinto come venisse dall’esterno, da chi guarda. Forse per lasciare libertà interpretativa nel fruitore? Una liaison con l’arte contemporanea? Dal secondo acquisisce elementi per la struttura figurativa, ovvero la disposizione delle forme e figure nello spazio della tela. Inoltre, a differenza di Tiziano in cui é più presente la prospettiva lineare utilizzata nel ‘500, nelle incisioni ma forse più nei suoi dipinti si riscontra una maggiore bidimensionalità propria delle stampe giapponesi, allora molto in voga.

Quale realtà?

Parigi nella seconda metà dell’800 era una città segnata dal progresso nelle arti, nella scienza e da un’intensa urbanizzazione. Con l’avvento del modernismo vennero realizzati i grandi boulevards: lunghi viali alberati, luoghi di socializzazione dove era possibile passeggiare; il giardino delle Touileries, stazioni ferroviarie, nuovi centri residenziali. Aprivano numerosi caffè, s’inauguravano teatri, luoghi di divertimento ma senza tralasciare riflessioni e  confronti culturali.

Stava vivendo uno dei periodi più fortunati per l’Arte e creatività. Ci si voleva affrancare da certa pittura subordinata alle rigide regole dell’Accademia Francese di Belle Arti (istituzione fondata nel 1648 sotto il Cardinale Mazzarino che imponeva linee guida rigorosissime per pittura e scultura, promotrice delle celebri esposizioni denominate Salon).

Si aspirava a più libertà compositiva, quindi non relegata a immagini, modelli, miti. Si voleva reinterpretare la realtà come si mostrava assecondando il proprio sentire con l’osservazione diretta.

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L’attore tragico, 1865-66, acquaforte

Genio e follia

Manet nell’anima era un po’ maudit, un po’ anticonvenzionale nei suoi esiti pittorici   e sembrava che la libertà alimentasse la sua innata creatività, il suo esser geniale.

Da un ritratto che gli fece Henry Fantin-Latour s’intravvedeva una personalità forte, rigorosa,  un carattere cittadino, che il suo caro amico e scrittore Émile Zola lo definì  “il parigino per eccellenza arguto” poiché riusciva a cogliere ogni sfumatura della realtà che lo circondava. Un attento osservatore che amava godere “di tutte le raffinatezze della vita”. 

L’artista scrutava con attenzione la sua contemporaneità per esprimerla con un linguaggio  a lui più congeniale, in parte  influenzato da un certo filone “romantico” di stampo realista  e dalla frequentazione  del poeta dello spleen Charles Baudelaire, suo grande amico, che aveva espresso la sintesi della sua poetica in queste parole:  “la vita della nostra città è ricca di argomenti poetici e meravigliosi”; perché guardare al passato o a modelli? 

Ecco descritta la sua indagine pittorica che gli permetteva di esplorare e cogliere materia dalla realtà, dalle consuetudini sociali, e focalizzandosi su espressioni di figure umane, reali, si svincolava da quella patina di simboli, allegorie con rappresentazioni  legate alla storia o mitologia.

La libertà nello scegliere i soggetti si rifletteva nel linguaggio artistico dove il segno appariva libero da vincoli razionali ma più  ispirato, più lirico, più immediato.

Nella resa espressiva delle stampe in mostra, osserviamo una certa gestualità più fluida nel definire ogni singolo tratto delle incisioni. Ci si allontana da figure d’importazione classica e si preferisce rappresentare i nuovi personaggi/eroi della contemporaneità: chitarristi, bevitori, filosofi, artisti, scrittori, prostitute 

Baudelaire

Una “bellezza transitoria della vita presente” come diceva Baudelaire e per comprenderla era necessario non solo contemplarla ma “viverla e toccarne l’anima nel suo dinamismo interno”.

Questo implicava un superamento dei canoni romantici e un avvicinamento a quel realismo più attento all’evoluzione socio-culturale di cui Manet si fece grande testimone e interprete, insieme alla corrente impressionista che veniva a delinearsi con più insistenza.

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La coda davanti alla macelleria, 1870-71, acquaforte.

Tra le stampe che preannunciano  elementi  innovativi  del suo linguaggio espressivo e che alludono alla sua grandezza di anticipatore della grande arte del ‘900, “La coda davanti alla macelleria” rimanda ad echi di elementi cubisti (Braque) e astratti (Picabia, Malevich). 

Elementi innovativi

L’opera, un’acquaforte del 1870-71, raffigura un tema sociale attinto dalla realtà del periodo: la disperazione della gente per fame, stipata in file estenuanti davanti ad uno spaccio di carni, durante la guerra franco-prussiana.

Manet rappresenta secondo una prospettiva diagonale e non lineare la folla in fila davanti al negozio. Le sagome delle persone sono definite con tratto libero ora verticale ora orizzontale che dà valore plastico di differenziazione e di armonizzazione.

Ma l’elemento originale é la direzione della luce che sembra esser impazzita. Viene da ogni lato, anche dalla nostra parte , da noi che guardiamo (il lato centrale in cui si fa fatica ad intravvedere l’ombrello o la figura). Gli ombrelli disposti secondo la diagonale alternano luce e ombra, quasi un leggero accenno di movimento.

Se ci si focalizza distaccandoci potremo rivedere le scomposizioni di Braque e di Picasso con le sfumature che infondono ora plasticità ora movimento.

Le linee verticali della porta  allineate ai margini alleggeriscono la scena che sembra protendersi verso l’alto. La porta é socchiusa. L’oscurità allude a potenzialità future da dipingere o riscrivere? Manet ci lascia uno spiraglio, un’oscurità che riflette la sua emotività o lascia al fruitore quella libertà interpretativa fondamento di tutta l’arte moderna e contemporanea?

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La bambina col neonato, 1861-62, acquaforte e puntasecca

É stato un interprete eccelso, poco compreso al suo tempo e perciò ne soffrì. Ma le incisioni, allora un genere diffuso piacquero anche ai critici più severi. Questo successo potrebbe essere motivo per il quale molti dei suoi dipinti più importanti vennero realizzati con la tecnica dell’incisione. Infatti avrebbe potuto raffigurare nuovi soggetti invece rappresentò molte sue opere o particolari.

Dopo la sua morte venne riconosciuta la sua originalità. Persino Paul Cézanne che non amava l’arte di Manet, riconobbe che con lui si avviava un “nuovo stato di pittura” e Gauguin sostenne che la pittura  moderna iniziava con Manet.

Nel ripensare alla sua vita, alla sua arte, al suo impegno e alla sua costanza si evince che non ha mai mostrato vacillamenti pur ostacolato fin da ragazzino. A questo proposito possiamo citare Joyce che sosteneva “un uomo geniale non commette sbagli ma preludi di nuove scoperte”. Le sue anticipazioni furono la sua forza, inizialmente incompresa, che ha trascinato tutti noi nella sua genialità artistica, oserei rivoluzionaria, ad apprezzare la sua arte e a ri/considerare la sua vita: uno scorcio di tempo confluito nell’eternità che ha dato struttura all’Arte della nostra contemporaneità.

 

©lyciameleligios

 

(Articolo apparso su Olbia.it il 15 Giugno 2019)

L’uomo e la tutela della biodiversità | Intervist/a Paolo GUIDETTI

Negli ultimi tempi sembra diffondersi con più insistenza una certa coscienza ecologica che implica un comportamento più consapevole e responsabile nei confronti dell’ambiente che ci circonda, con attente valutazioni antropogeniche.

Dopo i vari episodi di moria di organismi marini a causa dell’ingestione di grandi quantità di plastica, come il capodoglio spiaggiato a Cala Romantica nei pressi di Porto Cervo, i comuni di alcune città costiere – del Nord Sardegna, – hanno diffuso ordinanze restrittive per ciò che concerne l’utilizzo della plastica o il divieto di fumare sigarette in spiaggia, con conseguenti multe per chi non le rispetti.

Il discorso esula dalla vocazione turistica della Sardegna e da conseguenti priorità di tutela, ha un respiro molto più ampio.

Ognuno di noi, nel nostro piccolo, può fare qualcosa, deve fare qualcosa concretamente, per ristabilire quell’armonia che sembra essersi dissolta tra uomo e ambiente in cui vive. Esempio se consideriamo il tempo di questi ultimi mesi che sembra esser impazzito, con stagioni meteorologiche non corrispondenti a quelle astronomiche e i conseguenti disastri ambientali sempre più frequenti.

L’Organizzazione Meteorologica  Mondiale – WMO – ha registrato dal 2015 al 2018 gli anni più caldi mai registrati prima a causa di concentrazioni record di gas serra nell’atmosfera che sono all’origine dei repentini cambiamenti climatici.

Oggi risulta esser prioritaria   “la conservazione e il ripristino di habitat naturali (ad es arie umide e dune costiere) che hanno un ruolo determinante nelle strategie e adattamento ai cambiamenti climatici e contrastano gli effetti negativi degli eventi estremi”. (Fonte ISPRA)

La terra può  appare matrigna per l’uomo che non la rispetti ma che non si deve  dimenticare  che è la nostra grande madre: oltre ad accoglierci, permette di vivere donandoci preziose risorse.

La redazione é sempre  stata in prima linea cercando di evidenziare e denunciare mancanze e documentando missioni positive: la pulizia delle spiagge che ogni anno coinvolge i ragazzi delle scuole cittadine; l’operato di volontari che dedicano il proprio tempo alla pulizia e tutela dell’ambiente.

Azioni che gratificano la persona che compie il gesto nel suo rendersi utile alla comunità, finalizzati ad un bene collettivo non individuale e perciò di valore incommensurabile.

Sensibili  alle tematiche legate all’ambiente abbiamo intervistato una persona che il mare lo vive come se fosse parte della sua anima, inscindibile dal suo essere, – come si evince dal  suo entusiasmo e passione quando parla della sua professione e inerenti finalità, – il Prof. Paolo Guidetti Docente di Ecologia presso il Laboratorio ECOSEAS dell’Università di Nizza “Sophia Antipolis” e ricercatore del CoNISMa (Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Scienze del Mare), attivo collaboratore delle Aree Marine Protette (AMP) in particolare dell’Area Marina Protetta TAVOLARA PUNTA CODA CAVALLO del Nord Sardegna. 

Un’intervista illuminante  in cui parleremo di ecologia marina,  di pesca, di problemi ambientali e sostenibilità di risorse, da cui traspare la volontà e l’urgenza di salvaguardare la biodiversità marina con le implicazioni socio-economico-culturali collegate quali la pesca, la figura del pescatore, i borghi marinari.

Come nasce la tua vocazione per l’ecologia marina.

Premetto che sono genovese di nascita e fin da piccolo andavo al mare con la mia famiglia in spiagge frequentate anche dai pescatori. Da allora ho avuto l’imprinting. Ricordo che già intorno ai cinque o sei anni avevo deciso di fare il biologo marino e alla fine mi sono specializzato in ecologia marina della conservazione.

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Visual Census ph. ©Egidio Trainito

Qual è stato il tuo percorso di studi? 

Dopo aver frequentato il liceo a Genova mi sono laureato in Biologia con una tesi sull’accrescimento dei molluschi, anche se ero già orientato verso lo studio della fauna ittica. Dopo la laurea ho avuto la fortuna di collaborare prima con un ente di ricerca di Roma, oggi ISPRA – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale – poi ho vinto una borsa di studio alla Stazione Zoologica di Napoli, uno degli istituti più prestigiosi e più antichi di biologia marina.

Successivamente ho fatto il Dottorato di Ricerca sulle Aree Marine Protette presso l’Università del Salento durante il quale sono stato presso la Scripps Institution of Oceanography a San Diego – La Jolla, California –  uno dei centri più importanti al mondo per la biologia marina.

Rientrato in Italia ho avuto diversi contratti di ricerca e nel 2007 un posto da ricercatore in Zoologia all’Università del Salento. Sono rimasto a Lecce fino al 2012 quando ho vinto un posto da professore di Ecologia all’Università di Nizza Sophia Antipolis. Dal 2016 dirigo un laboratorio di Ecologia Marina.

A questo proposito, vuoi parlarci del laboratorio e del lavoro di ricerca che effettuate?

Per me la ricerca ha due finalità importanti: la prima è l’acquisizione di conoscenze sugli ecosistemi marini che offrono tanto all’uomo e alla società. Spesso non ce ne accorgiamo ma è doveroso acquisire  le conoscenze di base perché si sa pochissimo. Guardiamo a Marte, ma non sappiamo che si possono scoprire nuove  specie in ogni bicchiere di sabbia, prelevata nella spiaggia, dove facciamo il bagno.

Inoltre, conoscere l’ambiente marino permette di dare indicazioni ai gestori sia a livello locale, come i direttori delle Aree Marine Protette, ma anche ai Ministeri e all’Europa, affinché gli ecosistemi marini siano gestiti in modo da essere in uno stato sano, da proteggere la bio-diversità, che non è solo una scelta a fondamento etico ma è anche scelta di convenienza. Infatti gli ecosistemi sani ed ad alta bio-diversità forniscono alla società una serie di beni e di servizi –  che diamo per scontati ma che scontati non sono – che costituiscono un vantaggio.

Di che cosa ti occupi, nello specifico.

I filoni di ricerca più importanti di cui mi occupo sono centrati sul modello fauna ittica – pesci –  e sono: la conoscenza della biologia e dell’ecologia delle specie ittiche ma anche l’applicazione di metodi di pesca sostenibile e l’utilizzazione della fauna ittica come indicatore delle qualità degli ecosistemi marini.

Il motivo per cui noi lavoriamo in tantissime AMP è perché, adottando certe tecniche di raccolta dati sulla fauna ittica, siamo in grado di dire se una certa misura di protezione o gestione che è stata adottata in una certa AMP o in una certa zona, stia o meno proteggendo efficacemente la fauna ittica e l’ecosistema di cui la fauna ittica fa parte.

Come negli esami del sangue si contano i globuli rossi, la formula eritrocitaria,  noi misuriamo l’abbondanza dei pesci, la loro taglia, quante specie sono presenti, se ci sono i giovanili, se i riproduttori sono efficaci e grandi.

Si lavora anche per incrementare risorse.

Lavoriamo sulla gestione della pesca che in alcuni momenti può esser diminuita o sospesa al fine di ricostituire le risorse di pesca e perché successivamente i pescatori ne possano beneficiare.

Ci sono modalità di pesca che consentono di pescare meglio. È una questione culturale, nel senso che le risorse in mare sono condivise. Se si scatena una mentalità iper-competitiva, i pescatori si fanno del male reciprocamente perché pescano individui piccoli, immaturi, pur di pescare qualcosa che non sia pescato da un altro. Se si pesca in maniera cooperativa, – e ci sono degli studi che abbiamo fatto e che hanno mostrato risultati molto interessanti – il pesce ha tempo di crescere, i riproduttori di produrre uova e larve, nello scopo di rimanere in una situazione più ecologicamente sana e anche più abbondante produttiva per la pesca.

E ci colleghiamo al concetto di sostenibilità delle risorse viventi. Quando  parliamo di una miniera di carbone o riserva di petrolio una volta che estraiamo e usiamo il materiale, questo non esiste più. Per una risorsa vivente, come uno stock di pesca, i pesci sono vivi e devono poter crescere e riprodursi, in tal modo possiamo pescarne una parte, evitando di esaurire la risorsa.

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Visual Census ph. ©Egidio Trainito

L’Italia continua a perdere studiosi, ricercatori, una “fuga di cervelli”, una diaspora che sembra non finire.

Io non sono molto d’accordo sul concetto di “fuga di cervelli”, perché di geni ce ne sono stati pochi nella storia. Qui consideriamo Einstein e quelli che hanno inventato cose fondamentali.

Quello che sta succedendo, ben più grave, è che dall’Italia se ne stanno andando tante persone normali, ma con tanta voglia di fare, tanta volontà e tanta motivazione e competenze che spesso contano più della genialità, le quali non trovando spazio per meritocrazia, uno stipendio adeguato o altro, trovano occasioni altrove.

Io, per esempio, sono andato a Nizza e riesco a attirare cospicui finanziamenti dall’Europa o da altre realtà. Ciò significa che sono fondi che non arrivano in Italia e con ciò non si permette di dare qualche borsa di studio a giovani italiani, né  di pagare una fornitura per un servizio, giusto per fare un esempio.

Il problema non è solo che tanti se ne vanno, ma anche che l’Italia non è capace di attirare un francese, un tedesco o un asiatico che poi produce più di me o altri.

Da anni sei collaboratore attivo di tante Aree Marine Protette. Che cosa s’intende per AMP e perché la necessità  di costituirla?

In termini più generali un’Area Marina Protetta è un’area definita da un perimetro a mare soggetta a qualche regola più stringente rispetto alle leggi nazionali vigenti. Nel contesto italiano, incluso quello sardo, le aree marine protette hanno un perimetro all’interno delle quali al 90 % si può entrare, i pescatori locali professionisti possono pescare e in ampie aree anche i pescatori ricreativi possono pescare salvo i pescatori in apnea con il fucile sub. Queste zone sono dette ‘zone tampone’ e corrispondono alle cosiddette zone B e C delle AMP italiane. All’interno delle AMP ci sono poi piccole zone, dette zone A, in cui si può entrare unicamente per sorveglianza, se c’è un’urgenza o un soccorso, o per motivi di ricerca previa autorizzazione.

Per esempio, nell’Area Marina Protetta di Tavolara, le uniche zone totalmente interdette sono un settore presso Punta del Papa presso l’Isola di Tavolara e intorno all’isolotto di Molarotto. Nel resto si può accedere con l’imbarcazione andando a velocità moderata. Possono operare i pescatori professionisti muniti di licenza e in una zona C, molto ampia, anche i pescatori ricreativi, se si registrano presso l’Area Marina Protetta e chiedono autorizzazione, possono, seguendo alcune regole, pescare e divertirsi.

Un’Area Marina Protetta è uno strumento che se lo si usa bene – e i dati che provengono oltre che dal Mediterraneo, da tutto il mondo, lo confermano – è un’occasione di legalità e ha il potenziale di produrre un ritorno economico molto importante.

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Epinephelus Marginatus Corteggiamento ph. ©Egidio Trainito

Parliamo del problema legato all’aumento della temperatura del mare che sembra stia alterando l’habitat marino. Qual’è la reale situazione?

Innanzitutto bisogna distinguere tra effetti diretti o indiretti. L’aumento della temperatura per sé è qualcosa che cambia le condizioni ecologiche dell’ambiente. L’aumento della temperatura delle acque marine è la conseguenza di cambiamenti climatici di origine antropica, ma i cambiamenti che stanno avendo luo in Mediterraneo sono determinati anche da altre concause.

A causa dell’apertura del Canale di Suez, abbiamo aperto la porta a specie più affini alle acque calde, come quelle del Mar Rosso, che sono entrate a centinaia, migliaia nel Mar Mediterraneo e alcune decine hanno trovato un habitat “caldo” ideale.

Il Mediterraneo, nella parte Est, è sovrapescato, alcune di queste specie del mar Rosso non hanno trovato quelle difese naturali, quei grossi pesci predatori, come le cernie per esempio, che mangiandosele possano controllare le loro popolazioni.

Due specie in particolare, entrate attraverso il canale di Suez, stanno desertificando le coste rocciose del Mediterraneo orientale, nel senso che qui vediamo la roccia con sopra le alghe, mentre in alcune coste rocciose turche e libanesi la roccia appare “liscia”. Non c’è più nulla. Questi pesci erbivori, chiamati pesci coniglio, brucano le alghe e si riproducono velocemente. Sono già arrivati nel basso Adriatico e in Sicilia (sono abbondanti a Lampedusa) e  si cominciano ad avere segnalazioni anche nel Tirreno.

Questo è un effetto dell’innalzamento della temperatura che cambia le condizioni ecologiche. Si fa spazio a nuove specie che eliminano specie di alghe, ma anche per competizione specie locali come la Salpa, pesce erbivoro mediterraneo, ormai quasi sparita lungo le coste della Turchia.

Poi c’è da considerare l’effetto indiretto. Alcune patologie dovute ad infestazioni di parassiti, protozoi, virus e batteri diventano molto più virulente in acque più calde. C’è una patologia diffusa che colpisce le cernie, spigole e altri pesci che si presentano o morenti in superficie o morti sul fondo e hanno gli occhi bianchi. Si possono vedere anche murene viventi con gli occhi bianchi. Questo è un virus la cui virulenza aumenta d’estate con l’aumento della temperatura delle acque e in generale è aumentato negli anni, come conseguenza di temperature mediamente più elevate.

Come può intervenire l’uomo?

Ci sono tanti modi per fare qualcosa nella giusta direzione. Nelle Aree Marine Protette dove si pesca meno e meglio o nelle zone A dove non si pesca, ci sono tanti pesci, alcuni molto grandi che sono predatori efficaci e possono nutrirsi di quelli che entrano dal Canale di Suez, limitandone l’espansione.

L’uomo stesso può far qualcosa. Queste specie invasive possono esser pescate e proposte attraverso un’attività di promozione nei ristoranti. Esistono ormai ricette fatte col pesce leone, il Lion Fish, che è uno scorfano tropicale entrato dal Mar Rosso. Sono pesci molto buoni. Dopo un’iniziale diffidenza, lentamente si stanno affermando sul mercato.

Ma non si può intervenire se si raddoppia l’ampiezza del canale di Suez, come è successo in Egitto, e se si preferisce fare delle scelte in funzione di un’economia di ritorno a breve termine.

La pesca e la necessità dei fermi biologici. Perché è importante rispettarli?

Quello che si dovrebbe fare è arrivare ad un equilibrio tra quello che gli ecosistemi marini offrono come risorse e quello che noi possiamo prelevare. Perché quando la pesca è aperta ed è eccessiva si fa un danno ambientale. Se si ferma siamo noi con le nostre tasse che paghiamo la flotta perché stia ferma, ciò non ha nessun senso. Io voglio bene alla categoria dei pescatori artigianali, ma poi c’è tutta la componente semi-industriale o industriale del Mediterraneo e quelle sono spesso grosse aziende. Se un negozio non riesce a vendere pomodori o cornici di quadri chiude. Non è che il negozio resta chiuso e attraverso convenzione fondi pubblici il titolare guadagna lo stesso. Siamo in una condizione di dover affrontare un’economia della pesca industriale che non ha una sua economicità, che sta in piedi grazie ai sussidi. Non ha senso. Paghiamo per avere un danno.

Una situazione diversa si palesa se si parla di supporto alla gestione per la pesca locale, artigianale. Primo perché la pesca artigianale è un’attività economica, ma ha anche grosse implicazioni culturali. Come si può pensare a certi borghi marinari senza i pescatori. Quanta immagine di borgo marinaro attira turisti che vedono nei nostri borghi autenticità, genuinità…essi creano economia.

Relativamente alla gestione degli stock, i pescatori locali non si muovono tanto, pescano localmente. Quindi quando si parla con loro  – ho avuto la fortuna di conoscerne tanti dotati di grande intelligenza e capacità – utilizzano dei sistemi di autocontrollo. Infatti sanno che se pescano tutto oggi, domani fanno la fame. Mentre un grosso peschereccio che dipende da una grande compagnia sfrutta a fondo le risorse in un tratto di costa e poi si muove verso un altra zona, il pescatore di Castelsardo, per esempio, non andrà in Tunisia, ha quindi interesse a conservare e gestire meglio le sue risorse locali.

Inseriti in un contesto un po’ più moderno, l’idea di “pescatore” può essere interessante per mantenere quell’immagine di borgo marinaro che funziona dal punto di vista turistico. Infatti il ristorante “Il pescatore” lo si trova un po’ ovunque. Si può integrare in loghi di sostenibilità se si pesca come si deve e integrare in una struttura come un’Area Marina Protetta se viene ben pianificata. Implicando i pescatori anche nella gestione e non dando sussidi a fondo perduto, ma aiutandoli ad evolvere verso qualcosa che sia più adeguato ai nostri tempi.

Altro punto importante è che se si guardano le specie target, la piccola pesca non si focalizza su poche, ma è una pesca multi-specifica. L’impatto del prelievo, quindi, non si concentra su alcuni stock che vengono devastati. Il pescatore professionale locale conosce bene il suo mare, sa che in alcuni mesi deve usare un certo strumento perché arrivano le seppie, poi cambia attrezzo perché arrivano le triglie, etc… e facendo così tutti gli stock hanno un pochino di tempo per riprendersi.

Per contro la pesca al tonno rosso viene fatta da grandi imbarcazioni e si mira solo a quella specie perché ha un grande rendimento economico. E purtroppo, anche se sono state fissate delle quote, spesso si pesca più del dovuto.

E quindi, parliamo di pesca sostenibile.

Noi lavoriamo sulla pesca sostenibile che risponde ai seguenti criteri. Quello ecologico: pescare con attrezzi che non impattino l’ambiente, che non impattino i pesci troppo piccoli che lascino i pesci grossi perché sono i riproduttori, non solo poche specie, cercando di non pescare troppi pesci predatori per non intaccare l’ecosistema. Facciamo programmi educativi per insegnare a pescare e consumare più specie, anche quelle che non si conoscono e non si cucinano più, specie che  un tempo si conoscevano e mangiavano.

Poi c’è la sostenibilità sociale ed economica: scegliendo specie che sono pescate localmente invece di andare a nutrire l’economia di un grande investitore di chissà dove, facciamo vivere meglio il pescatore locale che è quello più interessato a gestire meglio il proprio stock, vettore di una cultura importante e che è colui che contribuisce all’economia locale.

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Parablennius Pilicornis ph.©Egidio Trainito

La plastica e i suoi immensi danni ambientali è un problema da affrontare con una certa urgenza. Tutti siamo rimasti colpiti dalla morte del Capodoglio, rinvenuto nei pressi di Cala Romantica,  a causa dei tanti chili di plastica ingeriti. Bisogna dire che si sta lentamente diffondendo una certa coscienza ecologica. L’ONU ha dato dei parametri ma alcuni paesi ancora non li rispettano. 

Il problema grave, oltre a quello evidente delle macro-plastiche che tutti vedono, è che tutte le plastiche si frantumano e diventano microplastiche. Le microplastiche entrano nelle catene trofiche, nelle catene alimentari, entrano negli organismi. E alcuni di questi organismi vengono mangiati da noi, entrano dentro il nostro corpo. Si è già cominciato ad osservare dei residui di microplastiche nel sangue umano di cui non si conoscono (ancora) gli effetti. Ma ciò non è sicuramente positivo.

Il discorso della plastica è ora di moda e ognuno nella vita quotidiana dovrebbe fare la sua buona azione che non è unicamente di non gettare la plastica in mare. Ogni volta che facciamo la spesa portiamoci una sacchetto di tela e facciamo estrema attenzione a comprare confezioni che non abbiano imballaggi di plastica. Non dobbiamo solo riciclare la plastica, ma dovremo arrivare a non produrla o a produrne il meno possibile.

Come potrebbe intervenire la comunità internazionale su questo problema?

Diciamo che ci sono due modalità d’intervento, una top-down dall’alto al basso, e l’altra bottom-up dal basso verso l’alto. L’Europa, le Nazioni Unite si sono date dei target a cui molti paesi aderiscono, anche se spesso non soddisfano questi criteri nella realtà. Si vede una certa propensione a risolvere il problema, ma non si è arrivati alla questione fondamentale. Come diceva Einstein ”Non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato”. Quindi finché i paesi seguiranno globalmente un modello economico che è teso alla persistente e continua crescita economica con conseguente misurazione attraverso indicatori come il PIL (prodotto interno lordo) che hanno una meccanica molto precisa non andremo da nessuna parte. Nel senso che siamo ad una crisi economica, ecologica e sociale per una contraddizione fondamentale: la terra ha delle risorse che hanno dei limiti, non sono infinite e noi pretendiamo che i sistemi economici dei paesi perseguano una crescita infinita.

Questa è una contraddizione che non può continuare a lungo. Non c’è stato un cambiamento culturale che possa permettere di cambiare i nostri obbiettivi. Se l’obbiettivo è la crescita persistente possiamo alleviare problemi, possiamo ridurli, ma la direzione non è coerente con le risorse  che il pianeta può metterci a disposizione.

La questione bottom-up è relativa al fatto che le scelte non si fanno solo ai piani alti. Se, come già dimostrato, nelle persone si sviluppa una certa cultura a livello di società e se le persone adottano un certo approccio culturale al consumo delle risorse, il mercato non può che adeguarsi. Se domani non compriamo più alcun prodotto che abbia un involucro di plastica  di conseguenza il produttore non produrrà più tali involucri.

Ho molta fiducia nella capacità che hanno le persone di indirizzare il mercato e le scelte politiche perché il politico ascolta l’elettorato. Ben venga, Greta, la bimba svedese e tutti i giovani che coinvolge. È uno strumento di comunicazione magnifico.

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Epinephelus costae maschio  ph. ©Egidio Trainito

Siete impegnati in tantissimi progetti. Ma quale idea soggiace ai vostri progetti?

L’idea progettuale del nostro laboratorio è un laboratorio che fa socio–ecologia ovvero la conservazione delle risorse, la protezione dell’ambiente vengono fatte non tenendo l’uomo al di fuori, ma coinvolgendo l’uomo all’interno del sistema, fare Possiamo escludere l’uomo in zone limitate, ma come modello da perseguire, dobbiamo arrivare ad un modello di sostenibilità in cui l’uomo e la società siano presenti ma interagiscano e sfruttino l’ambiente in modo assolutamente sostenibile.

La sostenibilità viene declinata attraverso le sue tre colonne: la sostenibilità ambientale con tutti i principi ecologici che partono dal diritto stesso delle diverse specie di esistere, noi non siamo l’unica che ha il diritto di esistere e giovarsi del pianeta poi c’è la sostenibilità sociale ed economica. E questa sociale ed economica fa riferimento ai diritti e all’equità, per cui anche quando un’area marina protetta viene istituita, non ci si può dimenticare che in quel territorio c’erano delle persone e delle categorie che avevano una loro economia. Se  non si riesce a supportare una certa economia locale perché incoerente rispetto ai principi di conservazione, bisogna supportare la sua conversione. Quindi la socio-ecologia prende in considerazione la conservazione dell’ambiente, la valutazione degli impatti, cercando di fornire soluzioni.

Mi parli nello specifico del censimento visivo dei pesci di cui si occupa il vostro laboratorio.

È una metodica di acquisizione di dati sulla fauna ittica standardizzata dalla metà degli anni 80 che non prevede alcuna raccolta, alcun campionamento di pesci. Bisogna avere una competenza subacquea in primo luogo. Si raccolgono i dati usando una tavoletta con dei fogli A4 plastificati e matite, ma bisogna saper riconoscere le specie, contare gli individui e valutare le taglie ‘ad occhio’. Noi raccogliamo dati in diversi habitat marini, censiamo le specie che sono presenti, valutiamo la loro abbondanza e la loro taglia individuale per poi stimare una variabile sintetica che è la biomassa, misurata come peso su superficie standard (ex., g/m2). Sembra semplice, ma non lo è.

Stimare la biomassa ci permette di comprendre quanto bene o male stia un ecosistema costiero in relazione, per esempio, alla pressione di pesca.

Personalmente ho condotto studi usando il censimento visivo presso diverse Aree Marine Protette sarde come Tavolara, Villasimus, Asinara, Capocaccia e Sinis, oltre ad alcune Zone Natura 2000. La Sardegna ha un patrimonio naturale costiero notevolissimo, un vero punto di forza, in cui la parte culturale e storica si itreccia con quella ambientale. Presso l’AMP di Tavolara, per esempio, eseguiamo due campagne all’anno per monitorare la fauna ittica dal 2005. Abbiamo una serie di dati che è storica e straordinaria, unica nel Mediterraneo.

La fauna ittica oscillare cambia molto nel tempo, ma ciò che si vede chiaramente è la capacità di recupero della fauna ittica soprattutto nelle zone A. All’interno delle zone A la biomassa di pesci è molto più elevata rispetto ai conteggi che facciamo fuori dall’area marina protetta, con valori intermedi nelle zone tampone (zona B e C). L’effetto riserva è limpido, chiaro, indiscutibile.

L’effetto riserva innesca poi il cosiddetto effetto spillover: quando la zona A è piena di pesci, essendoci troppa competizione all’interno, molti pesci escono e si muovono verso altre zone. Sono così esposti alla pesca e questo è un vantaggio per i pescatori.

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Secca Papa ph. ©Egidio Trainito

L’uomo ancora non ha capito che il mare è fonte di vita e mostra sempre meno attenzione. Si dovrebbe iniziare a parlare fin dalle scuole primarie. Cosa ne pensi.

L’idea che si ha della figura del ricercatore è che sia uno che ha la testa piena di numeri e cose complesse. In realtà oggi un ricercatore ha fallirebbe la sua missione se non avesse come fine anche quello di interagire con i più giovani, non solo con gli studenti universitari, ma anche i bimbi, a partire dalle scuole elementari o anche prima.

Ci sono modalità di trasmissione di informazioni che bisogna acquisire perché quando si parla con un bimbo si parla con una personcina molto attenta, che assorbe velocemente e naturalmente gli inputs. Così come per le lingue o per la musica quando si comincia a 5 anni i bambini sono incredibili, acquisiscono informazioni con rapidità e con una naturalezza di cui un adulto non è capace, non si devono sforzare.

La stessa cosa vale per il rispetto dell’ambiente, così come il rispetto per ciò che è bene comune e pubblico. Se si lavora con i bimbi e si inizia ad incanalarli verso questo tipo di approccio, inoltre, quando il bimbo che torna a casa e vede il papà o la mamma che usano la busta di plastica o fanno qualcosa che non va, è il bimbo che ha una capacità d’intervento efficacissima.

Sarebbe interessante avere gruppi di laureati che si dedichino alla comunicazione con i bambini e i ragazzi nelle scuole.

Le ricerche sul campo sono indispensabili per capire dinamiche e valutare eventuali soluzioni? Ci parli di eventuali differenze tra l’approccio scientifico francese e quello italiano? 

Diciamo che è indubbio che una nazione come la Francia abbia molta più capacità organizzativa, cioè riesce ad agire a livello di sistema. Mentre l’Italia ha molte punte di diamante, però ha scarsa capacità organizzativa e non è capace di agire come “sistema”.

In Sardegna ci sono delle AMP che sono dei punti di riferimento anche per altri paesi europei, i cui dati dimostrano che l’efficacia è evidente e più chiara ripsetto ad altre realtà non italiane. In Italia, tuttavia, ci sono anche alcune Aree Marine Protette che lo sono solo sulla carta e questo va cambiato, in meglio.

L’esempio un AMP in Puglia, in provincia di Brindisi, l’AMP di Torre Guaceto, dove io lavoro da tanto tempo, è famoso uno tra gli esempi più noti al mondo per la cogestione della pesca locale. I pescatori andando a pescare meno, ma meglio, quando escono pescano molto di più e valorizzano meglio il pescato.

Si potrebbe fare qualcosa per migliorare la ricerca, secondo te?

Se si usano bene i fondi della ricerca, si potrebbe fare di più. Una cosa che sarebbe fondamentale fare – e anche qui la differenza è tra mentalità europea e anglo-americana – è finirla con l’immensa burocrazia attuale, perché quando facciamo un progetto europeo il report economico-finanziario, con tutti i vari scontrini, costituisce l’80 percento e la parte scientifica è quasi marginale. Invece quando si ragiona con un approccio “americano” il processo è più fluido: io cerco un finanziatore, propongo un’idea e dico quanto costa. Il finanziatore accetta ed esige soprattutto “i risultati”.

Per i progetti EU trascorriamo la maggior parte del tempo a giustificare le spese. Io preferisco cercare finanziamenti da fondazioni private che vanno ad obiettivo, ma non si può non stare nello spazio EU della ricerca, quindi ben vengano ovviamente anche i finanziamenti europei.

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Dotto Posidonia ph. ©Egidio Trainito

Quali progetti futuri?

Ho alcuni piccoli progetti innovativi in corso, come lo studio dei rumori dei motori marini in acqua, ma ormai la mia strada è quella di cercare di fornire informazioni e soluzioni per risolvere le forme d’impatto che l’uomo produce in ambiente costiero, gestire le risorse e l’ambiente nel modo più adeguato possibile, per preservare la biodiversità e nel contempo far sì  che le comunità locali possano trarre il giusto beneficio.

Ti piacerebbe stabilizzarti definitivamente in Sardegna?

Non solo mi piacerebbe. Vengo qui il più spesso possibile. Ho avuto tante offerte per rientrare in Italia, in sedi universitarie, ma ho sempre dichiarato che non rientrerò salvo in Sardegna che non è la mia terra nativa, ma la mia terra d’adozione, dove mi sento bene.

 

 

©lyciameleligios 2019

(pubblicato su Olbia.it il 26 Maggio)

Una conversazione con Anna Mazzamauro, icona del teatro italiano

Incontrare Anna Mazzamauro non è stato semplice perché, oltre ad essere attrice sul palcoscenico, è una donna manager molto dinamica con un’agenda fitta di tantissimi impegni, telefonate, incontri.

Ma, ci ha concesso questa lunga intervista, come segno di ringraziamento verso tutte le persone che le hanno mostrato grande affetto e stima, assistendo alla sua ultima commedia “Nuda e Cruda”, inserita nel circuito della Grande Prosa 2018-2019 del CeDAC, rappresentata nei vari teatri della Sardegna, oltre a varie regioni d’Italia.

BA96EC68-D634-4843-8709-31947A4D9982Courtesy Archivio Anna Mazzamauro ph. ©Pino Miraglia

Qui continua a svelarsi con la sua intelligenza e autoironia di sempre, da cui traspare consapevolezza del suo talento artistico e a tratti scopre un velo d’inquietudine e malinconia;  ma oltre alla sua delicata sensibilità, predomina un innato senso di libertà, che si può riscontrare in alcune sue grandi interpretazioni come la Lysistrata di Aristofane, La locandiera di Carlo Goldoni o il Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand fino alle commedie più attuali come Belvedere. 

Non mancano dei piccoli doni, quasi sfumature di luce della sua anima profonda e introspettiva, intervallati dal fluire delle parole: piccole riflessioni sulla vita. 

Iniziamo l’intervista con una risata spontanea, di quelle che servono per allentare tensioni e ti riportano alla realtà. Ora non si recita a soggetto, ma ci si palesa come si è autenticamente veri.

È lei che gioca d’anticipo da grande star, dicendo: «Se proprio vuoi esser onorata comincia a darmi del tu, perché così ci onoriamo a vicenda». Da queste poche parole avevo intuito che ci sarebbero state belle sorprese da questa donna minuta, agile, carismatica, grintosa, empatica, libera che ama l’autenticità e fugge dall’ipocrisia: Anna Mazzamauro.

 

C4035585-D66A-4E17-9B33-C9F329EABA88Courtesy Archivio Anna Mazzamauro

Sei un interprete molto apprezzata e stimata. Hai trascorso una vita sulle scene fin dalla tua giovane età. Con grande versatilità e talento hai dato voce a personaggi con  sfumature caratteriali complesse, affrontando generi differenti dal comico al tragico.

Come è nata la passione per la recitazione e quali sono stati i tuoi insegnanti?

[Risata contagiosissima] La voglia, la sensazione di esser attrice è nata con me. Credo che il talento nasca con noi. Io non so fare nient’altro. Sono una donna assolutamente inutile se non sto sul palcoscenico. Come tu stessa avrai constatato per quello che è successo durante lo spettacolo [allude allo spettacolo “Nuda e Cruda” durante il quale si erano verificati problemi tecnici e lei ha continuato a recitare tra realtà e finzione in modo brillante strappandoci risate e grandi applausi, ndr]. Se fosse successo in un altro contesto, io non avrei potuto reagire in quel modo (naturale e spontaneo). Quando sono sul palco assumo una specie di divinazione. Il desiderio di esser attrice è nato con me e non ho avuto nessun maestro se non il mio specchio, perché non ho frequentato nessuna scuola.

Credo che le scuole di Arte Drammatica non siano inutili, ma necessarie quando si ha un’inflessione dialettale molto accentuata. Quando si parla in calabrese, siciliano, lombardo e veneto. Il dialetto va curato, eliminato per purificare la lingua italiana. Allora è giusto avere degli insegnanti. Ma nessuno può insegnarti a recitare se non sai recitare.

I tuoi genitori avevano assecondato la scelta di diventare attrice o l’osteggiavano?

Avendo manifestato fin dall’asilo questa inclinazione alla recitazione, loro ritenevano che il desiderio di diventar attrice fosse una “malformazione”. Ma io sono nata con questa malformazione sia fisica che mentale! [Ridiamo sonoramente] sai che amo fare autoironia!

Hanno tentato di allontanare questo démone dostojeskiano del teatro, mandandomi all’asilo dalle suore. Ma i miei genitori, come penso tutti i genitori, non cercano di ostacolare il talento del proprio figlio se questo è presente, in caso lo possono indirizzare verso qualcosa che loro ritengono sia più giusto.

Nel mio caso,  pur non essendo nata nell’800, i tempi non erano storicamente pronti rispetto alla cultura di entrare a far parte del mondo dello spettacolo con disinvoltura. Quando ero piccola occorreva il permesso dei genitori.

Conoscevo il mio istinto anche se non sapevo dove mi avrebbe portato. Così studiai, frequentai  il liceo classico dalle suore. Anche se ci sono stati attori meravigliosi che erano dotati di grande espressività e intuito, che avevano fatto pochi anni scolastici.

Un ricordo di quegli anni.

In classe, il mio banco era sotto la finestra e davo le spalle alle mie colleghe. Guardavo il cielo e immaginavo. Disegnavo locandine. Davo le spalle perché sia le suore che le madri delle mie compagne di classe, fanciulle in fiore, pensavano che io le potessi rovinare parlando di ciò che desiderassi fare da grande.

L’amore per la recitazione ti indusse ad aprire un piccolo teatro Il Carlino. Puoi parlarci di questa esperienza? 

Avevo già alle spalle varie esperienze teatrali con Giorgio Albertazzi, il Teatro Stabile di Torino e altre.

Il mio aspetto induce  i “depositari” della cultura artistica italiana a relegarmi intenzionalmente – anche se io non gliel’ho permesso – ai caratteri all’italiana, che sono ad esempio: se tu non sei più giovane devi parlare come se avessi la dentiera, oppure devi esser cecato, sordo, zoppicante, claudicante. Queste cose orrende da cinepanettone, che spero di non fare mai più.

Ma ritornando al mio Teatro Il Carlino, poiché potevo aspirare a diventare al massimo l’antagonista della protagonista, – ma per carità, io sono nata protagonista – scelsi di aprire questo teatrino. E così scritturai i Vianella, Bruno Lauzi e tanti altri bravi artisti.

M’impegnai con tutte le mie forze. Gestii completamente da sola – sia economicamente che artisticamente – il mio piccolo teatro che poi mi bruciarono. Ma, non ne voglio parlare.

[segue un istante di silenzio, intenso, come il ricordo ancorato ad un dolore indelebile, scolpito nella sua anima]

Comunque hai trovato la forza di reagire. Come hai superato questo momento?

Come immagine ricordo di  aver aiutato i pompieri a spegnere l’incendio. Questa è naturalmente un immagine retorica, infatti non l’ho fatto materialmente.

Si dovrebbe capire che le tragedie della vita vanno spente aiutandosi pesantemente con forza, come spegnere un fuoco. Certo dipende dall’intensità della tragedia, non voglio entrare nel merito. Ma dopo l’incendio del teatro, io non sarei riuscita a stare a casa e fare la casalinga. Avvalendomi dell’immagine allegorica di aver collaborato allo spegnimento del fuoco ho superato il trauma e ho ricominciato.

Diceva Sant’Agostino “Beato chi sa ridere di sé stesso perché non finirà mai di divertirsi”. In sintesi mai prendersi sul serio e tu in questo sei stata una grande insegnante.

Questo mi fa molto piacere. Non conoscevo questa frase di Sant’Agostino, non pensavo fosse così intelligente e che mi avesse quasi ispirato.

11DC3AEE-A455-46E1-9102-3668F96950CFCourtesy Archivio Anna Mazzamauro

Un riferimento alla tua interpretazione della celebre signorina Silvani donna con un profilo caratteriale di rilievo, spigliata, esuberante, di cui il Ragionier Fantozzi – interpretato da Paolo Villaggio – si era innamorato. Questo personaggio ha lasciato traccia sulla tua personalità e/o influenzato scelte future?

È un personaggio che ha lasciato traccia negli altri. Premetto che io non rinnego mai niente di ciò che ho fatto. Posso dire che mi ha dato notorietà. E per ciò sono riconoscente alla Silvani e l’ho sbattuta in palcoscenico durante il mio spettacolo per raccontare una donna sola, disperata e anche un po’ stronza.

Quando la gente mi ferma e mi dice: «Tu sei un mito» – forse esagerano – perché un mito è Sofia Loren, non io. Io posso essere una bella interprete di me stessa e dei personaggi che scelgo. Quando mi dicono queste parole, comunque si riferiscono sempre alla signorina Silvani. Così quando mi chiedono gli autografi. Una parte della gente viene a teatro, ma la maggior parte mi ricorda come la signorina Silvani. Ma finché mi chiederanno le fotografie e i famosi selfie mostrando affetto sarà sempre un bene, quando non me li chiederanno più, vuol dire che mi avranno dimenticata.

Come vivi i ricordi? I ricordi implicano una crescita interiore o sono luoghi di memorie sbiadite dal tempo? 

Molti ricordi li vorrei annullare completamente, rinnegarli. Però immaginiamo di salire una scalinata di un tempio antico. Questi gradini possono esser sbeccati, possono far sdrucciolare, però è sempre una scala. Dobbiamo imparare a salire anche sui gradini rotti, in quanto poi troveremo quelli integri che aiutano a salire.

[un bellissimo dono questa metafora]

Hai dato voce e anima ad uno dei caratteri più difficili della storia del teatro Cyrano de Bergerac, – pièce di Edmond Rostand – Quanta importanza hanno il talento e lo studio nell’introspezione psicologica di un personaggio? Perché hai scelto questo carattere intenso ed estremo?

Si, è il mio fiore all’occhiello. Possiamo dire che se si unisce il talento allo studio si raggiunge un risultato eccellente.

Nella mia vita artistica ho sempre privilegiato, al di là del sesso, personaggi che mi hanno donato grandi emozioni. Cyrano potrebbe essere una donna con il naso lungo. Ama ma non è riamato. Lotta in duello. Muore per amore e per aver duellato con la spada. Queste sono caratteristiche che potrebbe avere anche una donna. Sono l’unica attrice al mondo che ha interpretato Cyrano, che ho scelto perché mi ha dato grandi emozioni così come sono riuscita a trasmetterle al pubblico.

I miei spettacoli più importanti della mia vita sono stati Cyrano e lo spettacolo su Anna Magnani, Raccontare Nannarella.

Ora voglio darti una notizia: ho scritto la nuova commedia per la prossima stagione teatrale, un inno alla libertà, il cui titolo è Belvedere. È la duplice storia di Santa, una grassa, enorme signora che sarei io, che sarò infilata in una specie di sarcofago e di una trans autentica Cristina Bugatti. Queste due donne rappresentano il senso della libertà, rispecchiano i loro più reconditi desideri, voleri. Esprimono il diritto – senza disturbare o ledere il prossimo – di vivere in libertà come loro stesse desiderano, senza condizionamenti, nel puro rispetto di sé stesse e degli altri.

Io detesto i giudizi, come detesto quelli che sono tutti buoni, bravi e belli quando rilevano un tuo difetto come se loro non ne avessero.

Belvedere è il luogo scelto da questa grassissima e enorme signora che è felice delle sue condizioni, però è costretta a vivere su un belvedere di un palazzo dove ha ricostruito il suo mondo e incontra una trans che si sta per uccidere. Riesce a salvarla e da qui nasce il rapporto tra queste due donne. La commedia è un inno alla libertà di esser come ti pare.

Calvino diceva che bisognasse “capire d’ogni persona o cosa al mondo, la pena che ognuno e ognuna ha per la propria incompletezza”. Questa potrebbe essere la chiave che permette di definire i personaggi caratterialmente? Che cosa pensi al riguardo considerato che l’incompletezza fa parte dell’essere umano?

Possiamo ricollegarci alla nuova commedia  ed aggiungere che Santa si avvicina al Barone Rampante costretto a vivere sugli alberi perché non trova la sua dimensione per terra.  È Belvedere.

 

Hai fatto dell’ironia un faro di riferimento nel mare a volte burrascoso dell’esistenza, con grande intelligenza ed umiltà ti sei riscattata. La tua è una bellezza interiore autentica a tratti lirica. Oggi sembra che la bellezza interiore sia un po’ subordinata a quella esteriore.

Non solo subordinata, ma la bellezza esteriore sembra abbia prevaricato sulla bellezza interiore. Ma ho una dolcissima invidia verso le bellissime. Ogni tanto, un minuto l’anno penso fra me: «ma se io fossi stata bellissima forse avrei vinto prima, avrei vinto di più?» Ma questo solo un minuto poi torno sul palcoscenico e mi sento bellissima, intelligentissima, giovanissima tutti i superlativi assoluti. La priorità adesso penso si dia attraverso i social, attraverso i grandi fratelli e le grandi sorelle…

Cosa pensi dei social?

Quando si scopre un mezzo così potente per rapportarsi con gli altri lo si deve sfruttare fino in fondo. Penso sia una transizione. Dopo si capisce che dare in pasto la propria intimità agli altri, anche alle persone intelligenti, è sbagliato. E si ritorna nella propria dimensione.

Carismatica, autoironica, oggi non più trentenne t’imponi sulla scena con armonia e agilità uniche. Hai qualche segreto da svelarci?

Io vivo sempre con la sensazione di avere trecento anni davanti a me. Sto sempre facendo progetti, scrivendo, leggendo. Ogni tanto vengo assalita dal terrore della morte, però cerco di controbatterlo con l’ironia. Dormo poco perché il letto è uno dei posti più pericolosi del mondo perché ci muoiono tante persone. Gioco sulla vecchiaia, in fondo c’è questo dolore, questo smarrimento. Io non riesco a capire perché devo morire, visto che mi piace tanto stare in vita. Mi piace proprio la vita. L’amo moltissimo e perché devo morire? Non voglio. In contrapposizione a questa orrenda sensazione cerco delle altre emozioni più belle, più festose, più lungimiranti, progettuali. Io amo fare progetti, allora mi sento viva. E tu avrai visto una giovane donna in scena perché stavo facendo il progetto di mostrare al pubblico di essere bravissima.

Calvino considerava la letteratura “un mezzo per introdurre ordine nel caos” io lo accosto alla grande potenzialità dell’ironia e della comicità. Possiamo dare questo valore uniformante alla comicità che allinea, livella? Che valore ha secondo te?

La comicità è un emozione, come la tragedia quello che provoca la tragedia e la comicità. Sono emozioni. L’una ti fa ridere l’altra ti fa piangere però ti viene sempre da dentro.

“Ogni vita è un campionario di stili, – diceva Calvino – ove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.”  Ma ciò non è forse l’anima del teatro? Che suggerimenti potresti dare ai ragazzi che vorrebbero studiare recitazione?

Direi lascia perdere, ovvero non cominciare, perché fare l’attore adesso come intendo io è molto difficile: non ci sono più le grandi compagnie dove si poteva imparare; non ci sono più i soldi per metter su delle grandi compagnie, e i gestori e gli impresari scelgono gli artisti.

Io  per esempio ho proposto uno spettacolo in cui ero sola con due eccellenti musicisti.

Nell’ultimo tuo spettacolo fai riferimento al femminicidio e al dolore straziante della madre di Melania Rea. Un messaggio forte che incide l’anima.

Un rifiuto del pensiero che ti possano uccidere una figlia. Io sono madre e solo all’idea… di pensare di parlare della madre di Melania Rea, prima di metterla nella Macelleria, ho detto «io non riesco a darmi una risposta».  E continuo «mio Dio ma se io fossi lei». Rifiuto l’idea che mi massacrino mia figlia e tutti rifiutiamo l’idea di accettare che gli assassini restino impuniti.

Che cosa conteneva la tua “valigia dell’attrice” ieri e cosa contiene oggi?

Tutti i cambi di cui sono proprietaria, di cui sono capace, tutti i cambi senza costumi. Io apro la valigia e ti sembra che non ci sia niente, ma ci sono io con tutti i miei desideri di raccontare i vari personaggi.

Ritornerai in Sardegna?

Io mi auguro di ritornare perché un pubblico così affettuoso è raro, che vale la pena d’incontrarlo ogni anno.

Anche noi tutti, dalla redazione ai lettori di Olbia.it ci auguriamo di rivederti presto nell’isola. E ti ringraziamo, cara Anna, perché da questa pagina hai continuato a farci emozionare, sorridere e se anche la scrittura può creare limiti, mancando di segni sonori e visivi, tu sei riuscita con la forza della tue parole a far af/fiorare la tua anima bella. Ma fossi proprio tu Cyrano! Ti aspettiamo!

©Lycia Mele Ligios

(articolo pubblicato su Olbia.it)

Olbia, 4 Maggio 2019

English Version

Meeting Anna Mazzamauro was not easy because, in addition to being an actress on stage, she is a very dynamic manager woman with a busy schedule full of commitments, phone calls, meetings.

But, she gave us this long interview, as a sign of thanks to all the people who showed her great affection and esteem, attending her last comedy “Nuda e Cruda”, inserted in the circuit of the Grande Prosa 2018-2019 of CeDAC, represented in the various Sardinian theaters, as well as various regions of Italy.

Here she continues to reveal herself with her usual intelligence and self-mockery, from which she becomes aware of her artistic talent and at times discovers a veil of restlessness and melancholy; but in addition to his delicate sensitivity, an innate sense of freedom predominates, which can be found in some of her great interpretations such as Aristophanes’ Lysistrata, Carlo Goldoni’s The innkeeper or Edmond Rostand’s Cyrano de Bergerac and the more current comedies like Belvedere . Little gifts are not lacking, almost shades of light of her deep and introspective soul, interspersed with the flow of words: small reflections on life.

We begin the interview with a spontaneous laugh, one of those that serve to release tension and bring you back to reality. Now we do not act as a subject, but we are revealed as we are: authentically true. It is her who plays in advance as a great star, saying: “If you really want to be honored, start saying you, because in this way we honor each other”. From these few words I realized that there would be nice surprises from this petite, agile, charismatic, spirited, empathic, free woman who loves authenticity and flees hypocrisy: Anna Mazzamauro.

You are a highly appreciated and respected interpreter. You’ve spent a lifetime on the scene since you were young. With great versatility and talent you have given voice to characters with complex temperaments, facing different genres from the comic to the tragic.

How did the passion for acting come about and who were your teachers?

[Very contagious laughter] The desire, the feeling of being an actress was born with me. I believe that talent is born with us. I can’t do anything else. I am an absolutely useless woman if I am not on stage. As you yourself will have seen for what happened during the show [alludes to the show “Nuda e Cruda” during which technical problems occurred and she continued to recite between reality and fiction in a brilliant way, snatching laughter and great applause]. If it had happened in another context, I could not have reacted in that way (natural and spontaneous). When I’m on stage I take on a kind of divination. The desire to be an actress was born with me and I had no teacher but my mirror, because I didn’t go to any school.

I believe that the schools of Dramatic Arts are not useless, but necessary when there is a very pronounced dialect inflection. When speaking in Calabrese, Sicilian, Lombard and Veneto. The dialect must be cured, eliminated to purify the Italian language. Then it is right to have teachers. But nobody can teach you to act if you don’t know how to act.

Did your parents support the choice of becoming an actress or not?

Having shown this inclination to acting since asylum, they believed that the desire to become an actress was a “malformation”. But I was born with this physical and mental malformation! [We laugh loudly] you know I love making self-mockery!

They tried to remove this Dostojeskian demon from the theater by sending me to the nursery school. But my parents, as I think all parents, do not try to hinder their child’s talent if it is present, in case they can direct it towards something they think is more right.

In my case, although not born in the 1800s, the times were not historically ready with respect to the culture of becoming part of the entertainment world with ease. When I was a child, parental permission was required.

I knew my instinct even though I didn’t know where it would take me. So I studied, I attended the classical high school at the nuns. Although there have been wonderful actors who were endowed with great expressiveness and intuition, who had made few school years.

A memory of those years.

In class, my desk was under the window and my back was to my colleagues. I looked at the sky and imagined. I drew posters. I turned my back so that both the sisters and the mothers of my classmates, girls in bloom, thought I could spoil them by talking about what I wanted to be when I grew up.

Love for acting led you to open a small Il Carlino theater. Can you talk about this experience?

I already had various theatrical experiences with Giorgio Albertazzi, the Teatro Stabile of Turin and others.

My appearance induces the “custodians” of Italian artistic culture to intentionally relegate me – even if I didn’t allow it – to Italian characters, which are for example: if you are not young you have to talk as if you had dentures, or you must be blinded, deaf, limping. These horrible things from cinepanettone, which I hope I will never do again.

But returning to my Teatro Il Carlino, since I could aspire to become the protagonist’s most antagonist, – but for heaven’s sake, I was born a protagonist – I chose to open this little theater. And so I would write the Vianella, Bruno Lauzi and many other good artists.

I committed myself with all my strength. I managed completely by myself – both economically and artistically – my little theater which then burned me. But, I don’t want to talk about it.

[follows an instant of silence, intense, like the memory anchored to an indelible pain, carved in his soul]

However you have found the strength to react. How did you overcome this moment?

As a picture, I remember helping the firefighters put out the fire. This is naturally a rhetorical image, in fact I did not do it materially.

It should be understood that the tragedies of life should be turned off by heavily helping each other, such as putting out a fire. Of course it depends on the intensity of the tragedy, I don’t want to go into it. But after the theater fire, I wouldn’t be able to stay at home and be a housewife. Taking advantage of the allegorical image of having collaborated in extinguishing the fire, I overcame the trauma and started again.

Sant ‘Agostino said “Blessed is he who knows how to laugh at himself because he will never cease to have fun”. In summary, never take yourself seriously and you have been a great teacher in this.

This makes me very happy. I did not know this phrase of Saint Augustine, I did not think he was so intelligent and that he had almost inspired me.

A reference to your interpretation of the famous Miss Silvani woman with a prominent, breezy, exuberant character profile, of which Ragionier Fantozzi – interpreted by Paolo Villaggio – had fallen in love. Has this character left traces on your personality and / or influenced future choices?

It is a character that has left its mark on others. I state that I never deny anything of what I did. I can say that it gave me notoriety. And for that I am grateful to Silvani and slammed her on stage during my show to tell a lonely, desperate and even a bit bitch woman.

When people stop me and say: “You are a myth” – perhaps they exaggerate – because a myth is Sofia Loren, not me. I can be a beautiful interpreter of myself and the characters I choose. When they tell me these words, they always refer to Miss Silvani. So when they ask me for autographs. Some people come to the theater, but most of them remind me of Miss Silvani. But as long as they ask me for photographs and the famous selfies showing affection it will always be good, when they won’t ask me again, it will mean that they will have forgotten me.

How do you live the memories? Do memories imply inner growth or are they places of memories faded by time?

I would like to cancel many memories completely, to deny them. But let’s imagine we climb a stairway of an ancient temple. These steps can be chipped, they can cause slipping, but it is always a ladder. We must learn to climb even on broken steps, because then we will find those intact that help to rise.

[a beautiful gift this metaphor]

You gave voice and soul to one of the most difficult characters in the history of the theater Cyrano de Bergerac, – pièce by Edmond Rostand – How important is talent and study in a character’s psychological introspection? Why did you choose this intense and extreme character?

Yes, it’s my buttonhole. We can say that if we combine talent with study we achieve an excellent result.

In my artistic life I have always privileged, beyond sex, characters who have given me great emotions. Cyrano could be a woman with a long nose. He loves but is not loved in return. Fight in a duel. He dies for love and for dueling with the sword. These are features that a woman could have. I am the only actress in the world who played Cyrano, which I chose because it gave me great emotions as I managed to convey them to the public.

My most important shows of my life were Cyrano and the show on Anna Magnani, Raccontare Nannarella.

Now I want to give you some news: I wrote the new comedy for the next theater season, a hymn to freedom, whose title is Belvedere. It is the twofold story of Santa, a fat, enormous lady who is me, who will be slipped into a kind of sarcophagus and an authentic trans-Cristina Bugatti. These two women represent the sense of freedom, they reflect their most hidden desires, wishes. They express the right – without disturbing or harming others – to live in freedom as they themselves desire, without being conditioned, in pure respect for themselves and others.

I hate judgments, as I hate those who are all good and beautiful when they detect your fault as if they had none.

Belvedere is the place chosen by this fat and enormous lady who is happy with her condition, but she is forced to live on a lookout of a building where she has rebuilt her world and meets a tranny who is about to kill herself. she manages to save her and from here the relationship between these two women is born. Comedy is a hymn to the freedom to be as you like.

Calvino said that it was necessary “to understand every person or thing in the world, the pain that each and every one has for their own incompleteness”. Could this be the key to defining the characters? What do you think about it considering that incompleteness is part of being human?

We can reconnect with the new comedy and add that Santa approaches the Baron Rampante forced to live on trees because he does not find his dimension on the ground. It’s Belvedere.

You made irony a reference lighthouse in the sometimes turbulent sea of ​​existence, with great intelligence and humility you redeemed yourself. Yours is an authentic inner beauty, sometimes lyrical. Today it seems that the inner beauty is a little subordinated to the external one.

Not only subordinate, but external beauty seems to have prevailed over inner beauty. But I have a very sweet envy of beautiful women. Every once in a year I think to myself: “but if I had been beautiful, perhaps I would have won before, would I have won more?” absolute. I think the priority is now given through social media, through the great brothers and the big sisters …

What do you think about social media?

When one discovers such a powerful means of relating to others, it must be exploited to the full. I think it’s a transition. Afterwards we understand that feeding one’s intimacy to others, even to intelligent people, is wrong. And it returns to its own dimension.

Charismatic, self-deprecating, now no longer in your thirties you impose yourself on the scene with unique harmony and agility. Do you have any secrets to reveal?

I always live with the feeling of being three hundred years ahead of me. I’m always making plans, writing, reading. Every now and then I am assailed by the terror of death, but I try to counter it with irony. I sleep little because the bed is one of the most dangerous places in the world because so many people die. Game about old age, after all there is this pain, this bewilderment. I can’t understand why I have to die, since I love being alive. I really like life. I love it very much and why do I have to die? I do not want to. In contrast to this horrible feeling I look for other more beautiful, more festive, more forward-looking, planning emotions. I love making plans, so I feel alive. And you will have seen a young woman on stage because I was doing the project to show the public that I was very good.

Calvino considered literature “a means of introducing order into chaos”, I approached it with the great potential of irony and comedy. Can we give this uniforming value to the comedy that aligns, levels? What value do you think?

Comedy is an emotion, like tragedy, what causes tragedy and comedy. They are emotions. One makes you laugh the other makes you cry but it always comes from inside.

“Every life is a sample of styles, – said Calvino – where everything can be continually re-mixed and rearranged in all possible ways.” But isn’t this the soul of the theater.   What suggestions could you give to kids who would like to study acting?

I would say let it go, or not start, because being an actor now, as I understand it, is very difficult: there are no longer large companies where you could learn; there is no money left to set up big companies, and managers and contractors choose artists.

For example, I proposed a show in which I was alone with two excellent musicians.

In your last show you refer to the femicide and the excruciating pain of the mother of Melania Rea. A strong message that affects the soul.

A rejection of the thought that they can kill a daughter. I am a mother and only with the idea … to think of talking about the mother of Melania Rea, before putting her in the Butcher’s, I said “I can’t give myself an answer”. And I continue “my God but if I were you”. I reject the idea that I am massacring my daughter and we all reject the idea of ​​accepting that the killers go unpunished.

What did your “actress’s suitcase” contain yesterday and what does it contain today?

All the changes I own, of which I am capable, all changes without customs. I open my suitcase and it seems that there is nothing, but I am there with all my desires to tell the various characters.

Will you return to Sardinia?

I hope to come back because such an affectionate audience is rare, which is worth meeting every year.

We too, from the editorial staff to the readers of Olbia.it hope to see you again soon on the island. And we thank you, dear Anna, because from this page you have continued to excite us, to smile and if even writing can create limits, lacking sound and visual signs, you have succeeded with the strength of your words in bringing out your beautiful soul . But were you really Cyrano !? We are waiting for you!

©Lycia Mele Ligios