Musicultura | Cordas et Cannas, uno sguardo oltre l’isola

“Dove il futuro si innalza nel passato e l’oggi è questo
sguardo. È un occhio il presente, tra un battito di ciglia e
l’altro, in un montaggio permanente di visioni”

Davide Nota

Un nome avvolge l’anima della loro musica, creato da due parole.  La prima rappresenta un oggetto, la corda,  simbolo di unione: l’abbraccio della loro musica verso contaminazioni, con rimandi tra tradizione e innovazione. A ciò, si aggiunga la necessità di confronto e condivisione con altre realtà musicali nazionali e internazionali. Infine, il nome di una pianta graminacea, tipica dell’area mediterranea, la canna, apparentemente  esile in realtà molto resistente.  Evoca la fragilità dell’uomo, soggetto ai venti della vita, in  resilienza e adattabilità. Possiamo ben dire che si distingua per longevità, altra caratteristica di questo gruppo. Loro sono i Cordas et Cannas, gruppo di musica etnica, portavoce delle nostra cultura identitaria in Sardegna e all’estero. 

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Cordas et Cannas – by courtesy of ©️Fabrizio Giuffrida

In questi giorni impegnati nel Musicultura World Festival come promotori dell’importante rassegna musicale, li abbiamo intervistati per ripercorrere insieme la loro storia e per ringraziarli del loro impegno e volontà nel proporre progetti musicali, dove l’attenzione è rivolta non solo alle melodie, armonizzazioni tra  sperimentazione e contaminazione, ma ai loro testi che affrontano tematiche di carattere sociale al fine di indurre una maggior consapevolezza e senso civico in tutti: problemi che affliggono la nostra contemporaneità come la guerra, conflitti, mine antiuomo e salvaguardia  dell’ambiente. Una musica pervasa dall’impegno con tonalità contemporanee.

Cominciamo a parlare di origini, quelle che vi hanno fatto incontrare e portare avanti un progetto musicale prezioso,  legato in parte alla nostro patrimonio culturale.

Il gruppo Cordas et Cannas nasce ad Olbia nel 1978-1979 dall’incontro di musicisti con percorsi musicali differenti, ma intenti ben definiti, avvalendosi,  inoltre, di vari ricercatori in campo storico-antropologico ed etnografico. 

La prima formazione era composta da: Andreino Marras, Gesuino Deiana, Francesco Pilu e Bruno Piccinnu. 

Il nostro percorso musicale è segnato dal confronto tra la nostra realtà socio-culturale e quella del mondo intero. A ciò si deve l’uso di alcuni strumenti quali l’organetto diatonico, launeddas, trunfa, sulittu, armonica,  serraggia, tumbarinu di Gavoi,  a cui si sono accostati  strumenti non tipicamente sardi: le percussioni, il violino, la chitarra elettrica e il flauto traverso, provenienti da altre culture musicali quali le percussioni africane, asiatiche e latino americane. Commistione che si ripropone anche nella scelta ed elaborazione dei testi, laddove accanto agli autori della nostra Isola, si riconoscono echi di autori stranieri.

Qual è la vostra formazione attuale? 

Oggi ci presentiamo con una formazione rinnovata e un sound ancora più coinvolgente e adatto ad ogni tipo di pubblico e contesto. Il gruppo è composto dal cantante/polistrumentista Francesco Pilu,  Bruno Piccinnu (percussioni e voce) fondatori storici del gruppo, Lorenzo Sabattini al basso elettrico fretless, Sandro Piccinnu alla batteria, Gianluca Dessì chitarre e mandola e Alain Pattitoni chitarra acustica ed elettrica più voce.

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Francesco Pilu – photo by courtesy of ©️Fabrizio Giuffrida 

La vostra musica colta si misura tra tradizione e innovazione.

Il nostro percorso musicale parte dal patrimonio culturale della tradizione sarda orale con le sue varianti linguistiche logudorese, barbaricino, campidanese, gallurese e con i propri stili popolari: canto a tenore, cantadores a chiterra, launeddas e danze tipiche.  Prosegue nell’esplorazione di generi musicali, che spaziano dall’Africa all’area del Mediterraneo, fino al mondo della cultura celtica, ponendoli insieme in una piattaforma unica, che ha permesso di sviluppare un suono originale e ha conferito al gruppo una distinta connotazione fin dalla sua nascita. 

Il progetto musicale Cordas et Cannas  si definisce  un viaggio attraverso le radici culturali della musica sarda, attualizzata da armoniosi intarsi sonori, presi da altre culture e generi musicali e,  inoltre, con il percorso musicalimba, si materializza l’incontro tra la musica tradizionale e quella moderna, espressa nelle varie lingue del territorio della nostra regione, con sonorità originali, danze coinvolgenti e canzoni di appartenenza. 

Con il video Terra Muda, che presenta un brano di recente realizzazione, si rappresenta la Sardegna enfatizzando la salvaguardia dell’ambiente; un messaggio che nasce e parte dalla nostra isola,  indirizzato verso tutto il pianeta sintetizzato in una frase:  Un suono, un’idea, un messaggio dalla terra del silenzio“, quasi un mantra che anima i nostri concerti con un concetto “distillato” di un rinnovato e praticabile rispetto verso l’ambiente e la bellissima natura che ci circonda.

Come nasce la ricerca delle vostre sonorità? 

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo far riferimento alla nascita del gruppo quarant’anni fa quando si creavano canzoni e brani strumentali attingendo dalla tradizione, come già espresso prima.  Nell’arco di circa dieci anni, si è lavorato alla composizione di musica originale intorno a quella tradizionale,  ma già ponendo basi di esplorazione artistica spesso molto lontana dai canoni tipici della Sardegna.

Spesso i pezzi venivano proposti da qualche componente del gruppo, visti e visionati da tutti con gli strumenti a disposizione e dopo discussioni sul tipo di brano e il suo contesto, veniva abbozzato in una sorta di prova strumentale. Ognuno svolgeva una propria ricerca esecutiva ed espressiva e quando sentivamo fosse completo e soprattutto funzionale, il pezzo veniva blindato in un arrangiamento definitivo.

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Bruno Piccinnu – Photo by Courtesy of ©️Fabrizio Giuffrida

Da quali autori attingete per ricreare quelle particolari atmosfere e sonorità che evocano, pur mostrando “libertà” negli arrangiamenti, la nostra musica etnica?

Gli autori sono tantissimi e sono quelli che fanno parte integrante dei nostri percorsi musicali. Perciò, non faremo esplicitamente dei nomi, potremo dire che ognuno di noi ha vissuto (chi più chi meno), tutta la musica dagli anni sessanta in poi. I fenomeni rock, blues, jazz e musica d’autore sono stati veicoli importanti verso un confronto con la musica sarda per affermare quest’ultima in un una nuova modalità e con un rinnovato stilema artistico. 

In questo panorama musicale, affiora la musica etnica internazionale e inizialmente i nostri modelli di riferimento sono stati i gruppi del Folk Revival, come Fairport Convention e Alan Stivell e altri di fine anni settanta, ma anche gruppi italiani come Nuova Compagnia del Canto Popolare, Canzoniere del Lazio insieme ad altri. Tutti hanno avuto un ruolo importante nel tracciare una nuova via che sarebbe diventata la musica caratterizzante del nostro gruppo.

Dopo i tre lavori discografici dei primi dieci anni, abbiamo dato molta importanza ai concerti e quindi alla musica dal vivo, producendo un disco live seppur completato in studio. Crediamo che ci siano stati brani, da noi composti, che abbiano avuto tantissime contaminazioni artistiche. Infatti abbiamo cercato di mettere insieme testi di poeti contemporanei della Sardegna con musiche originali, con riferimenti al canto a tenore e in qualche occasione alla musica cosidetta progressiva, utilzzando strumenti musicali non convenzionali. In quarant’anni anni di musica, ci  definiscono ancora oggi, gli “innovatori della musica sarda”, crediamo sia un complimento di cui andar fieri.

Tra i temi proposti si evidenziano quelli legati al sociale e alla complessa contemporaneità, come nelle canzoni degli album Fronteras e Ur, dove accanto al recupero della tradizione, intense emozioni s’intrecciano su narrazioni di sofferenze. Un richiamo, una denuncia. 

Il mondo deve prendere coscienza delle ingiustizie gravi che subiscono gli “ultimi e le popolazioni senza futuro” spesso a causa delle politiche di sfruttamento imposte dai grandi della Terra. 

Noi abbiamo sempre sostenuto associazioni umanitarie, quali Emergency, Amnesty International e altre, che operano in luoghi e territori che sono ai confini del rispetto dei diritti umani ed economici, in particolare Emergency, l’organizzazione italiana che offre assistenza medico-chirurgica gratuita e di elevate qualità alle vittime dei conflitti e povertà, nei teatri di guerra.

Crediamo che il senso civico debba sempre essere presente e vivo. Opporsi alle logiche del profitto a tutti i costi, sia una conseguenza naturale, pensiamo che gli interessi economici dei grandi del pianeta attraverso grandi poteri, siano la ragione che sta portando il mondo verso una via di non ritorno; guerre, consumo sfrenato del territorio, sviluppo tecnologico senza fine, insensibiltà concreta verso i cambiamenti climatici, sono temi che abbiamo sempre usato nella nostra attività musicale.

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Lorenzo Sabattini – photo by courtesy of  ©️Fabrizio Giuffrida 

Il vostro stile musicale oggi è sempre alla ricerca di nuove sperimentazioni vicine al jazz… forse una libertà di espressione musicale che la tradizione non concede?

La prima canzone che abbiamo ripreso e arrangiato è stata “S’ora chi no tt’ido“ di Maria Carta. Un brano che non abbiamo mai inciso, che però nei primissimi anni abbiamo sempre suonato. Nel 1983 abbiamo rielaborato “Dillu” dal testo di Peppino Mereu, a “Nanni Sulis” conosciuto come “Nanneddu”, che sono stati elementi identificativi del nostro progetto musicale. 

Da allora ad oggi,  il nostro repertorio si è totalmente evoluto, con incursioni sonore verso tutta la musica, afro, jazz, rock e altro. Abbiamo creato una sorta di piattoforma musicale in cui convivono elementi della tradizione e modelli totalmente differenti. 

Ci sentiamo privilegiati in questo, poichè a distanza di quarant’anni i nostri concerti sono animati da brani che oggi sono diventati tradizionali, ma anche da altri che hanno proiezioni di grande attualità.

Il fatto che abbiamo conservato il DNA degli stili del patrimonio musicale sardo, ci permette e ci dà la possibiltà di spaziare nella musica a trecentosessanta gradi; naturalmente, a nostro rischio e pericolo. Prevale comunque l’idea che la musica made in Sardegna può essere tranquillamente esportata in tutto il mondo, a patto però che nel conservare le proprie radici venga riconosciuta come tale. In questo siamo stati pionieri e perciò ci sentiamo di percorrere un “working in progress” che ci spinge e ispira in continuazione.

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Sandro Piccinnu – photo by courtesy of ©️Fabrizio Giuffrida

Musicultura World Festival è stato per anni un vostro progetto musicale molto seguito. Si ha nostalgia del Festival di dicembre, quando la diversità della musica etnica si fonde in armonia, bellezza, incontro, confronto, rispetto, condivisione. Si rappresenta quell’energia e forza vitale che solo certe espressioni musicali riescono a trasmettere. E quest’anno il via alla 31 edizione con qualche novità. 

Il progetto Musicultura Sardegna, che ricordiamo è sovvenzionato dalla Regione Sardegna, ci permette di diffondere momenti di scambio culturale ed arricchimento vicendevole con altri paesi: Europa, Africa, Asia,  etc. Ogni evento musicale fa  riferimento alle culture etniche diffuse in tutto il mondo, una scelta verso tutti quegli artisti che viaggiano con l’intento di portare a conoscenza le tradizioni culturali e musicali del proprio luogo d’origine.

Quest’anno vogliamo ricordare che la nostra attività Musicultura Sardegna ha realizzato il festival Finis Terrae in collaborazione con il Comune di San Teodoro a settembre, in cui si sono esibiti: LamoriVostri, una formazione femminile che porta in giro per il mondo la musica del sud Italia  e Kilema, musicista del Madagascar, molto conosciuto e vero ambasciatore della sua terra. 

Il Musicultura World Festival che da un paio d’anni si svolge in forma itinerante, per questa 31° edizione sarà presente a Martis, Olbia, San Teodoro e Straula. Questa nuova formula propone eventi culturali in vari luoghi espandendo così l’offerta artistica per un coinvolgimento più diffuso del territorio. L’intento è proprio quello di rappresentare la musica etnica come fusione di “armonia, bellezza, incontro, confronto, rispetto, condivisione”. 

Quando è nata l’idea di ospitare validi musicisti di ogni parte del mondo?

Come gruppo sentivamo l’esigenza di rapportarci con le istituzioni in forma più programmata, ed  essere più attivi nella nostra attività concertistica. Con il festival avremmo avuto l’opportunità di confrontarci con musicisti provenienti da varie parti del mondo. Creavamo, quindi, un movimento culturale che nel corso degli anni si affermò come il più importante nel suo genere. 

Costituivamo l’associazione tra il 1989 e il 1990 e contestualmente alla sua nascita organizzavamo il primo festival di musica etnica e jazz ad Olbia.

Per noi è stato molto costruttivo perché ci ha permesso di viaggiare e di stabilire contatti con organizzazioni musicali in tutto il mondo e  porre al centro la cultura della Sardegna. 

Un esempio rilevante é stato il confronto con Peter Gabriel che ci ha ospitato nei suoi Festivals,  definiti Womad. E’ stata una grande opportunità avere collaborazioni importanti con musicisti jazz come Paolo Fresu, Antonello Salis e Eugenio Colombo e con altri artisti internazionali di musica etnica: Aborigeni Australiani, Michel Heupel (Germania), Cotò (Cuba), Gilla Haorta (Brasile,) Kilema (Madagascar), Brendan Power (Nuova Zelanda), Ravy (Inghilterra.

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Gianluca Dessì – photo by courtesy of ©️Fabrizio Giuffrida

Avete cantato e suonato con artisti di rilievo nel mondo della musica: Peter Gabriel, Paolo Fresu, Andrea Parodi … Quale artista ha lasciato tracce nella vostra storia musicale?  Quali ricordi? 

Partiamo dai ricordi… Partecipare ai festivals di Peter Gabriel è stata una cosa straordinaria. Gli eventi Womad sono dei passaggi molto importanti per qualsiasi musicista del mondo. Aver fatto parte, in qualche occasione, di quelle manifestazioni internazionali è grande motivo di orgoglio per noi e per la Sardegna. 

Il  confronto musicale con Peter Gabriel è stato molto interessante. Un musicista che ha influenzato generazioni di artisti e ha dato un enorme contributo alla vita stessa della musica etnica di tutto il mondo. 

Andrea Parodi é stato un musicista che ha sempre manifestato grandissima stima nei nostri confronti, con cui abbiamo condiviso progetti artistici e ci siamo esibiti negli stessi palchi. 

Voce di straordinaria intensità e bellezza che come musicista ha saputo  sperimentare nuovi percorsi come pochi. Artista che dal pop si è totalmente avvicinato alla musica etnica sarda e mediterranea.

Paolo Fresu, Antonello Salis, Eugenio Colombo e altri validi musicisti hanno dato un valore aggiunto ad alcune nostre registrazioni e verso i quali nutriamo grandissima stima e riconoscenza. In quarant’anni il nostro percorso è stato tracciato da tantissime collaborazioni con artisti jazz e di musica etnica, cementando la nostra configurazione musicale fino ad oggi.

La musica etnica come patrimonio universale va tutelato. È l’anima della nostra identità. Come evitarne la dispersione?

Crediamo che la musica etnica non si spegnerà mai! Potrà non essere presente nei media, nelle televisioni o potrà sembrare fuori moda, ma pensiamo che  sempre saprà affermarsi in tutta la sua forma, perché fa parte della cultura, dell’anima di tutte le popolazioni. 

La musica in generale, ciclicamente attinge dalla musica popolare, specie nei momenti di crisi identitarie. Certo mai abbassare la guardia, si deve tutelare per la sua potenzialità identificativa e di appartenenza. Spesso la sua  folclorizzazione commerciale può sminuirne il valore. Paradossalmente, una sua intellettualizzazione può rappresentare un nuovo interesse per i giovani, spostarsi dagli schemi di rappresentazioni tradizionali può essere motivo di riscoperta  e ciò potrebbe avvicinarli. 

Pensiamo ai festivals dove la musica etnica può convivere e confrontarsi con generi musicali  più moderni, per cui le nuove generazioni possono acquisire  le conoscenze delle proprie radici. Nei paesi anglosassoni questo succede molto spesso.

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Alan Pattitoni – Photo by courtesy of ©Fabrizio Giuffrida 

La musica è cultura da condividere. Potremo pensare alla musica come veicolo d’idee con una potenzialità immensa quella divulgativa. Rientra nelle finalità del vostro gruppo?

Certamente la musica è cultura da condividere. In particolare quella etnica  rappresenta la vita dell’uomo fin dalla sua nascita, perciò va preservata e divulgata. Noi, come gruppo, abbiamo sempre inteso l’arte musicale come un veicolo d’idee. Spesso i nostri testi affrontano tematiche legate al sociale, all’ambiente,  all’amore e all’armonia tra popoli e contro qualsiasi forma di violenza e guerra. 

Il tema identitario della nostra terra comunque ha rappresentato un motore divulgativo che ci ha contraddistinti. In Sardegna, spesso, veniamo identificati come difensori del nostro patrimonio culturale.

Il Mediterraneo luogo di origine, d’incontri, di eclettismo e di originalità intesa come distinzione. Un luogo a cui voi spesso fate riferimento, che importanza gli attribuite?

Il Mediterraneo luogo e crocevia di culture che si mescolano e si rigenerano da millenni in cui la Sardegna ha avuto la fortuna di ritrovarsi proprio nel suo centro,  mantenendo una sua forte connotazione identitaria e di grande originalità che esprime nel suo immenso e originale patrimonio culturale.

Come gruppo abbiamo scelto di cantare i testi utilizzando  idiomi di questa terra, con la musica invece abbiamo attinto da tutto ciò che offre il Mediterraneo. Nei nostri brani si percepiscono influenze arabe, spagnole, africane.

Questa è la ricchezza culturale che deve essere raccolta e portata avanti nei progetti a largo respiro e con prospettive internazionali.

La musica multietnica può insegnare che la diversità può essere vista come una infinita risorsa. Che ne pensate?

La multietnicità è un valore aggiunto in tutte le circostanze sociali e di vita… Ne siamo fermamente convinti, nella musica poi, le mescolanze, le commistioni di generi musicali,  le condivisioni nelle diversità, sono   forze  autentiche  dal potere  aggregante che hanno generato la musica in tutto il mondo.

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Photo by Courtesy of ©Archivio Cordas et Cannas

Una lunga carriera musicale, negli anni avete mostrato coerenza per linguaggi sonori, per significati e temi proposti. Lo scorso anno avete raggiunto un traguardo importante: 40 anni di musica. 

Sì, abbiamo oltre quarant’anni anni di attività live e siamo la più longeva formazione della worldmusic sarda con un’attività concertistica che ha portato la band in varie parti del mondo: Australia, Stati Uniti, Sud America e Nord Europa. È una sensazione indescrivibile per noi.   

La forza, ci viene trasmessa dal pubblico  come energia  che raccogliamo durante i concerti  dove si crea un contatto diretto con chi ci ascolta. 

Il gruppo esiste ancora, in tutti questi anni, grazie alla gente che lo apprezza e gli riconosce: di aver tutelato le nostre radici identitarie e di aver saputo infondere valore aggiunto alla musica sarda con ricerche su sonorità più  moderne ed internazionali.   

Il nostro percorso musicale è stato un crescendo di melodie e arrangiamenti, strumenti e musicisti. Oggi possiamo affermare che abbiamo saputo mantenere una certa coerenza artistica che ci fa sentire in piena armonia con noi stessi. Naturalmente non spetterebbe a noi affermarlo…

Un ultima domanda per concludere, avete in cantiere qualche nuovo progetto musicale?

Terra Muda è un brano di cui abbiamo realizzato un video, pubblicato sul nostro canale You Tube, nell’estate del 2007. Una canzone che parla della necessità di cambiare strada nell’utilizzo delle risorse del nostro pianeta, ma anche di noi stessi che dobbiamo prendere coscienza per la salvaguardia dell’ambiente, per lasciare un luogo vivibile alle future generazioni. Dal progetto video è stato realizzato un cd con altri brani, che ora suoniamo nei palchi dove ci esibiamo, nella speranza di poterlo pubblicare al più presto. 

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©️Riproduzione Riservata 

 

[Articolo pubblicato il 15 Dicembre 2019 su Olbia.it]

Un filo che intreccia umanità: l’opera “Noi e il mondo”di Gabriella Locci

Per essere nella storia bisogna fare storia, non uniformandosi al già fatto, ma con un’opera nuova”. Parole dell’artista sarda di Ulassai, Maria Lai, che rivelano l’essenza dell’arte intesa come partecipazione attiva nel fluire del tempo, scandita dal suo costante rinnovarsi alla scoperta di nuovi linguaggi.

Il valore semantico di in/nov/azione ci lega al lavoro di un’artista sardaGabriella Locci che alcuni giorni fa, ha presentato – insieme a Dario Piludu e con la collaborazione dell’AES – Associazione Editori Sardi – l’opera “Noi e il mondo”, in uno dei numerosi incontri culturali inseriti nell’evento tenutosi a Tempio Pausania “Qui c’e Aria di Cultura”  per  L’Isola dei Libri, mostra libraria dell’editoria sarda.

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Courtesy of ©Archivio AES ph. Salvatore Taras

L’opera, espressione di arte relazionale e partecipativa, evoca quella che Maria Lai realizzò nel settembre del 1981 “Legarsi alla montagna”. L’artista coinvolse l’intero paese di Ulassai facendo legare case e montagna con un lunghissimo nastro celeste.  Ma, l’opera di Gabriella Locci si diversifica e si rinnova, presenta un suo peculiare carattere.

L’artista

Gabriella Locci di origini cagliaritane è la direttrice di Casa Falconieri, centro di ricerca per le arti visive: incisione, stampa digitale e video. 

Il suo linguaggio espressivo raffigura una dimensione esistenziale in cui si  sofferma a riflettere sui significati dell’esistere: il rapporto dell’uomo con gli altri, con le cose, con il mondo, che traduce facendo affiorare quell’imponderabilità, ineluttabilità, quel lato oscuro che lega l’esistenza di ogni individuo a nuove possibilità e significati.

 

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Atlantica 4,  2005 – Courtesy of Archivio Gabriella Locci

Nelle sue opere sono presenti segni di vita, interferenze, ferite, punti di fuga tra  campiture chiare: respiri di luce o di pensiero che si rifrangono, collegano, inducono a  scelte e scon/volgono.  Tracce quali sofferenze ataviche – che ora, rivestite di forza e passione, aprono varchi a nuove sfumature,  alterità, luoghi mentali.

Nell’atto dell’incisione, l’impressione finale può mutare la forma. I colori (dominanti rosso e nero) si estendono verso nuovi spazi, si creano nuove fessure – alternative dell’esistere –  e si aggiungono nuove “pieghe”, nuove esperienze. 

Da uomini in cammino siamo resi automi dall’incertezza che si percepisce come ineluttabile e imponderabile ma che si rivela come possibilità (Husserl). L’uomo è un semplice modo d’essere che mostra una “determinata situazione” soggetta a “deviazioni”, intese come opportunità.

Se ci focalizziamo su un percorso di vita possiamo visualizzarla come un’insieme di  esperienze che, sottratte alla volontà dell’uomo, si offrono nel loro accadere  con nuovi significati, a volte incomprensibili, che poi l’azione del tempo le rende intellegibili, ma sono sempre possibilità.

Courtesy of ©Archivio AES ph. Salvatore Taras

L’opera “Noi e il mondo”

A Tempio l’artista ha presentato la sua opera performativa “Noi e il mondo”,  dove la fruizione dell’opera si è definita nell’interrelazione tra i presenti (arte  partecipativa): un’esperienza socio-culturale di condivisione di segni letterari della nostra identità, per acquisire o fortificare la consapevolezza del loro valore.

L’opera si presenta come un libro antico, una pergamena arrotolata, realizzata in stoffa, dipinta dall’artista con colori e tracce che alludono alla terra di Sardegna.

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Courtesy of ©Archivio AES ph. Salvatore Taras

La tela è tempestata di spazi e pennellate di colore, intenso o sfumato che comunicano una tensione emotiva tracciata da giochi cromatici che prevalgono, si “staccano ”, emergono. 

Il rosso, quale macchia di energia, rimanda al temperamento della gente dell’isola che per il suo stato d’insularità sembra “ripiegarsi” su sé stesso per rafforzarsi, intensificarsi. Un elemento simbolico che allude alla forza degli abitanti, che non solo hanno difeso  le proprie coste,  ma  hanno dovuto affrontare una sfida maggiore: l’incognita di un mare che non sempre si è mostrato amico. 

Doppie sfide,  dove la forza atavica diviene coraggio, perseveranza e ostinazione. Alla fine, orgoglio, per aver superato traversie indescrivibili.

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Courtesy of ©Archivio AES ph. Salvatore Taras

Tra i segni compaiono frasi o #scritturebrevi (codificate dalla linguista Francesca Chiusaroli) dei nostri scrittori Antonio Gramsci, Grazia Deledda, Sergio Atzeni, Giulio Angioni e altri  che ci hanno risvegliati dal torpore e hanno trasmesso forma e sostanza alla nostra coscienza identitaria.  Sono le nostre “radici”.  Esse non temono salinità del mare né la forza aggressiva del mistral che genuflette alberi, ma che non li spezza, perchè  amano abbracciare il vento che ruba superfici, modificando spazi.

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Courtesy of ©Archivio AES ph. Salvatore Taras

La scrittura ci lega al nostro passato identitario,  come questa tela filiforme unisce tutti nel presente. Ora, leggiamo le frasi, le comunichiamo l’un con all’altro, le condividiamo, le “possediamo” insieme. L’individualismo viene rimosso e sostituito da una collettività che collabora e comunica, protagonista della performance.

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Courtesy of ©Archivio AES ph. Salvatore Taras

La tela continua a srotolarsi. Viene dato un lembo a ciascuno dei presenti che leggerà una frase ad alta voce, inizialmente solo, poi tutti insieme in una voce corale. Quella coralità che rinforza e avvolge voci: come l’incalzare del vento, che esprime la sua cultura immateriale con una sonorità diffusa tra fessure, grotte e antri. Un suono primordiale, come le voci crescenti e decrescenti nel salone dello Spazio Faber.

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Courtesy of ©Archivio AES ph. Salvatore Taras

Le parole lette sembravano riflettere quell’intensità, quella vis (si preferisce il valore semantico della parola latina inteso come forza, vigore, valore) propria dei segni sulla tela. Si sentivano addosso. Divenuti  pezzi di tela, la scrittura  veniva  deposta nell’anima stordita dallo sciabordio del tempo passato.

Una performance di arte relazionale molto suggestiva, in un periodo dove la solitudine e l’individualismo sembrano crescere in modo esponenziale.  L’artista  sente  e propone il valore della condivisione come presenza, acquisizione identitaria,  lettura condivisa.

Maria Lai e la fiaba

Maria Lai, – di cui quest’anno si celebra il centenario della nascita, – per realizzare la sua opera di arte relazionale o “scultura sociale” Legarsi alla montagna”,  s’ispira ad  una fiaba, tramandata oralmente, elemento del nostro patrimonio culturale immateriale.

La protagonista, una bambina,  che si  reca  nella montagna vicina per portare il pane ai pastori. Ma improvvisamente nella zona si abbatte un temporale e i pastori con i loro greggi  trovano rifugio in una grotta. La bambina, che stava per entrare dentro la grotta, viene attratta da un nastro celeste sospinto da giochi di vento. Incuriosita si allontana per andare a prendere quel nastro che aveva colpito la sua attenzione. Quell’andar via dalla grotta rappresenta la sua salvezza, perché pochi minuti dopo il soffitto della grotta crolla con i pastori all’interno. 

Legarsi alla montagna

Il nastro azzurro con cui Maria fa legare le case del paese, di porta in porta, ha una finalità: dissolvere inimicizie,  (come lei stessa dirà “storie di malocchio, di furti, di drammi e rancori”).

Dopo qualche timore, tutto il paese si mostra disponibile a collaborare. Il “filo” ora “tesse” case in un “in/camminarsi”comunitario.  Diviene simbolo di unione e di consapevolezza/ verità che la condivisione permette di affrontare difficoltà, paure con intensità differenti.

Il  sentimento di rispetto e amore tra le case viene espresso con un elemento semplice, il pane.  Un’allusione all’istante eucaristico che racchiude il principio dell’amore universale.  Un pane sarà annodato tra le case segnate da fratellanza, reciproco rispetto e amicizia. “Quando gli uomini condividono il pane – diceva Jean Cardonnel – condividono la loro amicizia”

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Maria Lai, Legarsi alla montagna 1981 (particolare)

Il passaggio del nastro viene vissuto come “un’attesa  silenziosa – ricorda Maria Lai – quando si solleva ad arco dalla montagna ai tetti delle case, sembra un getto d’acqua. Si scatenano urla, battimani, suoni di clacson, canti e balli fino a notte inoltrata.”

Il nastro, che a Maria evoca l’acqua, sembra esprimere una catarsi collettiva. Una purificazione. Da quel momento, il paese sconosciuto si ritrova inserito nella storia sociale, mostrando un progresso di consapevolezza e coscienza civile che nessuna forma politica sarebbe riuscita a realizzare.

Un’esperienza che ha segnato il paese di Ulassai e gli abitanti che presero parte al progetto, s’inscrive nella memoria storica mostrando un valore inestimabile perché soggiace ad un’intuizione mai pensata in precedenza. L’esperienza di Gabriella Locci, pur con rimandi a “Legarsi alla montagna”, è caratterizzata dal suo incessante ripetersi nell’infinito presente e assume valore  più con/temporaneo.

 

lyciameleligios

©Riproduzione Riservata

Imaginibus | Verità s/velata nelle opere di Rosalba Mura

Ma forse anche le cose come stanno / hanno un ordine

tanto più vasto / da uscire dall’inquadratura

così il massimo di reale / combacia con l’astrazione pura

come quando la notte / essere e non essere / niente / si equivalgono”

Silvia Bre*

In Italia, ormai da anni, si assiste ad una riqualificazione  e valorizzazione di edifici urbani di proprietà del clero.  Oratori, palazzi e chiese – parte del nostro immenso patrimonio culturale di incomparabile bellezza – mutano la loro funzione originaria, per divenire luoghi dove ospitare mostre sui nuovi linguaggi artistici o eventi culturali.

In sinergia con le amministrazioni locali,  associazioni culturali o privati il quartiere  assume valore ponendosi promotore di cultura a 360 gradi.

Uno di questi luoghi è l’Antico Oratorio della Passione depositario di bellezza che resiste il tempo, costruito alla fine del ′400. Adiacente la Basilica di Sant’Ambrogio, nel cuore pulsante di Milano, – città sempre più cosmopolita ma che continua a distinguersi per eleganza  e raffinatezza, – lo spazio ospiterà dal 12 al 17 novembre “Imaginibus” una mostra collettiva di  arte contemporanea a cura della Jelmoni Studio Gallery. 

La Galleria di Elena Jelmoni,  fondata nel 1995, lavora in un centro culturale tra i più attivi di Berlino, Londra, Milano. Si distingue per le collaborazioni con l’Accademia di Brera e per la sua costante attenzione a personalità artistiche emergenti e ai nuovi linguaggi espressivi dell’arte contemporanea.

Un Galleria prestigiosa, con esperienza pluriennale, fondata con artisti di rilievo come Denis Santachiara, Bruto Pomodoro, Eugenio Degani, Marina Burani, Graziano Pompili, Fondazione Pomodoro e altri.

Nella mostra “Imaginibus”, tra gli artisti di diverse nazionalità che vogliamo ricordare Paola Colombo, Paolina Ponzellini, Ludovica Chamois, Pino Chimenti, Stefano Robiglio, Eleonora Scaramella, Elisabetta Mariani, Roberto Marrani, Francesco Loliva, Liubov Fridman, Guanzhong Ge, Danny Johananoff, John Kingerlee, Sal Ponce Enrile, Carlos  E. Porlas M. Gabriela Segura, Emanuel Shlomo, Mark Stapelfeldt, Hiroshi Wada, David Whitfield, Judy Lange, Maria Scotti, sono presenti due artisti di origine sarda.

Il primo artista è Gianfranco Angioni nato a Cagliari che lasciata l’isola si trasferisce in continente. Ma la sua anima serberà nostalgia per la sua terra. Lascerà Milano per stabilirsi a due passi dal mare, in Liguria.

Sappiamo come il mare crea dipendenza, ma a seconda dello sguardo può evocare il concetto di prossimità e legame. Alleggerisce lo  sconforto e inebria i ricordi permanenti, che divengono più vividi.

Gianfranco Angioni è un’artista sperimentale, i suoi linguaggi sono sconfinamenti ora sull’astratto, ora sul figurativo.  A ciò si aggiunge una raffinata cura degli esiti cromatici.

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Rosalba Mura – Courtesy of artist

La seconda artista sarda è Rosalba Mura, originaria di Barumini, ma olbiese di adozione.  Formatasi all’Accademia di Belle Arti di Sassari, inizia il suo percorso artistico con l’utilizzo di  linguaggi legati alle  prime avanguardie. 

Oggi persegue la sua ricerca estetica verso un’espressività essenziale  tesa alla de/costruzione presente in alcune correnti artistiche che si svilupparono intorno agli anni sessanta come la Minimal Art e Conceptual Art.

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©Cubit, 2019 – acrilico su tela 20×20 – Courtesy of Rosalba Mura

Rosalba Mura sembra mostrarsi sensibile alla mutevolezza o vulnerabilità del reale e persegue nelle sue opere più recenti la rappresentazione di un’alterità che appare “fluida”, fuggevole. Il focus delle sue indagini è una figura geometrica basica il quadrato, struttura semplice, che sembra aver perso la sua perfezione numerica. Quasi a voler  condividere il pensiero di un grande astrattista italiano Luigi Veronesi  che affermava come i rapporti numerici della figura fossero “non immutabili”. Il significato sfugge ad un significante (forma) ingannevole o viceversa? “La capacità di errore dell’uomo è un guasto biologico esteso” diceva il grande Fabio Mauri.

Le ideologie mutano, strutturate dal tempo. La verità come la qualità divenute inafferrabili esseri fluidi, sembrano soggette ad ad[data]mento, a far/si  tempo, si decompongono per ricomporsi altre nel loro frammentarsi e suturarsi/rinsaldarsi o stratificarsi.

Potremo  ripercorrere le intuizioni illuminanti del grande Jackie Derrida e Zigmunt Bauman che pur nella loro diversità ci aiuterebbero a cogliere affinità, ma dovremo rimandare ad altri spazi la pluralità di riflessioni che si evidenziano nell’arte concettuale di Rosalba Mura per delimitare incastri logici che hanno usurato congiunzioni esistenziali.

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©Peace n marzo 2003 – acrilico su tavola 65×65 – Courtesy of Rosalba Mura

La mostra collettiva ha titolo “Imaginibus”, tradotto dal latino imago, imagĭnis che significa immagine nel risultato di forma esteriore di un oggetto come viene percepita attraverso il senso della vista o riflessa, ad esempio, in una superficie dando luogo ad una dualità di resa realista (oggettiva) o percepita (soggettiva).

Qui si vuole enfatizzare con indagini e percorsi degli artisti uno specifico  campo d’indagine relativo al ritratto nell’arte  della nostra contemporaneità, ponendo l’accento non solo su chi esegue l’opera ma su chi ne fruisce con un gioco di rimandi tra  rappresentazione, percezione e  realtà spesso soggettivata, quindi filtrata da analisi introspettiva o più inconscia.

La raffigurazione di questo genere si storicizza, condizionata dal mutare delle condizioni politiche e socio-economiche, dai conseguenti disagi esistenziali di una umanità in cammino che hanno influito sui linguaggi artistici modificando il modo stesso di percepire la realtà – ora più soggettivo – da mutare le caratteristiche fisionomiche dell’uomo.     

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©Interior Dimensional Wormhole 2, 2019 a. su tela 42×42 – Courtesy of Rosalba Mura

Ogni artista in mostra propone il suo “sentire” che a noi potrebbe sembrare incomprensibile ma, se si affronta con il linguaggio dell’arte, appare nella sua nitidezza.  Ognuno si esprime con la propria peculiarità distintiva ora  con  violenza cromatica,  ora si predilige il segno semplice estraneo al decorativismo,  oppure si altera  la superficie della tela con strumenti, o si distorce – lavorando sul subconscio – la fisionomia dei volti, o con estremizzazioni geometriche.

Ma perché questa esigenza? perché questi linguaggi espressivi? Se si guarda  alla storia dell’arte dalla fine del secolo scorso ad oggi il ritratto in senso tradizionale sembra non esistere. Le cause di questo “frammentarsi” sono attribuibili  alle condizioni socio-antropologiche che l’essere umano ha vissuto:  quali l’industrializzazione e l’avvento della psicanalisi, la diffusione della fotografia, il potere dilaniante della guerra illustratoci ad esempio dall’accentuato  cromatismo e successive alterazioni/deformazioni degli espressionisti (pensiamo al celebre Urlo di Edvard Munch) la violenza e astrusità dei campi di concentramento che creavano alienazione, le scoperte tecnologiche e la conseguente moda dei selfie.

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©Trittico BN – 2015 acrilico su tela – 3 pz 20×20 – Courtesy of Rosalba Mura

Possiamo quindi concludere che da ogni angolazione si osservi il reale, il rapporto pensiero e mondo, nel sua sintesi artistica, è e rimarrà sempre “proiettivo”, come diceva Fabio Mauri, di una “proiezione con contenuto, (di memoria, fantasia, di cultura) prevalentemente autonomo e produttore di linguaggio ulteriore, di significato inedito, nuovo”. [Intervista di ABO a F.Mauri]

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©Riproduzione riservata

[* Silvia Bre, La fine di ques’arte – Giulio Einaudi Editore]

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©Interior Dimensional Wormhole, 2019 – acrilico su tele  41×41 – Courtesy of R. Mura 

 

 

 

Atelier Bolt | Segni dell’anima: l’arte astratta di Jean Córdova

Accadrà ancora, di nuovo

l’immagine frana nella luce

succede sempre, senza scampo

nulla torna mai intero. 

 

Italo Testa 

 

Nel cuore dell’Europa, in quella zona della Svizzera orientale definita Cantone dei Grigioni, dove la natura si veste di abbracci tra acque lacustri, montagne di luce, cieli che filtrano sogni, in un dinamico centro d’arte, l’Atelier Bolt di Klosters, è in corso la prima solo exhibition dell’artista tempiese Giancarlo Orecchioni, in arte Jean Córdova.

La retrospettiva a cura di Adrian Schütz, storico dell’arte, è in mostra fino al 15 novembre 2019,  espone le opere di un lungo arco temporale: dal 2009 ad oggi. Questo, permette di analizzare  il lungo percorso evolutivo e di ricerca del giovane artista.

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©️Archivio Atelier Bolt

La sede espositiva, di proprietà dello scultore Christian Bolt ha una funzione rilevante nel suo porsi centro di promozione e sostegno dell’arte. Infatti, con cadenza annuale si allestisce una mostra dedicata ad un giovane artista emergente, ovvero che sia riuscito ad imporsi con il suo caratterizzante linguaggio espressivo tra quelli complessi e polimorfici dell’arte contemporanea.

Christian Bolt è uno scultore molto apprezzato, celebre per le sue intense sculture. Tra i suoi estimatori troviamo il grande cantante pop Elton John, che  ha  acquistato alcune opere per la sua eterogenea e ricca collezione d’arte. 

Jean Córdova, l’artista scelto per l’anno 2019, vive tra la Sardegna e la Lombardia, anche se da alcuni progetti sembra mostrare un legame indissolubile con la sua città natale, Tempio Pausania, in Gallura. 

Luogo con un caratteristico centro storico, dove i frammenti di quarzo, dal granito delle case,  sembrano brillare a seconda dell’inclinazione dei raggi solari. Ora riflettono, ora assorbono  luce, creando atmosfere dai forti contrasti: gioia o malinconia.

Ma ciò che pervade è una sensazione di atemporalità, di pacatezza, di misura, di silenzio, in spazi preposti alla meditazione e al riposo. Da quel piccolo centro si origina quella riflessione profonda che diviene paradigma e struttura del linguaggio artistico di Jean Córdova. 

Dopo aver frequentato il liceo artistico nella sua città natale, l’artista continua la formazione a Carrara iscrivendosi all’Accademia di Belle Arti e in seguito allo IED – Istituto Europeo di Design – di Milano. In quegli anni di peregrinazioni incontra lo scultore Christian Bolt che sarà una figura di riferimento per la sua “crescita artistica e umana”.

Oggi Jean Córdova è un’artista stimato, che ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Presente in mostre personali e collettive in varie regioni d’Italia dal 2008.  Qui, si ricorda tra gli artisti che hanno rappresentato la  Regione Sardegna nel Padiglione Italia di Torino, in occasione della 54 Biennale di Venezia.

Da un primo sguardo d’insieme alle opere pittoriche  di Jean Córdova è possibile evidenziare la sua vocazione astratta, (anche se lui non ama definirsi astrattista) tendenzialmente aperta a continue sperimentazioni, non legata ad alcun elemento figurativo. Le forme nascondono  tracce di vita da cui attingono e divenute simboli  ne abbracciano pensieri, concetti. 

Un’arte concettuale, introspettiva che sembra riflettere l’altro da sé che appare molto vicina all’interessante avanguardia americana degli anni ‘50, definita Espressionismo Astratto. Aldilà della sgocciolatura o action painting inventata da Jackson Pollok, o del clima di protesta che aveva determinato la nascita del movimento, qui sembra si assista alla presenza di una certo gesto spontaneo delle pennellate,  ad ampie stesure del colore, semplificazioni,  scelte cromatiche più vicine allo spirituale dell’arte di Vasilij Kandinsky dove il colore  assume un  valore semantico.

Le opere del Córdova oltrepassano la sfera della fisicità, del realismo, esprimono concetti/idee che sembrano disporsi  in una rete di ricordi associativi. Ogni idea ne richiama un’altra.

La relazione come struttura del  conoscere è un campo d’indagine della filosofia del ‘900, l’artista sembra supportare questo indirizzo presentato in  varie serie con elementi interconnessi  tra loro, permettendo di cogliere quell’unità semantica che altrimenti non potrebbe esser colta.

 

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Serie Aegritudo Fulgura #2 – Courtesy of Jean Córdova 

Una serie realizzata nel 2015 s’intitola “Aegritudo”. Mostra una esperienza estetica che riesce a dare forma all’imponderabile. Il titolo è una parola latina che significa sofferenza dell’anima, lacerazione, strappo.

Sulla tela segni di margini, confini, ripetizioni, ma anche legami, contatti. Lo spazio appare circoscritto. Si può leggere un certo dinamismo e prospettiva. Il cerchio è la figura/simbolo che prevale. Si stacca dalla tela. Un malessere che incide, lascia traccia ma sembra originare una luminosità circoscritta differente. Un varco, una potenzialità. L’alternativa, un mutare.

Sisifo invece è un’opera – all’interno della stessa serie, sulla sofferenza dell’anima -che richiama un mito della Grecia antica.  L’uomo più astuto tra i mortali, nel Regno dell’Ade  vive la ripetizione eterna di una stessa azione, quasi un’automa, privato della sua volontà, è costretto a trascinare un pesante masso lungo un pendio collinare in modo ciclico (raggiunta la vetta il masso cade a valle e Sisifo lo ritrascina a monte).

Un’immagine dell’uomo contemporaneo, soggetto a corsi ricorsi iconicizzati, un silente urlo di dolore: quella ripetitività diviene immobilismo, impedisce un’evoluzione.

Anche in questa tela sembra che l’oscurità e i lembi della lacerazione lascino spazio a significati diversi. Una potenzialità inespressa rimane sospesa. Gli accenti cromatici ora più sfumati, rosso e viola. La luce una verità di presenza, di possibilità. La ripetitività aliena forza  che devasta, segrega.

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Serie Rerum Naturae (Corpora Rerum) – Courtesy of Jean Córdova 

La necessità di un’indagine metafisica è presente nell’opera “Rerum Naturae” (Corpora Rerum)  tradotto dal latino la “Natura delle cose” – i corpi delle cose. La scritta latina potrebbe ricondurci al poema lirico scritto da Lucrezio, De Rerum Natura, nel I sec.a.C. Forse acquisisce l’idea di Lucrezio che la natura è materia ma anche  vuoto? Nell’opera “Incertus” l’indagine viene spostata verso le categorie di tempo e spazio. 

Continua nelle sue ricerche filosofiche ora più impregnate di esistenzialismo. L’uomo non è solo essere ma esser/ci, e in quanto esistenza sente l’esigenza d’indagare sull’animo umano e sui tormenti della contemporaneità.

Un’opera s’intitola “Acedia”. “Una brutta bestia” che immobilizza l’essere umano e se analizziamo il disegno sembra visibile un volto stilizzato di un animale.

Colpisce per i segni scuri, di un nero intenso e cupo nella parte bassa, che lentamente virano verso un rosso Persia o veneziano nella parte più alta. Una via di fuga determinata da una fonte di energia? dall’amore? Da una rinnovata spiritualità? O semplice consapevolezza?

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 Serie Aegritudo, Acedia 2015 – Courtesy of  Jean Córdova 

Dal greco akedia: malinconia da spirito di solitudine, da mancanza d’interesse, da noia. E citiamo l’esistenzialista, intellettuale Jean Paul Sartre che ne parla in un suo capolavoro La Nausea, sostenendo che l’acedia si identifica con la nausea, il non senso che trasforma l’essere fino allo smarrimento e depressione. Legato all’insoddisfazione che si cronicizza, nell’individuo crea fratture e in un percorso di vita, argina o delimita sempre più lo spazio esistenziale.

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Serie Come Vaganti, Ad Oriente 2016 – Courtesy of Jean Córdova 

In una serie del 2016 “Come vaganti” sembra sviluppare concetti di libertà spazio-temporale. “Vagare” è un andare senza meta, quasi “un brancolare nel buio” avvolti dal mistero del destino, quel filo che lega la vita alla morte.

Si tracciano percorsi emotivi, esperienze, sensazioni, materia che l’artista traduce e vivifica attraverso il suo linguaggio espressivo. Sotteso un monito che sembrerebbe  racchiudere un celebre proverbiò che dice  “se non sai più dove stai andando, ricorda da dove vieni”. Ma si potrebbe alludere all’eterna inquietudine dell’essere umano che alimenta l’energia vitale e creatrice?

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Serie Oblomov, #5 – Courtesy of Jean Córdova 

Nella serie “Oblomov” del 2016 la forma diviene margine, ha funzione decorativa. Assistiamo a pennellate piatte, larghe che mostrano un ritmo simmetrico.  Lo spazio diviene luogo esperienziale da riempire di eventuali finalità/contenuti.

 In alcune tele la presenza di sottili segni verticali possono alludere alla velocità. Forse la fugacità della vita, tra incidenze che plasmano significati e formano l’essere umano.

Ma chi era Oblomov e che rapporto ha con le opere dell’artista? Qui si potrebbe evocare il personaggio del celebre romanzo di Ivan Gončharov, capolavoro della letteratura russa.

Oblomov era un uomo ricchissimo che viveva una vita “sospesa”: un continuo rimandare il momento del suo vero e autentico vivere. Viveva di riflessi, delegando, oziando. Una vita intrisa di paure, idee preconcette e pregiudizi. Una triste vita a margine del fluire dell’esistenza. Nelle tele lo spazio centrale libero, esprime l’assenza,  potrebbe contenere una sintesi esperienziale, sembra preposto ad accogliere.

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Un grembo gonfio di nuvole d’oro, o grigie, e nere (Serie In forme) Courtesy of Jean Córdova 

Dopo l’indagine sullo spazio esistenziale dove si aggira l’essere nella sua affannosa  ricerca, la serie “In forme 2018” presenta alcune opere con cromatismi che evocano plasticità, in altre sembra si attribuisca alle pennellate una certa tensione dinamica o si cerca di definire lo spazio con piccole campiture di colore tipo taches (macchie).  

Nell’opera presentata sopra vi è un percorso che si snoda all’interno di un campo cromatico giallo che trasuda energia. Un volgersi verso, un tendere a,  si focalizzano   passaggi che implicano stadi necessari per raggiungere l”in forma”. Ovvero, nella vita di ogni individuo assume valore fondante l’esperienza che ci forma e ci definisce nell’essere.

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Serie Labirinti: Labririnto + Case + Acqua, 2009 Foto G.Pedroni Courtesy Jean Córdova 

In Jean Córdova, o almeno in queste opere analizzate e visibili in mostra, appare inscindibile il binomio arte e filosofia. Infatti è possibile delineare una propensione ad una indagine  metafisica e esistenziale dove “l’uomo è natura che prende coscienza” – per utilizzare le parole di un grande libero pensatore Élisée Reclus, –  s’interrela con lo spazio ed è caratterizzato da quell’anelito esistenziale che lo conduce verso un cercare infinito.

Sono presenti dei passaggi che inducono ad una consapevolezza maggiore del desein (esserci) di Martin Heidegger: l’uomo è da considerarsi non solo nel suo essere ma con una finalità quella del cercare, che implica dei percorsi e definisce l’esser/ci.

Si può ritrovare inoltre quella soggettività che tradotta come energia e movimento da Jackson Pollock, ha reso visibili ricordi, pensieri, sfumature dell’animo. Il piacere estetico potrebbe esser il “riflesso filosofico della verità” come avrebbe detto lo storico dell’arte Michel Seuphor mentre la natura della forma è l’incarnazione della sua stessa vita.

Un artista che scruta con accuratezza il suo presente contemporaneo, da cui enfatizza quel passato che struttura l’istante  vissuto e nella sua ricerca di resa d’assoluto o di tensione universale del suo rappresentare,  permette di smarrirci tra meraviglia e stupore: quale la risacca dell’onda nel suo rimaner sospesa. 

Quell’istante trascurabile, che noi a stento riusciamo a vedere assume un’importanza straordinaria. È la tregua che ritempra l’animo in ascolto al respiro della vita. Il luogo  che permette di ritrovare unicità, semplicità, verità. Sì, perché negli spazi creati da frammenti, negli istanti sospesi, lì palpita la vita nella sua potenzialità. Un decostruire per ridefinirsi e aprire la mente verso nuovi flussi di pensiero.

“Ogni persona che vive nel ventesimo secolo dovrebbe  sapere che la perfezione fisica è che la conoscenza quantitativa o scientifica è semplicemente informazione o un assoluto di perpetua incompletezza, e che l’estetica è quasi completa o perfetta come possiamo, essendo l’unica forma qualitativa di conoscenza che possediamo”. (Michel Seuphor – Abstract Painting Lauren Edition)

 

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©Riproduzione Riservata

 

(Articolo pubblicato su Olbia.it il 3 novembre 2019)

MAN | Arte Sarda nei nuovi percorsi espositivi : Anna MARONGIU e Collezione Permanente

Nelle ultime stagioni espositive, il Museo MAN  ha approfondito il ruolo della Sardegna, crocevia nell’area mediterranea,  “di flussi culturali, sociali e politici”.  Oggi propone due nuovi percorsi museali per riallinearsi a quello spirito che da sempre lo contraddistingue e che possiamo sintetizzare con due parole: indagine/ricerca e valorizzazione, metodi che hanno permesso di implementare la collezione permanente e promuovere opere di talentuosi artisti sardi.

Assistiamo, dunque, ad un nuovo sguardo sulla contemporaneità per mezzo di quel passato che ci definisce, delinea la nostra identità culturale e ne segna l’evoluzione estetica con due mostre dedicate all’arte sarda del Novecento.

La prima, un’importante retrospettiva a cura di Luigi Fassi,  con opening venerdì 8 novembre 2019 fino a domenica 1 marzo 2020, su Anna Marongiu (Cagliari 1907 – Ostia 1941), una grande artista scomparsa prematuramente a soli 34 anni, che ha lasciato un interessante corpus di opere, nonostante la vita abbia reciso troppo presto i suoi sogni.

Anna Marongiu per Il Circolo Pickwick – Courtesy Museo MAN

In esposizione avremo tre cicli di illustrazioni dedicati ad alcuni capolavori della letteratura inglese e italiana: la serie completa delle tavole di Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare del 1930, le illustrazioni de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni del 1926 e le tavole de Il Circolo Pickwick di Charles Dickens  del 1929.

L’elemento più prezioso della retrospettiva è  quest’ultima serie di tavole provenienti dal Charles Dickens Museum di Londra. Esposte per la prima volta in un istituzione museale, dopo ben novant’anni dalla loro realizzazione. Per la gioia di grandi e piccini, le 262 tavole realizzate a inchiostro e acquarello raffigurano le scene e i protagonisti del primo romanzo, capolavoro della letteratura inglese, che il geniale Charles Dickens scrisse nel 1836 “The Pickwick Papers”, pubblicato in fascicoli secondo la consuetudine del tempo.

Oltre all’esposizione è possibile vedere un breve docufilm  sull’artistarealizzato dal MAN e Film Commission Sardegna in collaborazione con il Charles Dickens Museum – con la regia di Gemma Lynch.  Inoltre, correda la  mostra il catalogo edito da Marsilio Editore.

Anna Marongiu

Ma chi era Anna Marongiu? Un’artista molto riservata, come si racconta. Devota alla sua arte, al suo disegnare. Era una persona curiosa e attenta alla realtà che la circondava. Grande osservatrice dei caratteri umani che traduceva in segni definiti, precisi, puliti.

Nelle sue delicate e raffinate illustrazioni,  ogni tratto sembra scorrere fluido senza incertezza,  legato al successivo con una straordinaria lucidità e immediatezza del gesto, del segno, per risultati equilibrati, armonici.

Una plasticità ricercata con resa tonale ben sfumata. Capace di penetrare l’animo dei personaggi raffigurati, si mostra abile nell’introspezione  psicologica sì da definire paradigmi caratteriali del genere umano che traduce con vigore espressivo. L’immediatezza visiva coinvolge e chiarifica le minuziose descrizioni dello scrittore e come per magia ci si ritrova protagonisti del racconto. 

Anna Marongiu si forma presso l’Accademia Inglese di Roma.  Ma fin da subito mostra “grande capacità di sperimentazione alle molteplici tecniche come il disegno, l’acquaforte, l’olio, il bulino. Il suo registro linguistico, caratterizzato da una forte espressività del segno, si muove tra l’umoristico e il drammatico, il comico e il mitologico, trovando originalità e vigore in tutte le tecniche da lei adoperate”.

La Galleria Palladino, importante centro d’arte di Cagliari, ospitò una sua prima mostra personale che in seguito le permise, nel 1940, di partecipare  alla Mostra dell’incisione italiana moderna di Roma.

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Anna Marongiu per Il Circolo Pickwick – Courtesy Museo MAN

Sorprende come oggi questa artista fosse un po’ dimenticata. Purtroppo sembra un destino comune a molti. Ancora tanti gli artisti sardi,  con linguaggi espressivi originali che meritano di esser  valorizzati.

L’ombra del mare sulla collina

La seconda mostra – che inaugura l’8 novembre 2019 ma termina domenica 12 gennaio 2020,  a  cura di Luigi Fassi e Emanuela Manca  presenta un titolo di evocazione surreale che vagamente potrebbe ricordarci l’eccentrico ma incantevole artista Salvador Dalì “L’ombra del mare sulla collina”,  vede esposte alcune opere della ricca e poliedrica Collezione Permanente del MAN tra disegni, pitture, sculture e film.

Il percorso espositivo ricostruisce le vicende artistiche del Novecento sardo attraverso alcune opere, tra le più rappresentative della collezione, e prosegue fino al presente instaurando uno stretto dialogo con diversi autori contemporanei.

La mostra prende nome da un’opera di Mauro Manca (Cagliari 1913 – Sassari 1969), – artista brillante, poliedrico, inquieto, – che segna un preciso momento storico del secondo dopoguerra, quando anche la Sardegna sembra aprirsi  ai linguaggi dell’arte moderna.

 

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Mauro Manca, L’ombra del mare sulla collina, 1957 – Courtesy Museo MAN

L’eterogeneità della storia artistica sarda, si palesa in confluenze e rimandi tra i vecchi linguaggi legati alla tradizione e quelli innovativi più vicini alle nuove forme sperimentali più spirituali, più introspettive, tese verso l’astrattismo. 

In esposizione le vedute di interni di Giacinto Satta e le nuove acquisizioni di Aldo Contini, Anna Marongiu e Mario Paglietti. Inoltre, avremo in mostra opere di artisti dai differenti linguaggi espressivi, divenuti figure chiave della scena artistica sarda: Edina Altara, Italo Antico, Antonio Ballero, Alessandro Bigio, Giuseppe Biasi, Giovanni Campus, Cristian Chironi, Francesco Ciusa, Giovanni Ciusa Romagna, Delitala, Francesca Devoto, Salvatore Fancello, Gino Fogheri, Caterina Lai, Maria Lai, Costantino Nivola, Rosanna Rossi, Vincenzo Satta, Tona Scano, Antonio Secci, Bernardino Palazzi.  A loro il merito di aver elaborato quei codici espressivi caratterizzanti l’arte dell’isola nel secolo scorso, creando contaminazioni presenti in alcuni artisti contemporanei.

Vogliamo, infine, ricordare le parole di una grande collezionista, Peggy Guggenheim: “sostenere e promuovere l’arte e gli artisti è un dovere morale” imprescindibile. L’arte è vita. Un riflesso della società che allude a conoscenza, delinea nuovi percorsi, suggerisce nuovi sguardi/idee.  Lodevole l’impegno delle istituzioni museali o fondazioni private  che promuovono  e valorizzano ciò che il tempo talvolta sembra occultare.

 

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©Riproduzione Riservata

(Articolo apparso su Olbia.it il 27 Ottobre 2019)

 

 

 

 

 

Musica | esplode l’anima del rock con i bravissimi Rock Tales

La Sardegna terra di silenzi, stasi e ripetizioni quasi un riflesso del suo mare, presenta esperienze culturali molto antiche di carattere etnografico. Tra queste le feste patronali che esercitano sempre grande fascino, molto suggestive nei riti  e consuetudini, molto sentite da parte dell’intera comunità; anche se alcuni antropologi sostengono che siano destinate a scomparire a causa del dilagante materialismo culturale, della globalizzazione che implica il concetto di appiattimento, di indifferenza, di atipicità, di disuguaglianza. Ma per noi sardi le radici culturali non sono solo ben impiantate, sono disperse nella roccia atavica e nel nostro mare che lambisce le coste. Sarà difficile sradicarle.

Queste feste un tempo erano momenti in cui prevaleva una sensazione di libertà e leggerezza, di distensione e gioia.  Ci si sentiva liberi di socializzare. Anche i piccoli avevano i loro privilegi: poter giocare e rincorrersi davanti al palco, dove si esibivano gli artisti della serata.

Impegno e presenza

Oggi le feste patronali sono organizzate da comitati spontanei delle comunità, dalle classi o in dialetto gallurese “fidali”, nati nello stesso anno. Le Classi/Comitati provvedono a curare ogni particolare organizzativo come ad esempio ricevono le bandiere del Santo o della Santa di cui ricorrono i festeggiamenti e allestiscono la chiesa, organizzano la processione religiosa, provvedono al divertimento della comunità coinvolgendo artisti, dj, cabarettisti etc…

Il lavoro impegnativo e gravoso nella raccolta dei fondi, nel predisporre tutto secondo i severi parametri della sicurezza non sono inezie, richiedono dinamismo, capacità organizzative e spirito di sacrificio.

Un riscontro di presenza da parte del pubblico dovrebbe esserci per  supportare e condividere chi organizza. Altrimenti sembrerebbe una festa privata, priva del significato primario della condivisione collettiva.

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Courtesy  of Rock Tales

Ma la tramontana ha anima rock?

Con un’aria dal sapore di tramontana sferzante, autunnale, sanamente combattuta con birra, buon vino rosso di  produzione locale, sambuca e del filu ferru (l’elisir di lunga vita della gente sarda)  qualche sera fa abbiamo assistito ad un’esibizione che merita di esser scolpita nella memoria.

Sul palco di Berchiddeddu (frazione di Olbia) in occasione della festa patronale 2019 in onore alla Beata Vergine Immacolata si sono esibiti i Rock Tales, una tra le band più apprezzate della Sardegna, in uno spettacolo avvincente sulla storia del rock, dagli anni ‘50 ai ‘90 del secolo scorso, con parallelismi storici e interferenze nella musica italiana.

Oltre due ore di greatest hits dei più grandi cantanti e gruppi rock della storia musicale, suddivisi secondo decadi, a cui si attribuisce un colore e relativo significato per rappresentare gli elementi più cool della musica del periodo.

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Photo ©credits Antonella Mura courtesy of Rock Tales

Con l’ausilio di uno schermo, dove scorrevano immagini e le caratteristiche del periodo musicale presentato, abbiamo riascoltato canzoni di Elvis, Beatles e del gruppo rivale Rolling Stone,  Jimi Hendrix, Jim Morrison e Doors, Janis Joplin, Deep Purple, e ancora Led Zeppelin,  Toto,  Queen, Nirvana e tanti altri artisti.

In scaletta erano presenti  anche canzoni di cantanti italiani per evidenziare le relative assonanze con la storia del rock: come Celentano, con la sua mitica Svalutation, la PFM, Lucio Battisti, Gianna Nannini, Litfiba, Vasco Rossi. A ciò si aggiungevano i continui riferimenti alla storia socio-culturale dei periodi analizzati  mostrando capacità di sintesi  e  ingegno  divulgativo della band.

 

Il progetto musicale Rock Tales

Il progetto  musicale nasce nel 2013 come storia del rock  dalle sue origini blues degli anni ′50, negli Stati Uniti,   fino agli anni ′90  ovvero la sua evoluzione in rock and roll e altre forme.

Da Johnny B. Goode del musicista americano Chuck Berry del 1958 in cui si parla del sogno americano preannunciato dalla madre di un ragazzo semplice, di campagna che pur non sapendo né scrivere né leggere riesce ad aver successo per il suo talento naturale nel suonare la chitarra.

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Photo ©credits Antonella Mura courtesy of Rock Tales

Era un blues rock di riscatto, con implicito riferimento alla  disuguaglianza e differenziazione delle classi sociali americane e al sogno di giustizia e integrazione della popolazione nera nella società americana. Infatti, il brano originale citava un ragazzo di “colore”, che poi Berry sostituì con ragazzo di “campagna” , per timore che il pezzo non venisse pubblicizzato trasmesso in radio. Il talento che uno possiede prescinde dal colore della pelle. Fu questo il vero significato purtroppo celato.

Poi è la volta del rockabilly, la musica dei bianchi. La canzone di Carl Perkins di cui si fece grande interprete Elvis Presley. Una canzone che in sé sembra non aver significato, mentre se approfondiamo la storia si capisce l’intenzione, forse in chiave ironica: lo sconcerto e disapprovazione di chi vede un ospite di una festa preoccuparsi delle sue scarpe di camoscio blu che erano state calpestate, non curandosi della donna che aveva accanto. Un linguaggio allusivo che sembra volerci suggerire che nella vita bisogna dare il giusto valore alle cose.  Perché preoccuparsi di una  cosa marginale e secondaria? Un paio di scarpe!?

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Photo ©credits Antonella Mura courtesy of Rock Tales

E la storia del rock continua con nuove suggestioni, significati, forme, come ad esempio lo struggente rock acustico o quello elettrico e quello più attuale.

Un immenso progetto musicale che unisce tutti.   Oggi appare  sempre  più apprezzato, anche per la genialità del gruppo che riesce a rinnovarlo: annualmente al tour si aggiungono date e vengono inserite nuove canzoni.

Il gruppo composto da eccellenti musicisti professionisti, – insegnanti di musica della zona di Oristano e Medio Campidano, – ha donato ai presenti uno spettacolo che trasudava saggezza, energia, positività. Ma non solo, anche tanta nostalgia di un tempo che ormai vive solo nei ricordi, insito in quelli che lo hanno  vissuto.  Periodi storico-culturali in cui originalità e creatività non erano concetti ma idee che si concretizzavano, si perseguivano, avvincevano e a volte scioccavano per imprevedibilità e spavalderia. Era rabbia e sete di giustizia, desiderio di riscatto,  pace, vita, e ancora erano armonizzazioni musicali quasi frasi ristoratrici dove l’anima trovava riparo dal caos esistenziale d’insanabile inquietudine.

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Photo ©credits Antonella Mura courtesy of Rock Tales

E ora il gruppo:  voce solista potente (Freddy avrà applaudito da lassù!) quella di  Martino  Mereu, insegnante di canto, voce versatile, fresca, che “spacca” (per utilizzare un termine caro alla cantante inglese Skin, giudice in un talent televisivo), Marco Pinna al basso e voce, GianMatteo Zucca chitarra e voce, Giovanni Collu alla batteria, Alberto “Benga” Floris chitarra e voce.

Non solo musica

Da un punto di vista tecnico confrontandoci possiamo considerarli eccellenti musicisti in armonia, senza individuali virtuosismi (possibili visto lo spessore dei musicisti sul palco) ma equilibrati e attenti a ricreare la giusta atmosfera musicale del pezzo suonato. Sembrerebbe una formazione insolita, per la presenza di due chitarre, atte a ricreare la parte armonica e solista, a supporto della melodia cantata. Tutte le parti armoniche delle tastiere sono state minuziosamente ricreate per chitarra, facendoci dimenticare la loro assenza in brani indelebili della nostra memoria musicale.

I due chitarristi si mostrano affiatati e intercambiabili nelle parti soliste e armoniche. La struttura ritmica viene eseguita dall’eccellente batterista di rinomata esperienza Giovanni Collu, supportata in simbiosi dal bassista Marco Pinna. Vanno inoltre menzionate le perfette armonizzazioni corali del gruppo creando un valore aggiunto  all’esecuzione.

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Photo ©credits Antonella Mura courtesy of Rock Tales

Ma sul palco non è solo canto, è presenza scenica non sguaiata. Ci si diverte e si scherza. Si manifesta una velata ironia. Ora sembra impetuosa, ora ha tinte più delicate. D’altronde tanti affermano che bisogna staccarsi dalle cose, con giusta ironia,  planare dall’alto per capire a fondo situazioni ormai legate al tempo.

Ora ci inducono a pensare con estemporanei quiz o riflettere su parole del passato,  allusioni a  incandescenze di vita sociale al di là di ogni logica, come i conflitti armati e la corsa agli armamenti, la globalizzazione, il materialismo ormai erba infestante, libertà di genere.

La musica diventa “struttura” sociale dove ricollocare il pensiero dell’uomo nel suo percorso. Loro l’hanno raccontata rendendola unica dove le differenze di forma sembrano annullarsi per con/temporaneità.

Oggi pur con forme diverse  permangono i significati. La  musica continuerà ad essere l’espressione più democratica, unirà, azzererà il tempo fino ad varcare la soglia dell’eternità. Dove eterna presenza diverrà una bella emozione. Oggi come ieri.

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© Riproduzione Riservata

All Photos ©credits Antonella Mura courtesy of Rock Tales

 

(Articolo apparso su Olbia.it 08 Settembre 2019)