Kiluanji Kia Henda ospite del MAN racconta la sua Sardegna

“Coltivare la memoria é ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza  e ci aiuta [..] a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare”

Liliana Segre

L’ultima mostra inaugurata il 31 Gennaio – visibile fino al 1 Marzo 2020 – dal titolo “Something Happened on the Way to Heaven” – a cura dello stesso direttore del museo MAN, Luigi Fassi – espone le opere di un significativo artista angolano, Kiluanji Kia Henda (Luanda, 1979) che si é imposto sulla scena internazionale dell’arte contemporanea.

Vincitore di un importante riconoscimento per il mondo dell’arte, il Frieze Artist Award nel 2017, presenta nel suo curriculum ben c e n t o t r e n t a mostre.

Un numero importante per un giovane artista, “traduttore” di memoria, che sorprende per il sapiente dosaggio dell’ironia accanto ad una rara capacità di analisi del reale, dove attraverso i suoi linguaggi artistici svolge le sue ricerche legate all’identità, guerra, colonialismo e più in generale questioni socio-politiche.

Nel 2014  la rivista politica americana “Foreign Policy” l’ha inserito  tra i Leading Global Thinkers più influenti del nostro tempo tra i quali – solo per citare qualche nome – oggi compaiono Carlo Rovelli, Michele De Luca, Barack Obama, Christine Lagarde…

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Dott. Luigi Fassi curatore della mostra e direttore del Museo MAN

La sua mostra prodotta dal MAN – che si è avvalso della collaborazione di  maestranze isolane e dell’importante supporto della Fondazione Sardegna Film Commission – dopo esser esposta nell’istituzione museale nuorese verrà trasferita – nell’ottobre 2020 –  nella Galleria Civica di Lisbona su patrocinio dell’Istituto Italiano di Cultura. Sarà un evento che darà visibilità non solo al MAN,  ma alla Sardegna e naturalmente all’Italia, in quanto mostra curata da un museo italiano.

Inoltre, all’interno dello stesso progetto espositivo, si evidenzia la coproduzione di un’opera di Kia Henda con un’istituzione che domina la scena dell’arte contemporanea internazionale la  LUMA Foundation con sede a Zurigo – della mecenate e collezionista svizzera Maja  Hoffmann  che “commissiona, produce e sostiene progetti artistici legati a questioni ambientali, diritti umani, educazione e cultura”.

Nel 2013 Maja Hoffmann ha aperto una nuova sede in Provenza, ad Arles: importante centro sperimentale di arte contemporanea e di residenzialità per artisti – dove Henda è stato ospitato per la creazione di un’opera che analizzeremo in seguito – che riunisce creatori, curatori al fine di collaborare in sinergia alla realizzazione di opere e/o mostre. 

La mostra

Le opere in mostra s’insinuano nelle pieghe del vissuto, in quella memoria storica che evoca  non solo dolore ma tanta rabbia. L’artista sente dentro di sé quella realtà che rappresenta, la filtra con il suo linguaggio e la sua immaginazione. Il suo pensiero nel farsi opera crea in noi fruitori terremoti interiori e un rinnovato senso critico  teso verso un cammino di consapevolezza.

Oggi come sostiene Kiluanji è necessario “ripensare la forma critica e analitica della società in cui si desidera vivere”. 

Da ciò sviluppa un suo peculiare orientamento che sembra fondere, in un unico concetto, teoria e prassi Artivismo (arte e attivismo): il recupero della memoria storica, intesa come eredità globale,  da cui emerge e si delinea una nuova coscienza civica più consapevole che può risvegliare l’azione.

Kiluanji Kia Henda tesse le sue riflessioni avvalendosi della fotografia,  video, light-box, o stilemi propri della land-art. Ma, accanto a questi linguaggi, dall’alto, quasi ad evocare una sorta di “leggerezza” calviniana (che contrappone leggerezza-peso)  appare un velo d’ironia che ora incide, ora mitiga, ora ricuce sensi ad “alleggerire” il peso del vivere, verità che creano sconcerto, smarrimento, sofferenza.

In un’intervista rilasciata alla Tate Gallery (Londra) Henda parla del suo velato umorismo,  un valore aggiunto alla conoscenza come “mettere il dito nella piaga, un modo sottile per affrontare esperienze vissute”. 

Sono opere che si sentono come macigni nello stomaco, che possono però mutarsi in farfalle se, una volta acquisiti i significati, annunciano mut/azioni.

Credo nel potere trasformativo dell’arte, sia a livello personale che della società stessa – dice Kia Henda – è importante avere un’interazione tra la creazione artistica contemporanea e il contesto in cui viene creata.  Nel luogo dal quale vengo, la storia è stata spesso messa a tacere. Una storia che ha urgente bisogno di essere decolonizzata.  Pertanto, più che una questione estetica, attraverso l’arte possiamo creare il simulacro di una libertà sognata, o gli incubi che dovremmo evitare”.

La Sardegna

L’artista non conosceva la Sardegna.  Ha esplorato l’isola durante il periodo di residenza offertogli dal MAN per proseguire il progetto sull’arte africana –  già sviluppato nella precedente mostra di François-Xavier Gbré, – volta ad una riflessione: sul Mediterraneo e sulla Sardegna, entrambi localizzati al nord;  da un punto di vista non più eurocentrico ma africocentrico;  e nel caso specifico di Kia Henda, su elementi storico-politici e socio-antropologici affini con l’Angola, luogo di origine dell’artista.

La Sardegna e l’Angola terre colonizzate, sfruttate, ferite pur nella loro distanza geografica presentano similarità che l’artista coglie ed esprime nei suoi esiti artistici conducendo la sua indagine su un comune denominatore, la colonizzazione, che potrebbe applicarsi ad altre nazioni.

L’Angola venne colonizzata dai portoghesi che abbandonarono la nazione solo nel 1975. L’artista, nato quattro anni più tardi, ci ricorda  quegli anni d’instabilità  politica che sfociarono in una estenuante e sanguinosa guerra civile (500.000 vittime) “Vivere in un paese in guerra è come vivere nella paura costante, nonostante io sia cresciuto a Luanda, la capitale dell’Angola, che era in qualche modo il luogo più sicuro in cui vivere durante la guerra civile,  il clima di paura e instabilità era molto diffuso”.

Erano gli anni della Guerra Fredda caratterizzati dalle “guerre per procura” e dalla presenza sulla scena politica mondiale di due blocchi di superpotenze, quello americano e quello sovietico. Anche la Sardegna (come l’Italia) ne rimase coinvolta per la sua localizzazione e morfologia del territorio, assunse la funzione di piattaforma geopolitica con l’insediamento di alcune basi militari della NATO. Un destino che avvicinava l’isola all’Angola, terra dilaniata e contesa da quelle superpotenze che ambivano ad accaparrarsi materie prime tra cui le ricche miniere d’oro.

Kia Henda volge le sue indagini sui segni indelebili di quel passato, e induce ad interrogarci su ciò che abbiamo vissuto, di cui  tracce di memoria sono ancora innestate al nostro presente.  Quale senso attribuire a quelle esperienze in relazione alla contemporaneità se poi le “trascendiamo” risucchiati dal circolo doloroso della ripetizione?

L’arte supera il valore estetico, attua uno sconfinamento, si umanizza nel suo supportare il cammino dell’uomo affinché la storia non venga occultata ma emerga con la sua verità per esser com/presa.

Attingendo da “incubi del passato” la sua arte sembra voler ricucire il significato di storia quale “testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita”  così definita da Cicerone nel suo De Oratione, anche se nello stesso istante mostra la sua funzione “terapeutica” e liberatoria: “L’arte che faccio è diventata un veicolo per esprimere un po’ di rabbia e frustrazione, – ci dice Kiluanji – ma fa anche parte di un processo di umanizzazione in quanto mette in discussione e mette in luce diversi episodi della storia recente che hanno influenzato drasticamente le nostre vite, oggi”.

Ci si avvia ad una sorta di destrutturazione per comprendere quel passato che diviene presente perché continua a vivere dentro di noi o accanto a noi, e che alle volte continua ad arrecare gravi danni. 

Primo percorso: la guerra, le servitù militari

La mostra si articola in due parti: al piano terra sono esposte le sue prime opere fotografiche. Inizialmente l’artista, attratto dal valore documentale di questo linguaggio,  percorre le vie di  Luanda e “inizia a raccogliere una quantità di storie di vita quotidiana di una città oppressa da anni di guerra” come ci racconta Luigi Fassi.

Sono immagini potenti al pari delle parole scritte da Giuseppe Ungaretti nella sua struggente poesia, San Martino del Carso (1916): “di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro”, dove gli occhi  del poeta e dell’artista colgono quella forza distruttrice, lo sgomento, la lacerazione che sembrano riflettersi nelle loro anime, che deflagrano con la potente metafora ungarettiana che vede il cuore come il “paese più straziato”.

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©️Kiluanji Kia Henda, Guerra FreddaEffetti Collaterali (2005)

“La fotografia è come una pugnalata” ripeteva spesso Henri Cartier-Bresson, ma nelle opere di Henda accanto alla sua forza tragica si cela un velo d’ironia, un meta-significato che s’innesta nella struttura concettuale. Ad esempio, in un’opera che invade e opprime i sensi intitolata Guerra Fredda – Effetti Collaterali (2005), Henda al centro della devastazione più totale pone in primo piano un ragazzo –  seduto su una sedia, che sembra  l’unico oggetto rimasto apparentemente funzionale, integro – che ci guarda con occhi terrorizzati, illuminati dalla paura.  Il corpo é cosparso da visibili ferite e contusioni, indossa vestiti logori.

Il  suo  sguardo crea un certo disagio. È possibile trovare qualche citazione: Napoleone (seduto) sconfitto o le rappresentazioni di Ingres,  ma nella fotografia assume una posa quasi innaturale per un contesto bellico. Il ragazzo non è disteso ma seduto, un’atteggiamento che ritrae la vita quotidiana; mostra dignità “regale” in quel dolore taciuto, impresso nella luce dei suoi occhi, dolore universale che ancora oggi accomuna esistenze;  il suo porsi è un divenire paradigma di resistenza, si predispone ad allontanarsi dal potere distruttivo, dalle logiche aberranti della guerra. 

Accanto a queste immagini vi sono opere realizzate durante il periodo di residenza al MAN, inerenti alla tematica della guerra, che colgono ferite del territorio sardo ancora aperte. L’artista non può esimersi dal notare  le numerose tracce di memoria (servitù militari) sulla Guerra Fredda, presenti in Sardegna, e arriverà ad una imbarazzante e dolorosa verità.

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©️Kiluanji Kia Henda, Ludic Island Map (2019)

Una prima opera con un velo di dissacrante ironia è Ludic Island Map (2019) una riproduzione di una mappa ludica della Sardegna ricostruita come il videogioco Tetris, dove su una “schermata” dell’isola scomposta, vista dall’alto,  si trovano i tasselli/servitù militari dello Stato Italiano e quelle della Nato (che se riunite formano la mappa intera). La Guerra svuotata del suo significato, ironicamente diviene un momento ludico.

Kia Henda, impressionato dalle numerose servitù militari presenti, filtra con la sua sensibilità artistica l’aspetto paradossale per un’isola la cui risorsa primaria sembra esser la straordinaria bellezza del suo territorio, del suo mare, mentre si trovano “incastri” che evocano distruzione, inquinamento, malattie. Oggi tra gli abitanti c’è una nuova consapevolezza nell’urgenza di sensibilizzare lo Stato Italiano per la dismissione delle servitù militari e per una bonifica delle strutture non più attive.

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©️Kiluanji Kia Henda, Double Head Flag (Escalapiano) (2019)

In Double Head Flag (Escalapiano) (2019) sono rappresentate sette piccole bandiere simili a quella istituzionale della Regione Sardegna composte da un campo nero con una croce gialla, colori che indicano la pericolosità di sostanze radioattive,  e in ogni quarto, al posto dei volti dei quattro mori, sono disegnate quattro teste di pecora bicefala: un riferimento ad alcuni “eventi” nella zona di Quirra (servitù militare) che avevano avuto notevole risalto mediatico. 

La riflessione con leggera ironia pone l’accento su un’altro tipo di “colonizzazione” che la Sardegna subisce da anni, su cui sembra far riferimento il titolo della mostra: “è successo qualcosa sulla via del paradiso” che  allude alle  servitù militari (in attivo o dismesse)  di cui ben 60% – di proprietà dello Stato Italiano – si trovano nell’isola, divenendo causa d’inquinamento ambientale,  dove l’ostacolo (servitù militari) incontrato “sulla via del paradiso” suggerisce una presa di coscienza collettiva (fortuna alcuni comitati sono attivi) e l’urgenza di chi responsabile possa intervenire con azioni concrete.

Ben vengano gli indennizzi ai comuni ma se finalizzati in un ottica di smantellamento e bonifica al fine di salvaguardare l’ambiente elemento fondante/ materia prima della risorsa principale dell’isola: il turismo.

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©️Kiluanji Kia Henda, Bullet Proof Glass  (Caprera Island) (particolare) (2019)

Un’altra opera di forte impatto visivo è Bullet Proof Glass – Mappa Mundi (Caprera Island) una fotografia delle coste della Sardegna scattata  da una feritoia, con vetro blindato, del vecchio forte dell’isola di Caprera. Impressiona vedere le coste lontane e quel “filtro” crivellato da fori sparsi nello spazio: un senso di disagio inenarrabile e il dolore acuto per azioni che creano vertigini per l’intensità distruttiva.

Ancora una volta sembra che la bellezza del paradiso venga incrinata da elementi che evocano solo distruzione e morte.

Secondo percorso: Il Mediterraneo e I migranti

Al secondo piano la mostra prosegue con un focus sul Mar Mediterraneo, divenuto oggi un problema geo-politico. Un tempo luogo “condiviso” per scambi commerciali,  spazio d’acqua che esprimeva contiguità tra nazioni.

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©️Kiluanji Kia Henda, The Geometric Ballad of Fear (2019)

Oggi, nella riflessione proposta dall’artista, sembra essere una barriera invalicabile simile ai muri, costruiti nella storia recente, che delimitano i confini degli Stati per arginare il flusso dei migranti.  The Geometric Ballad of Fear (La ballata geometrica della Paura) 2019, è un’opera che presenta una narrazione fotografica in bianco e nero delle coste della Sardegna. Sovrapposti alle fotografie, segni grafici che sembrano intrappolare le coste. In realtà sulle immagini sono stati stampati vari ordini di barriere tra stati.

Soffermiamoci sul punto di vista di chi osserva e guarda la costa dal mare, divenuta inaccessibile, militarizzata, segnata da reti metalliche che si succedono come strofe di ballate,  con varie geometrie che incutono timore, paura, fendono quella libertà dai significati sempre più opinabili. E traslando il significato anche il Mar Mediterraneo appare come “limite invalicabile” con la stessa funzionalità di un muro: quella di bloccare, respingere migranti.

Oltre la presenza delle servitù militari, colpiscono l’artista le consuetudini dei fenicotteri (“abitanti” dell’isola) che pur uccelli migratori esulano da qualsiasi abitudine codificata. Il loro migrare è libero e sembra riprendere il sogno utopico della libertà di movimento universale che Henda esprime in più opere.

E se l’uomo imparasse  il significato della libertà dai suoi fratelli minori, gli animali?  Quasi una citazione di Esopo, Fedro o La Fontaine, autori che attribuivano agli animali capacità didascalica.

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©️Kiluanji Kia Henda, Migrants Who don’t give a fuck, 2019

Le cartoline serigrafate in stile vintage dell’opera Migrants who don’t give a fuck (Migranti che se ne fregano) 2019 hanno come protagonisti proprio i fenicotteri:   uccelli migratori dal tipico color rosa, sempre più stanziali – in alcune zone incontaminate dell’isola – che mostrano di avere grande libertà negli spostamenti, saggezza acquisita che l’uomo sembra non conoscere.

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©️Kiluanji Kia Henda, Flamingo Hotel, 2019

In un’altra installazione Flamingo Hotel (2019) i significati di barriera e libertà, ancora una volta, emergono con un velo d’ironia e la trasposizione visiva segna  emotivamente: griglie, gabbie che diventano claustrofofiche. L’artista ha ricostruito un check point per evocare le barriere situate nel nord Africa che separano il Marocco dalle città spagnole di Ceuta e Melilla considerate confini sensibili dell’Unione Europea, strutture create per arginare i flussi migratori e il contrabbando. Se da una parte gli esseri umani non possono oltrepassare le barriere, gli uccelli migratori come i fenicotteri, riportati nel titolo dell’opera, possono sorvolare quel limite e forzando sul significato  l’artista immagina di utilizzare la struttura non come check point  ma come hotel punto “di ristoro” (elemento di sottile ironia) per esseri umani per ripartire per altri luoghi come da riferimenti etologici dei fenicotteri.

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©️Kiluanji Kia Henda, Flamingo Hotel, 2019

La sua riflessione sui confini si spinge ora in Provenza nelle Saline di Giraud nei pressi di Arles. Qui, con la coproduzione del MAN e LUMA Foundation realizza l’opera Mare Nostrum (2019) – parola latina che “traduce” Mar Mediterraneo – con una serie di fotografie sulle candide montagne di sale. Ma è presente un elemento che attrae lo sguardo nel suo creare contrasto, sospensione, devianza. L’artista infatti inserisce un telo nero, che se da un lato sembra disposto a raffigurare una sagoma di volatili in altre fotografie sembra creare un baratro profondo dove non si vede via d’uscita. Luogo sinistro di morte, luogo di non ritorno. La capacità di sintesi straordinaria di Kiluangji Kia Henda è nel sovrapporre campi semantici diversi per esprimere un solo concetto: le saline, oltre ad evocare terre di confine del mare nostrum, alludono alle lacrime – in cui nella composizione chimica si configura l’elemento salino – versate per fuggire da quei luoghi dove il dolore è piaga dell’anima e si insegue quel sogno di “libertà”. 

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©️Kiluanji Kia Henda, Mare Nostrum, 2019

Il mare è dolore (lacrime/ saline) per quella fuga verso la libertà che può interrompersi divenendo un baratro. Antro del non ritorno. Ora divenuto custode dei numerosi dispersi.

Il riferimento alle lacrime è presente in un’altra suggestiva installazione “Reliquiario di un sogno naufragato” (2019) con una risoluzione estetica imponente, dove la sofferenza, filtrata dall’abilità introspettiva dell’artista,  sembra  scaturire da ogni riflesso della struttura di ferro – che simboleggia una “teca da reliquia” – quasi “lacrime” sui muri e pavimenti della stanza. Un’opera che  narra  l’evolversi crescente di un pathos senza fine reso tangibile da quella testa adagiata sull’altare di lacrime.

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©️Kiluanji Kia Henda, Reliquiario di un sogno naufragato, 2019

Il reliquiario è costituito da griglie geometriche presenti nelle barriere di respingimento tra stati che vede al centro un blocco di sale compresso delle saline, con adagiata una scultura in bronzo: la testa con dei lineamenti di un artista angolano, Osvaldo Sergio, divenuto famoso per aver rappresentato l’Otello di Shakespeare in un teatro del Portogallo, un   angolano che era riuscito a raggiungere il suo sogno. Infatti, si era affermato come attore pur avendo dovuto attraversare il mare (rappresentato dal sale compresso), quindi segnato da un percorso di sofferenza. Oggi quel sogno è naufragato, racchiuso tra barriere di respingimento in cui è difficile sopravvivere sia che si attraversi il mare sia la terra. 

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©️Kiluangji Kia Henda, Reliquiario di un sogno naufragato, 2019

Kiluanji Kia Henda ci insegna ad interpretare i segni della memoria, e pur “mettendo il dito nella piaga” – come sostiene – mostra come non sia possibile trascenderla ma capire per affinare una nuova coscienza civica.

Dalla sofferenza della sua gente ha attinto quella forza necessaria non solo per denunciare ma per divulgare le sue riflessioni in un nuovo orientamento artistico che non è solo arte e pensiero ma arte e attivismo,  parte dal sociale dove ritrova un senso spurio al fine di ricucire quella consapevolezza critica inibita che ha in sé i germogli di un mondo più vivibile. Forse una speranza? Ci vogliamo credere.

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©️Riproduzione riservata

Spesso si pensa che la difficoltà per i profughi sia solo la traversata in mare. Quella è solo l’ultima tappa. Ho ascoltato i loro racconti a lungo. La scelta di partire, di lasciare la propria terra. Poi il deserto. Il deserto è l’inferno, dicono, e non lo puoi capire se non ci sei dentro. Poca acqua, stipati sui pick-up, dove se ti siedi nel posto sbagliato sei sbalzato fuori e muori. E quando l’acqua finisce, per sopravvivere puoi bere solo la tua urina. Giungi in Libia, pensi che l’incubo sia finito, e invece ha inizio un altro calvario: la prigione, le torture, le sevizie. Solo se riesci ad affrontare tutto questo, a superare tutte le crudeltà, ti imbarchi. E se non muori in mare, finalmente arrivi, e speri che la tua vita possa ricominciare.”

Da Lacrime di sale. La mia storia quotidiana di medico di Lampedusa fra dolore e speranza di Pietro Bartolo

 

Arte | Rosalba Mura, tra lo spazio dell’essere e l’oltre

L’esistenza attiene allo spazio,

e lo spazio emana presenza.

Jorge Eielson

 

“L’arte è una maniera di conoscere, di capire e di rendersi conto cosa è il mondo” – dice Rudolf Arnheim, importante rivoluzionario storico dell’arte, sostenitore del pensiero visuale. 

“Un artista che opera intorno ai problemi dell’esistenza attraverso le immagini inventa, giudica e costruisce – sostiene lo storico –  quando l’immagine raggiunge il suo stato finale egli percepisce in essa il risultato del suo pensare visuale. Un’opera d’arte visuale non è quindi un’illustrazione dei pensieri, ma la manifestazione finale di quello stesso pensare”.

Abbiamo citato il pensiero di Arnheim per affinità con il pensiero e percorso creativo di Rosalba Mura, artista originaria di Barumini ma olbiese di adozione, sempre più presente nella scena artistica italiana ed estera.

Attualmente le sue opere sono esposte fino al 25 Gennaio 2020 a Cagliari nella sede culturale di Hermaea Archeologia e Arte in via Santa Maria Chiara, 24/a,  in una importante retrospettiva dal titolo “StratificAzioni…lo spazio e oltre” a cura di Elisabetta Gaudina e Lucia Putzu. 

Le opere esposte – circa una trentina – rimandano al periodo post Accademia dell’artista, dal 2007  fino  alle più recenti sperimentazioni  vicine a rimodulazioni di Arte Concettuale tra Astrattismo Geometrico, Spazialismo e Minimal Art, dove l’esistere si sintetizza palesando un suo spazio vitale in cui si scandiscono forme, si attuano  scelte monocromatiche, asimmetrie volumetriche, riverberi di luci. Un farsi luogo del tempo teso  a fendersi, a trasmettere, a plasmare, ora a suturare significati che sembrano  rinnovarsi in quella costante temporale  custode e premonitrice nel suo estroflettersi da spazialità disadorna.

Le opere richiamano quella forza impetuosa che trascina inarrestabile al pari della natura: il pensiero e il suo “dinamismo dialogico ininterrotto” come avrebbe suggerito il filosofo Edgar Morin, una frenesia inquieta volta alla ricerca che si spande, si contrae, si dilata, ritorna nel suo esser presente, momento di ri/nascita eterna. 

Oppure le sue indagini si soffermano su quell’oltre dominato da fessure che ora si riempiono, sembrano ripiegarsi, divenire ripetizioni di un sé per riformulare il continuum inafferrabile e imprevedibile, spazio di congiunture, di riflessioni ontologiche ma anche proiezioni interpretative dello scibile.

O forse scelte esistenziali in una contemporaneità di cui si è smarrito il senso, sempre più indecifrabile, che mostra comunque opportunità, alternative di crescita anche se ancora da definirsi ma che esistono nel loro non-essere.

È solo lo sguardo che deve mutar direzione: meno verticale, più  obliquo o meglio trasversale come ci avrebbe suggerito il critico d’arte Philippe Daverio. Uno sguardo più eclettico e com/partecipato che si definirà nel suo divenire.

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©️Rosalba Mura, Compendium 2003 – Acrilico su tavola 10 pz. 

Rosalba Mura viene iniziata all’arte fin da bambina trascorrendo la sua infanzia tra colori, tele e statue che suo padre l’artista Evasio Mura, dipinge e restaura.

I colori, le forme, gli espressivi segni dell’anima nei personaggi ritratti impressionano la piccola Rosalba, dal carattere timido ed introverso, tanto da assimilarne manualità, armonia cromatica e sognare di poter diventare lei stessa una pittrice come lui.

Evasio Mura (1927-2014) un brav’uomo che aveva fatto della sua passione per l’arte una ragione di vita, era un artista/artigiano – secondo l’accezione più rinascimentale del termine – molto affermato. Infatti il clero, principale committente, gli richiedeva opere a tema religioso che oggi è possibile ammirare in vari luoghi di culto della Sardegna: Tuili, Sedilo, Lunamatrona, Barumini, Gesturi e altri.

Ma la vera formazione di Rosalba inizia durante gli anni del Liceo Artistico  dove ebbe come insegnanti alcuni protagonisti dell’arte sarda tra i quali Foiso Fois, Attilio Della Maria e Gaetano Brundu. Mentre Enzo Orti, Giandomenico Semeraro e Clavicembalo Venceslao saranno i suoi professori di riferimento nel Corso di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Sassari, dove nell’approfondimento di tecniche e stilemi della Storia dell’Arte,  inizia a definire il suo percorso artistico  – attratta dal desiderio di “smarrirsi”, percependo un’atmosfera più affine alle sue inclinazioni  – all’interno del prolifico labirinto dell’informale e della sperimentazione, mostrandosi curiosa e partecipe verso le nuove scoperte scientifiche e tecnologiche.

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©️Rosalba Mura, Croce 2005 – foglia oro

Si avvicina all’astrattismo geometrico focalizzando il suo percorso su un elemento, una forma terrena, il quadrato, che al contrario del cerchio con valenza spirituale, rimanda a semplicità espressiva,  purezza e allude  alla volontà dell’uomo a razionalizzare una realtà indecifrabile, sfuggente, mutevole: l’unità di misura dello spazio, su cui molti artisti declinarono i loro linguaggi da Kazimir Malevič a Piet Mondrian,  Giulio Paolini.

La figura ha quattro lati, quattro possibilità di aderenze su superfici diverse o aperture verso l’altro. Avvicinamenti che preannunciano scambi, ri/scoperte, sovrapposizioni, scelte. Rimodulazioni del pensiero che mostra la sua infinita duttilità e valore gnoseologico. La conoscenza assoluta sembra de/comporsi nei suoi elementi formali e l’indagine dell’artista si svolge nel “marcare” una pluralità di punti di vista, nuovi equilibri e prospettive dove significati del reale sembrano  dilatarsi, scivolare in altre territorialità concettuali, o possono venir alterati da fattori socio-temporali.   

La tensione al pensare viene ac/colta, prima che voli come farfalla, per riposarsi su nuovi ed imprevedibili campi semantici.

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©️Rosalba Mura, Working Progress B 2002/2004 – acrilico su legno

L’artista, come Maria Lai, predispone le sue opere verso un’apertura che  pone sullo stesso piano dell’intuizione creativa la tensione ermeneutica consequenziale per colui che l’osserva. Si annullano differenze, e si pone sullo stesso livello chi crea e chi fruisce.

In alcune opere la pluralità di forme sembrano sfaldarsi in un dinamismo fluido, leggero non caotico nel suo ripetersi diseguale. Ma la ripetizione è estranea identità. Lascia intuire che la diversità è il luogo dove ogni possibilità può trovare la sua coerenza.

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©️Rosalba Mura, Sutura 1 2012 – acrilico su tele

Ripercorrendo lo spazialismo di Lucio Fontana oltre la superficie di cui ci narra nei suoi tagli, Rosalba Mura pur vicina al pensiero del maestro argentino, si sofferma nell’approfondire le recenti teorie cosmiche a cui si potrebbe dare un riferimento più esistenziale.

Potremo vedere – avvicinandoci al pensiero di un grande maestro della letteratura  David Foster Wallace, –   i tagli sulle tele come atti di coscienza di ciò che siamo, e forzando nel significato,  la nevrosi esistenziale incisa come uno scalpellino nelle pagine dei suoi libri (penso a Infinite Jest) qui scandita nella tavola dell’esistere con una pluralità d’istanti in cui si afferma, si analizza, si penetra, si sutura, si fa “tasca” si propone un’alternativa o prospettiva/sguardo e poi ancora un’altro, fino all’infinito, come i  mo(n)di a cui sembra voler alludere il linguaggio espressivo di Rosalba Mura.

I tagli di Fontana erano nati da risentimento e il significato che lo stesso artista attribuì fu secondario alla resa formale, semplice intuizione geniale. Alla rabbia e sconforto da parte dell’artista escluso dalla selezione per la realizzazione delle formelle per la porta del duomo di Milano (lavoro che venne assegnato allo scultore Luciano Minguzzi) seguì una reazione: con impeto tagliò la tela con una spatola. La raffigurazione di un oltre con pluralità di declinazioni che precedentemente mai nessuno era riuscito a sintetizzare in un’espressione artistica.

Rosalba interpreta le teorie più recenti sulla teoria convenzionale dell’inflazione eterna sugli universi-tasca molteplici e non solo interrompe lo spazio ma crea una sorta di “tasca”.

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©️Rosalba Mura, Taglio 2 2019 – Acrilico su tele

Se ci distacchiamo da un’ermeneutica dello spazialismo e ripercorriamo riflessi di psicologia emotiva i tagli divengono simboli per ferite, lacerazioni interiori o sociali  e le “tasche”, che ora sembrano coprire le ferite e le fragilità, quali inversioni storiche con una potenzialità, un fieri che implica  superamento proprio per il fatto che è suturato sul limite del vuoto, quindi non più libero. E ci si pone come avvio verso una nuova consapevolezza,  dove il “prima” acquisisce una luce ri/generatrice atta a risanare, ricostruire il “dopo”. 

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©️Rosalba Mura, Working progress 2004  – acrilico su legno 

In alcune opere utilizza doppie tele, o incastra telai in maniera asimmetrica creando una tensione dinamica, quasi fughe verso nuove realtà. Il multiverso oggi prevale allontana, crea divari e disagi e l’artista con un filo chirurgico sutura, chiude ferite. Ricompone, suggerisce nuovi percorsi: la vecchia strada non verrà abbandonata ma rimodulata con nuove idee. I significati soggetti ad usura del tempo possono dissolversi o riplasmarsi.

Il moto perpetuo della modernità divenuto ora fare e disfare, viene rielaborato o riproposto come  curare, riformulare, rimediare quasi a ricordarci che l’oblio di ciò che è stato non salva.

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©️Rosalba Mura, Nike 2003 – acrilico e tecniche miste su tela

In “Nike” (2003) – opera realizzata durante la crisi economica della Grecia – la ricerca formale s’imbastisce su un preciso momento storico. Sottesa una volontà quasi di rimarginare le sofferenze di una nazione sull’orlo della bancarotta, un tempo culla di una delle civiltà più importanti del Mediterraneo. 

Si definisce la temporalità presente/passato con una sovrapposizione, stratificAzione che genera un forte contrasto. Da una parte appare l’oggi (la tela lacerata) nell’atto di esser ri/cucito,  sullo sfondo disegnato a matita un’icona del passato    in cui si evince capacità tecnico-espressiva  – la Vittoria (Nike) di Samotracia (190 a.C) – attribuita a Pitocrito che oggi si può ammirare nella sua straordinaria e ammaliante bellezza al Louvre – in cui s’intravvedono le pieghe della veste increspate dal vento, oggetto di studio di tanti artisti.

La raffigurazione della Nike evoca le grandi vittorie di un tempo che oggi sembrano aver smarrito il senso. Anzi sembrano disancorate dalla realtà lontanissime ed “estranee”. 

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©️Rosalba Mura, Embrione 3 2019 – acrilico su tele e matita 

In “Embrioni” (2013), – di cui analizziamo Embrione 3 –  l’artista esplora con un linguaggio plastico-figurativo l’importanza della geo-metria (misura e proporzione) e delle potenzialità dell’uomo quale unità di misura della realtà. 

La tela presenta alcuni tagli. Una gestualità che ricrea piccole onde, quasi il movimento del pensiero che richiama evoluzione e di cui solo la parte esterna si ricollega alla contemporaneità.

La fessura crea un nuovo spazio in cui è raffigurato l’uomo Vitruviano – homo ad circulum et ad quadratum – di Leonardo Da Vinci (1490), la celebre figura umana elaborata da Leonardo (che dopo aver studiato le proporzioni degli arti nell’uomo arrivò a confermare le teorie di Vitruvio)  diviene metafora dell’uomo come  misura di tutte le cose. Oggi concezione superata dal geomorfismo con il sistema metrico-decimale dallo studio sulla circonferenza della terra. 

Il simbolo dell’uomo vitruviano e delle figure geometriche – quadrato inscritto nel cerchio – allude al superamento del duale, ragione-spirito, verso un nuovo equilibrio, poiché l’uomo stesso “con/tiene” in sé l’universo. Figura ripresa come nuova sintesi concettuale  intorno alla prima metà del novecento e armonia a cui Leonardo aspirava nelle sue infaticabili ricerche.

“Colui che niente ignora mi creò. E io reco in me ogni misura: sia quelle del cielo, sia quelle della terra, sia quelle degli inferi. E chi comprende se stesso ha nella sua mente moltissime cose, e ha nella sua mente il libro degli angeli e della natura” dall’uomo Vitruviano secondo l’interpretazione del Taccola (1381-1458).

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©️Rosalba Mura, SpaceSATOR 2019

Un’altra opera, sempre finalizzata alla sua ricerca spaziale ed estetica, sembra approfondire, ancora una volta, il suo campo d’indagine tra armonia/bellezza ed equilibrio tra parti. Sulla traccia del passato recupera simbologie antiche, enigmi non ancora risolti vicini a riscontri polisemici  come “SpaceSATOR” (2019).

Composta da quattro tele poste una sull’altra, con la presenza di aperture quadrate in ordine crescente dall’interno verso la superficie, in alto a sinistra si  poggia il rettangolo aureo. Centrale leggermente a destra  è posto il quadrato magico del Sator arepo tenet opera rotas, frase che può esser letta in ogni direzione.  La sua presenza è stata rinvenuta in vari elementi architettonici ma anche in luoghi di culto di tradizione cristiana. Diverse le interpretazioni attribuitegli. A noi interessa riportare la pluralità di intuizioni e concezioni, verità che si nascondono dietro a questo quadrato: quasi la difficoltà di cogliere quella definitiva in cui sembra convivere razionalità e spiritualità.

Se osserviamo attentamente l’opera, nella parte inferiore è riscontrabile la sezione aurea o divina proporzione (o numero di Dio) ad esempio riscontrabile in natura (nella conchiglia che tutti conosciamo il  Nautilus) che ingloba con segni di matita il quadrato del SATOR ad enfatizzare il legame tra ragione e lo spirito di Dio presente nella natura e quindi la necessità di dare una interpretazione più spirituale dell’arte.

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©️Rosalba Mura Sinapsi, 2010 – elaborazione e stampa digitale

Un’opera d’arte digitale è “Sinapsi” (2010) dove l’artista definisce la sua interpretazione creativa mostrando la natura dell’intuizione che raffigura come fonte di energia.   

Il primo elemento che emerge è l’affermarsi di una condizione paritaria tra uomo e donna in quanto l’arte non è solo maschile,  ma femminile anche se il cammino di valorizzazione e accettazione è stato molto difficile e spesso incompreso. Inoltre, l’artista immagina l’intuizione creativa al pari dell’energia emessa dal brillamento solare avvenuto nel settembre del 2010.

Come è ben visibile dall’opera, Rosalba riproduce la sua immagine come donna vitruviana, creatrice/artista da cui si genera “l’energia visionaria che si dirama  attraverso le sinapsi” e che investe non solo l’Italia ma si estenderà  al cosmo ad  enfatizzare il legame indissolubile tra il potere creativo e la forza/energia nella realizzazione delle opere non solo pittoriche ma architettoniche, ingegneristiche etc.

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©️Rosalba Mura Qubit 2019 – acrilico su tele

Nell’esplorazione delle varie dimensioni e del multiverso si inseriscono due opere “Qubit” e “Qubit2” con una resa plastica intensa oserei lirica, pur nella loro piccola dimensione. Alla ricerca di  nuovi equilibri l’artista lacera le tele scandendo con appositi spazi il divenire con stratificAzioni che evocano il cammino dell’uomo: frammenti  incollati uno sopra l’altro in un processo evolutivo  su cui il tempo inafferrabile scrive le sue memorie e la luce degli anni s/bianca, cancella per indurre l’uomo a riscrivere. Una tensione concentrica da un interno più piccolo      in seguito sempre più grande, in ordine crescente,  per segnare non solo ciò che è permanenza ma anche ciò che è  innovazione. 

Sono opere vicine alla scultura, aiutano i sensi a librarsi, ad alleggerirsi, a lasciarsi guidare dalla casualità. Il rigore delle opere precedenti sembra superato da un desiderio di espansione, compresenza.

I precedenti equilibri spezzati, sembrano alludere al caos della frammentazione  ma lo spazio creato al centro appare una via di fuga verso una nuova dimensione che permetterà di ritrovare creatività ed elementi da cui ripartire per nuove indagini e percorsi.

Il bianco è il colore dell’inclusione, della polisemia, della ricettività assoluta. È luce che permette di spostarsi tra pluralità. Quella luce che in un’indagine spaziale l’artista rivede quale tunnel spazio-temporale, realtà multipla soggetta a varie forze come ad esempio la velocità che distorce, devia, muta strutture originarie, per accogliere diversità.

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©️Rosalba Mura, Barumini …tracce 2019 acrilico color Barumini su tele

Le digressioni sulle origini affiorano attraverso un linguaggio espressivo vicino all’informale materico. Rosalba rivisita i suoi luoghi in “Barumini … tracce” (2019). Ai tagli disposti secondo una linea diagonale si aggiungono in ordine sparso quadrati di varia grandezza per accentuare il carattere bidimensionale, al pari di una carta topografica.

In alto sulla sinistra il bassorilievo del complesso Nuragico di Barumini situato in un  quel passato che l’artista ricorda ed evidenzia come luogo impregnato di luce, dove le fissure in alto   si aprono verso la pianta del nuraghe alle quali  tende   lo spazio della tela, compresi gli altri tagli in un velato movimento. Ci chiediamo il perché della marginalità, forse si intende enfatizzare quella forza centrifuga che la allontanerà dal suo paese natale? Pensiamo sia per una resa armonica che persegue in ogni sua opera. 

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©️Rosalba Mura, Bimbi Earth 2008 – rielaborazione e stampa digitale

La sfera personale è presente in un’altra opera molto suggestiva “Bimbi earth” (2008) in cui Rosalba scopre la sua maternità ma non desiste dall’idea di creare, di dipingere. Evita l’utilizzo di colori e con la tecnica digitale crea quest’opera in cui sovrappone il mondo alla riproduzione della prima ecografia del suo bambino. 

“Come un ventre materno custodisci e fai crescere la vita. Il mistero sarà mai svelato?” dirà a sé stessa. Ecco che lei diviene forza cosmica e identifica il suo ventre con il mondo che contiene l’essenza pulsante della vita e immagina suo figlio generato “dalla polvere delle stelle” parte/cipe dell’universo, per riprendere un concetto fondante in Jorges Luis Borges.

Rosalba Mura mostra di esser un’artista poliedrica che non conosce confini, attenta a sperimentare sempre nuovi linguaggi espressivi, con un potenziale semantico innovativo e originale, senza tralasciare indagini e rimandi alle  ultime scoperte scientifiche e/o tecnologiche.

La sua arte mai fine a se stessa, votata al dinamismo e alla ricerca, promuove l’essere umano nella sua es/tensione di esperienze, l’immediatezza del percepito, il suo spingersi sempre più lontano fino a sfiorare nuovi orizzonti attraverso un pensare che è per sua natura quell’andare oltre che struttura e dà significato al nostro vivere.

Strofiniamo il buio

per farne luce” 

Franco Arminio

 

©️lyciameleligios

Riproduzione Riservata

Musicultura | Cordas et Cannas, uno sguardo oltre l’isola

“Dove il futuro si innalza nel passato e l’oggi è questo
sguardo. È un occhio il presente, tra un battito di ciglia e
l’altro, in un montaggio permanente di visioni”

Davide Nota

Un nome avvolge l’anima della loro musica, creato da due parole.  La prima rappresenta un oggetto, la corda,  simbolo di unione: l’abbraccio della loro musica verso contaminazioni, con rimandi tra tradizione e innovazione. A ciò, si aggiunga la necessità di confronto e condivisione con altre realtà musicali nazionali e internazionali. Infine, il nome di una pianta graminacea, tipica dell’area mediterranea, la canna, apparentemente  esile in realtà molto resistente.  Evoca la fragilità dell’uomo, soggetto ai venti della vita, in  resilienza e adattabilità. Possiamo ben dire che si distingua per longevità, altra caratteristica di questo gruppo. Loro sono i Cordas et Cannas, gruppo di musica etnica, portavoce delle nostra cultura identitaria in Sardegna e all’estero. 

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Cordas et Cannas – by courtesy of ©️Fabrizio Giuffrida

In questi giorni impegnati nel Musicultura World Festival come promotori dell’importante rassegna musicale, li abbiamo intervistati per ripercorrere insieme la loro storia e per ringraziarli del loro impegno e volontà nel proporre progetti musicali, dove l’attenzione è rivolta non solo alle melodie, armonizzazioni tra  sperimentazione e contaminazione, ma ai loro testi che affrontano tematiche di carattere sociale al fine di indurre una maggior consapevolezza e senso civico in tutti: problemi che affliggono la nostra contemporaneità come la guerra, conflitti, mine antiuomo e salvaguardia  dell’ambiente. Una musica pervasa dall’impegno con tonalità contemporanee.

Cominciamo a parlare di origini, quelle che vi hanno fatto incontrare e portare avanti un progetto musicale prezioso,  legato in parte alla nostro patrimonio culturale.

Il gruppo Cordas et Cannas nasce ad Olbia nel 1978-1979 dall’incontro di musicisti con percorsi musicali differenti, ma intenti ben definiti, avvalendosi,  inoltre, di vari ricercatori in campo storico-antropologico ed etnografico. 

La prima formazione era composta da: Andreino Marras, Gesuino Deiana, Francesco Pilu e Bruno Piccinnu. 

Il nostro percorso musicale è segnato dal confronto tra la nostra realtà socio-culturale e quella del mondo intero. A ciò si deve l’uso di alcuni strumenti quali l’organetto diatonico, launeddas, trunfa, sulittu, armonica,  serraggia, tumbarinu di Gavoi,  a cui si sono accostati  strumenti non tipicamente sardi: le percussioni, il violino, la chitarra elettrica e il flauto traverso, provenienti da altre culture musicali quali le percussioni africane, asiatiche e latino americane. Commistione che si ripropone anche nella scelta ed elaborazione dei testi, laddove accanto agli autori della nostra Isola, si riconoscono echi di autori stranieri.

Qual è la vostra formazione attuale? 

Oggi ci presentiamo con una formazione rinnovata e un sound ancora più coinvolgente e adatto ad ogni tipo di pubblico e contesto. Il gruppo è composto dal cantante/polistrumentista Francesco Pilu,  Bruno Piccinnu (percussioni e voce) fondatori storici del gruppo, Lorenzo Sabattini al basso elettrico fretless, Sandro Piccinnu alla batteria, Gianluca Dessì chitarre e mandola e Alain Pattitoni chitarra acustica ed elettrica più voce.

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Francesco Pilu – photo by courtesy of ©️Fabrizio Giuffrida 

La vostra musica colta si misura tra tradizione e innovazione.

Il nostro percorso musicale parte dal patrimonio culturale della tradizione sarda orale con le sue varianti linguistiche logudorese, barbaricino, campidanese, gallurese e con i propri stili popolari: canto a tenore, cantadores a chiterra, launeddas e danze tipiche.  Prosegue nell’esplorazione di generi musicali, che spaziano dall’Africa all’area del Mediterraneo, fino al mondo della cultura celtica, ponendoli insieme in una piattaforma unica, che ha permesso di sviluppare un suono originale e ha conferito al gruppo una distinta connotazione fin dalla sua nascita. 

Il progetto musicale Cordas et Cannas  si definisce  un viaggio attraverso le radici culturali della musica sarda, attualizzata da armoniosi intarsi sonori, presi da altre culture e generi musicali e,  inoltre, con il percorso musicalimba, si materializza l’incontro tra la musica tradizionale e quella moderna, espressa nelle varie lingue del territorio della nostra regione, con sonorità originali, danze coinvolgenti e canzoni di appartenenza. 

Con il video Terra Muda, che presenta un brano di recente realizzazione, si rappresenta la Sardegna enfatizzando la salvaguardia dell’ambiente; un messaggio che nasce e parte dalla nostra isola,  indirizzato verso tutto il pianeta sintetizzato in una frase:  Un suono, un’idea, un messaggio dalla terra del silenzio“, quasi un mantra che anima i nostri concerti con un concetto “distillato” di un rinnovato e praticabile rispetto verso l’ambiente e la bellissima natura che ci circonda.

Come nasce la ricerca delle vostre sonorità? 

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo far riferimento alla nascita del gruppo quarant’anni fa quando si creavano canzoni e brani strumentali attingendo dalla tradizione, come già espresso prima.  Nell’arco di circa dieci anni, si è lavorato alla composizione di musica originale intorno a quella tradizionale,  ma già ponendo basi di esplorazione artistica spesso molto lontana dai canoni tipici della Sardegna.

Spesso i pezzi venivano proposti da qualche componente del gruppo, visti e visionati da tutti con gli strumenti a disposizione e dopo discussioni sul tipo di brano e il suo contesto, veniva abbozzato in una sorta di prova strumentale. Ognuno svolgeva una propria ricerca esecutiva ed espressiva e quando sentivamo fosse completo e soprattutto funzionale, il pezzo veniva blindato in un arrangiamento definitivo.

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Bruno Piccinnu – Photo by Courtesy of ©️Fabrizio Giuffrida

Da quali autori attingete per ricreare quelle particolari atmosfere e sonorità che evocano, pur mostrando “libertà” negli arrangiamenti, la nostra musica etnica?

Gli autori sono tantissimi e sono quelli che fanno parte integrante dei nostri percorsi musicali. Perciò, non faremo esplicitamente dei nomi, potremo dire che ognuno di noi ha vissuto (chi più chi meno), tutta la musica dagli anni sessanta in poi. I fenomeni rock, blues, jazz e musica d’autore sono stati veicoli importanti verso un confronto con la musica sarda per affermare quest’ultima in un una nuova modalità e con un rinnovato stilema artistico. 

In questo panorama musicale, affiora la musica etnica internazionale e inizialmente i nostri modelli di riferimento sono stati i gruppi del Folk Revival, come Fairport Convention e Alan Stivell e altri di fine anni settanta, ma anche gruppi italiani come Nuova Compagnia del Canto Popolare, Canzoniere del Lazio insieme ad altri. Tutti hanno avuto un ruolo importante nel tracciare una nuova via che sarebbe diventata la musica caratterizzante del nostro gruppo.

Dopo i tre lavori discografici dei primi dieci anni, abbiamo dato molta importanza ai concerti e quindi alla musica dal vivo, producendo un disco live seppur completato in studio. Crediamo che ci siano stati brani, da noi composti, che abbiano avuto tantissime contaminazioni artistiche. Infatti abbiamo cercato di mettere insieme testi di poeti contemporanei della Sardegna con musiche originali, con riferimenti al canto a tenore e in qualche occasione alla musica cosidetta progressiva, utilzzando strumenti musicali non convenzionali. In quarant’anni anni di musica, ci  definiscono ancora oggi, gli “innovatori della musica sarda”, crediamo sia un complimento di cui andar fieri.

Tra i temi proposti si evidenziano quelli legati al sociale e alla complessa contemporaneità, come nelle canzoni degli album Fronteras e Ur, dove accanto al recupero della tradizione, intense emozioni s’intrecciano su narrazioni di sofferenze. Un richiamo, una denuncia. 

Il mondo deve prendere coscienza delle ingiustizie gravi che subiscono gli “ultimi e le popolazioni senza futuro” spesso a causa delle politiche di sfruttamento imposte dai grandi della Terra. 

Noi abbiamo sempre sostenuto associazioni umanitarie, quali Emergency, Amnesty International e altre, che operano in luoghi e territori che sono ai confini del rispetto dei diritti umani ed economici, in particolare Emergency, l’organizzazione italiana che offre assistenza medico-chirurgica gratuita e di elevate qualità alle vittime dei conflitti e povertà, nei teatri di guerra.

Crediamo che il senso civico debba sempre essere presente e vivo. Opporsi alle logiche del profitto a tutti i costi, sia una conseguenza naturale, pensiamo che gli interessi economici dei grandi del pianeta attraverso grandi poteri, siano la ragione che sta portando il mondo verso una via di non ritorno; guerre, consumo sfrenato del territorio, sviluppo tecnologico senza fine, insensibiltà concreta verso i cambiamenti climatici, sono temi che abbiamo sempre usato nella nostra attività musicale.

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Lorenzo Sabattini – photo by courtesy of  ©️Fabrizio Giuffrida 

Il vostro stile musicale oggi è sempre alla ricerca di nuove sperimentazioni vicine al jazz… forse una libertà di espressione musicale che la tradizione non concede?

La prima canzone che abbiamo ripreso e arrangiato è stata “S’ora chi no tt’ido“ di Maria Carta. Un brano che non abbiamo mai inciso, che però nei primissimi anni abbiamo sempre suonato. Nel 1983 abbiamo rielaborato “Dillu” dal testo di Peppino Mereu, a “Nanni Sulis” conosciuto come “Nanneddu”, che sono stati elementi identificativi del nostro progetto musicale. 

Da allora ad oggi,  il nostro repertorio si è totalmente evoluto, con incursioni sonore verso tutta la musica, afro, jazz, rock e altro. Abbiamo creato una sorta di piattoforma musicale in cui convivono elementi della tradizione e modelli totalmente differenti. 

Ci sentiamo privilegiati in questo, poichè a distanza di quarant’anni i nostri concerti sono animati da brani che oggi sono diventati tradizionali, ma anche da altri che hanno proiezioni di grande attualità.

Il fatto che abbiamo conservato il DNA degli stili del patrimonio musicale sardo, ci permette e ci dà la possibiltà di spaziare nella musica a trecentosessanta gradi; naturalmente, a nostro rischio e pericolo. Prevale comunque l’idea che la musica made in Sardegna può essere tranquillamente esportata in tutto il mondo, a patto però che nel conservare le proprie radici venga riconosciuta come tale. In questo siamo stati pionieri e perciò ci sentiamo di percorrere un “working in progress” che ci spinge e ispira in continuazione.

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Sandro Piccinnu – photo by courtesy of ©️Fabrizio Giuffrida

Musicultura World Festival è stato per anni un vostro progetto musicale molto seguito. Si ha nostalgia del Festival di dicembre, quando la diversità della musica etnica si fonde in armonia, bellezza, incontro, confronto, rispetto, condivisione. Si rappresenta quell’energia e forza vitale che solo certe espressioni musicali riescono a trasmettere. E quest’anno il via alla 31 edizione con qualche novità. 

Il progetto Musicultura Sardegna, che ricordiamo è sovvenzionato dalla Regione Sardegna, ci permette di diffondere momenti di scambio culturale ed arricchimento vicendevole con altri paesi: Europa, Africa, Asia,  etc. Ogni evento musicale fa  riferimento alle culture etniche diffuse in tutto il mondo, una scelta verso tutti quegli artisti che viaggiano con l’intento di portare a conoscenza le tradizioni culturali e musicali del proprio luogo d’origine.

Quest’anno vogliamo ricordare che la nostra attività Musicultura Sardegna ha realizzato il festival Finis Terrae in collaborazione con il Comune di San Teodoro a settembre, in cui si sono esibiti: LamoriVostri, una formazione femminile che porta in giro per il mondo la musica del sud Italia  e Kilema, musicista del Madagascar, molto conosciuto e vero ambasciatore della sua terra. 

Il Musicultura World Festival che da un paio d’anni si svolge in forma itinerante, per questa 31° edizione sarà presente a Martis, Olbia, San Teodoro e Straula. Questa nuova formula propone eventi culturali in vari luoghi espandendo così l’offerta artistica per un coinvolgimento più diffuso del territorio. L’intento è proprio quello di rappresentare la musica etnica come fusione di “armonia, bellezza, incontro, confronto, rispetto, condivisione”. 

Quando è nata l’idea di ospitare validi musicisti di ogni parte del mondo?

Come gruppo sentivamo l’esigenza di rapportarci con le istituzioni in forma più programmata, ed  essere più attivi nella nostra attività concertistica. Con il festival avremmo avuto l’opportunità di confrontarci con musicisti provenienti da varie parti del mondo. Creavamo, quindi, un movimento culturale che nel corso degli anni si affermò come il più importante nel suo genere. 

Costituivamo l’associazione tra il 1989 e il 1990 e contestualmente alla sua nascita organizzavamo il primo festival di musica etnica e jazz ad Olbia.

Per noi è stato molto costruttivo perché ci ha permesso di viaggiare e di stabilire contatti con organizzazioni musicali in tutto il mondo e  porre al centro la cultura della Sardegna. 

Un esempio rilevante é stato il confronto con Peter Gabriel che ci ha ospitato nei suoi Festivals,  definiti Womad. E’ stata una grande opportunità avere collaborazioni importanti con musicisti jazz come Paolo Fresu, Antonello Salis e Eugenio Colombo e con altri artisti internazionali di musica etnica: Aborigeni Australiani, Michel Heupel (Germania), Cotò (Cuba), Gilla Haorta (Brasile,) Kilema (Madagascar), Brendan Power (Nuova Zelanda), Ravy (Inghilterra.

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Gianluca Dessì – photo by courtesy of ©️Fabrizio Giuffrida

Avete cantato e suonato con artisti di rilievo nel mondo della musica: Peter Gabriel, Paolo Fresu, Andrea Parodi … Quale artista ha lasciato tracce nella vostra storia musicale?  Quali ricordi? 

Partiamo dai ricordi… Partecipare ai festivals di Peter Gabriel è stata una cosa straordinaria. Gli eventi Womad sono dei passaggi molto importanti per qualsiasi musicista del mondo. Aver fatto parte, in qualche occasione, di quelle manifestazioni internazionali è grande motivo di orgoglio per noi e per la Sardegna. 

Il  confronto musicale con Peter Gabriel è stato molto interessante. Un musicista che ha influenzato generazioni di artisti e ha dato un enorme contributo alla vita stessa della musica etnica di tutto il mondo. 

Andrea Parodi é stato un musicista che ha sempre manifestato grandissima stima nei nostri confronti, con cui abbiamo condiviso progetti artistici e ci siamo esibiti negli stessi palchi. 

Voce di straordinaria intensità e bellezza che come musicista ha saputo  sperimentare nuovi percorsi come pochi. Artista che dal pop si è totalmente avvicinato alla musica etnica sarda e mediterranea.

Paolo Fresu, Antonello Salis, Eugenio Colombo e altri validi musicisti hanno dato un valore aggiunto ad alcune nostre registrazioni e verso i quali nutriamo grandissima stima e riconoscenza. In quarant’anni il nostro percorso è stato tracciato da tantissime collaborazioni con artisti jazz e di musica etnica, cementando la nostra configurazione musicale fino ad oggi.

La musica etnica come patrimonio universale va tutelato. È l’anima della nostra identità. Come evitarne la dispersione?

Crediamo che la musica etnica non si spegnerà mai! Potrà non essere presente nei media, nelle televisioni o potrà sembrare fuori moda, ma pensiamo che  sempre saprà affermarsi in tutta la sua forma, perché fa parte della cultura, dell’anima di tutte le popolazioni. 

La musica in generale, ciclicamente attinge dalla musica popolare, specie nei momenti di crisi identitarie. Certo mai abbassare la guardia, si deve tutelare per la sua potenzialità identificativa e di appartenenza. Spesso la sua  folclorizzazione commerciale può sminuirne il valore. Paradossalmente, una sua intellettualizzazione può rappresentare un nuovo interesse per i giovani, spostarsi dagli schemi di rappresentazioni tradizionali può essere motivo di riscoperta  e ciò potrebbe avvicinarli. 

Pensiamo ai festivals dove la musica etnica può convivere e confrontarsi con generi musicali  più moderni, per cui le nuove generazioni possono acquisire  le conoscenze delle proprie radici. Nei paesi anglosassoni questo succede molto spesso.

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Alan Pattitoni – Photo by courtesy of ©Fabrizio Giuffrida 

La musica è cultura da condividere. Potremo pensare alla musica come veicolo d’idee con una potenzialità immensa quella divulgativa. Rientra nelle finalità del vostro gruppo?

Certamente la musica è cultura da condividere. In particolare quella etnica  rappresenta la vita dell’uomo fin dalla sua nascita, perciò va preservata e divulgata. Noi, come gruppo, abbiamo sempre inteso l’arte musicale come un veicolo d’idee. Spesso i nostri testi affrontano tematiche legate al sociale, all’ambiente,  all’amore e all’armonia tra popoli e contro qualsiasi forma di violenza e guerra. 

Il tema identitario della nostra terra comunque ha rappresentato un motore divulgativo che ci ha contraddistinti. In Sardegna, spesso, veniamo identificati come difensori del nostro patrimonio culturale.

Il Mediterraneo luogo di origine, d’incontri, di eclettismo e di originalità intesa come distinzione. Un luogo a cui voi spesso fate riferimento, che importanza gli attribuite?

Il Mediterraneo luogo e crocevia di culture che si mescolano e si rigenerano da millenni in cui la Sardegna ha avuto la fortuna di ritrovarsi proprio nel suo centro,  mantenendo una sua forte connotazione identitaria e di grande originalità che esprime nel suo immenso e originale patrimonio culturale.

Come gruppo abbiamo scelto di cantare i testi utilizzando  idiomi di questa terra, con la musica invece abbiamo attinto da tutto ciò che offre il Mediterraneo. Nei nostri brani si percepiscono influenze arabe, spagnole, africane.

Questa è la ricchezza culturale che deve essere raccolta e portata avanti nei progetti a largo respiro e con prospettive internazionali.

La musica multietnica può insegnare che la diversità può essere vista come una infinita risorsa. Che ne pensate?

La multietnicità è un valore aggiunto in tutte le circostanze sociali e di vita… Ne siamo fermamente convinti, nella musica poi, le mescolanze, le commistioni di generi musicali,  le condivisioni nelle diversità, sono   forze  autentiche  dal potere  aggregante che hanno generato la musica in tutto il mondo.

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Photo by Courtesy of ©Archivio Cordas et Cannas

Una lunga carriera musicale, negli anni avete mostrato coerenza per linguaggi sonori, per significati e temi proposti. Lo scorso anno avete raggiunto un traguardo importante: 40 anni di musica. 

Sì, abbiamo oltre quarant’anni anni di attività live e siamo la più longeva formazione della worldmusic sarda con un’attività concertistica che ha portato la band in varie parti del mondo: Australia, Stati Uniti, Sud America e Nord Europa. È una sensazione indescrivibile per noi.   

La forza, ci viene trasmessa dal pubblico  come energia  che raccogliamo durante i concerti  dove si crea un contatto diretto con chi ci ascolta. 

Il gruppo esiste ancora, in tutti questi anni, grazie alla gente che lo apprezza e gli riconosce: di aver tutelato le nostre radici identitarie e di aver saputo infondere valore aggiunto alla musica sarda con ricerche su sonorità più  moderne ed internazionali.   

Il nostro percorso musicale è stato un crescendo di melodie e arrangiamenti, strumenti e musicisti. Oggi possiamo affermare che abbiamo saputo mantenere una certa coerenza artistica che ci fa sentire in piena armonia con noi stessi. Naturalmente non spetterebbe a noi affermarlo…

Un ultima domanda per concludere, avete in cantiere qualche nuovo progetto musicale?

Terra Muda è un brano di cui abbiamo realizzato un video, pubblicato sul nostro canale You Tube, nell’estate del 2007. Una canzone che parla della necessità di cambiare strada nell’utilizzo delle risorse del nostro pianeta, ma anche di noi stessi che dobbiamo prendere coscienza per la salvaguardia dell’ambiente, per lasciare un luogo vivibile alle future generazioni. Dal progetto video è stato realizzato un cd con altri brani, che ora suoniamo nei palchi dove ci esibiamo, nella speranza di poterlo pubblicare al più presto. 

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©️Riproduzione Riservata 

 

[Articolo pubblicato il 15 Dicembre 2019 su Olbia.it]

Atelier Bolt | Segni dell’anima: l’arte astratta di Jean Córdova

Accadrà ancora, di nuovo

l’immagine frana nella luce

succede sempre, senza scampo

nulla torna mai intero. 

 

Italo Testa 

 

Nel cuore dell’Europa, in quella zona della Svizzera orientale definita Cantone dei Grigioni, dove la natura si veste di abbracci tra acque lacustri, montagne di luce, cieli che filtrano sogni, in un dinamico centro d’arte, l’Atelier Bolt di Klosters, è in corso la prima solo exhibition dell’artista tempiese Giancarlo Orecchioni, in arte Jean Córdova.

La retrospettiva a cura di Adrian Schütz, storico dell’arte, è in mostra fino al 15 novembre 2019,  espone le opere di un lungo arco temporale: dal 2009 ad oggi. Questo, permette di analizzare  il lungo percorso evolutivo e di ricerca del giovane artista.

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©️Archivio Atelier Bolt

La sede espositiva, di proprietà dello scultore Christian Bolt ha una funzione rilevante nel suo porsi centro di promozione e sostegno dell’arte. Infatti, con cadenza annuale si allestisce una mostra dedicata ad un giovane artista emergente, ovvero che sia riuscito ad imporsi con il suo caratterizzante linguaggio espressivo tra quelli complessi e polimorfici dell’arte contemporanea.

Christian Bolt è uno scultore molto apprezzato, celebre per le sue intense sculture. Tra i suoi estimatori troviamo il grande cantante pop Elton John, che  ha  acquistato alcune opere per la sua eterogenea e ricca collezione d’arte. 

Jean Córdova, l’artista scelto per l’anno 2019, vive tra la Sardegna e la Lombardia, anche se da alcuni progetti sembra mostrare un legame indissolubile con la sua città natale, Tempio Pausania, in Gallura. 

Luogo con un caratteristico centro storico, dove i frammenti di quarzo, dal granito delle case,  sembrano brillare a seconda dell’inclinazione dei raggi solari. Ora riflettono, ora assorbono  luce, creando atmosfere dai forti contrasti: gioia o malinconia.

Ma ciò che pervade è una sensazione di atemporalità, di pacatezza, di misura, di silenzio, in spazi preposti alla meditazione e al riposo. Da quel piccolo centro si origina quella riflessione profonda che diviene paradigma e struttura del linguaggio artistico di Jean Córdova. 

Dopo aver frequentato il liceo artistico nella sua città natale, l’artista continua la formazione a Carrara iscrivendosi all’Accademia di Belle Arti e in seguito allo IED – Istituto Europeo di Design – di Milano. In quegli anni di peregrinazioni incontra lo scultore Christian Bolt che sarà una figura di riferimento per la sua “crescita artistica e umana”.

Oggi Jean Córdova è un’artista stimato, che ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Presente in mostre personali e collettive in varie regioni d’Italia dal 2008.  Qui, si ricorda tra gli artisti che hanno rappresentato la  Regione Sardegna nel Padiglione Italia di Torino, in occasione della 54 Biennale di Venezia.

Da un primo sguardo d’insieme alle opere pittoriche  di Jean Córdova è possibile evidenziare la sua vocazione astratta, (anche se lui non ama definirsi astrattista) tendenzialmente aperta a continue sperimentazioni, non legata ad alcun elemento figurativo. Le forme nascondono  tracce di vita da cui attingono e divenute simboli  ne abbracciano pensieri, concetti. 

Un’arte concettuale, introspettiva che sembra riflettere l’altro da sé che appare molto vicina all’interessante avanguardia americana degli anni ‘50, definita Espressionismo Astratto. Aldilà della sgocciolatura o action painting inventata da Jackson Pollok, o del clima di protesta che aveva determinato la nascita del movimento, qui sembra si assista alla presenza di una certo gesto spontaneo delle pennellate,  ad ampie stesure del colore, semplificazioni,  scelte cromatiche più vicine allo spirituale dell’arte di Vasilij Kandinsky dove il colore  assume un  valore semantico.

Le opere del Córdova oltrepassano la sfera della fisicità, del realismo, esprimono concetti/idee che sembrano disporsi  in una rete di ricordi associativi. Ogni idea ne richiama un’altra.

La relazione come struttura del  conoscere è un campo d’indagine della filosofia del ‘900, l’artista sembra supportare questo indirizzo presentato in  varie serie con elementi interconnessi  tra loro, permettendo di cogliere quell’unità semantica che altrimenti non potrebbe esser colta.

 

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Serie Aegritudo Fulgura #2 – Courtesy of Jean Córdova 

Una serie realizzata nel 2015 s’intitola “Aegritudo”. Mostra una esperienza estetica che riesce a dare forma all’imponderabile. Il titolo è una parola latina che significa sofferenza dell’anima, lacerazione, strappo.

Sulla tela segni di margini, confini, ripetizioni, ma anche legami, contatti. Lo spazio appare circoscritto. Si può leggere un certo dinamismo e prospettiva. Il cerchio è la figura/simbolo che prevale. Si stacca dalla tela. Un malessere che incide, lascia traccia ma sembra originare una luminosità circoscritta differente. Un varco, una potenzialità. L’alternativa, un mutare.

Sisifo invece è un’opera – all’interno della stessa serie, sulla sofferenza dell’anima -che richiama un mito della Grecia antica.  L’uomo più astuto tra i mortali, nel Regno dell’Ade  vive la ripetizione eterna di una stessa azione, quasi un’automa, privato della sua volontà, è costretto a trascinare un pesante masso lungo un pendio collinare in modo ciclico (raggiunta la vetta il masso cade a valle e Sisifo lo ritrascina a monte).

Un’immagine dell’uomo contemporaneo, soggetto a corsi ricorsi iconicizzati, un silente urlo di dolore: quella ripetitività diviene immobilismo, impedisce un’evoluzione.

Anche in questa tela sembra che l’oscurità e i lembi della lacerazione lascino spazio a significati diversi. Una potenzialità inespressa rimane sospesa. Gli accenti cromatici ora più sfumati, rosso e viola. La luce una verità di presenza, di possibilità. La ripetitività aliena forza  che devasta, segrega.

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Serie Rerum Naturae (Corpora Rerum) – Courtesy of Jean Córdova 

La necessità di un’indagine metafisica è presente nell’opera “Rerum Naturae” (Corpora Rerum)  tradotto dal latino la “Natura delle cose” – i corpi delle cose. La scritta latina potrebbe ricondurci al poema lirico scritto da Lucrezio, De Rerum Natura, nel I sec.a.C. Forse acquisisce l’idea di Lucrezio che la natura è materia ma anche  vuoto? Nell’opera “Incertus” l’indagine viene spostata verso le categorie di tempo e spazio. 

Continua nelle sue ricerche filosofiche ora più impregnate di esistenzialismo. L’uomo non è solo essere ma esser/ci, e in quanto esistenza sente l’esigenza d’indagare sull’animo umano e sui tormenti della contemporaneità.

Un’opera s’intitola “Acedia”. “Una brutta bestia” che immobilizza l’essere umano e se analizziamo il disegno sembra visibile un volto stilizzato di un animale.

Colpisce per i segni scuri, di un nero intenso e cupo nella parte bassa, che lentamente virano verso un rosso Persia o veneziano nella parte più alta. Una via di fuga determinata da una fonte di energia? dall’amore? Da una rinnovata spiritualità? O semplice consapevolezza?

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 Serie Aegritudo, Acedia 2015 – Courtesy of  Jean Córdova 

Dal greco akedia: malinconia da spirito di solitudine, da mancanza d’interesse, da noia. E citiamo l’esistenzialista, intellettuale Jean Paul Sartre che ne parla in un suo capolavoro La Nausea, sostenendo che l’acedia si identifica con la nausea, il non senso che trasforma l’essere fino allo smarrimento e depressione. Legato all’insoddisfazione che si cronicizza, nell’individuo crea fratture e in un percorso di vita, argina o delimita sempre più lo spazio esistenziale.

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Serie Come Vaganti, Ad Oriente 2016 – Courtesy of Jean Córdova 

In una serie del 2016 “Come vaganti” sembra sviluppare concetti di libertà spazio-temporale. “Vagare” è un andare senza meta, quasi “un brancolare nel buio” avvolti dal mistero del destino, quel filo che lega la vita alla morte.

Si tracciano percorsi emotivi, esperienze, sensazioni, materia che l’artista traduce e vivifica attraverso il suo linguaggio espressivo. Sotteso un monito che sembrerebbe  racchiudere un celebre proverbiò che dice  “se non sai più dove stai andando, ricorda da dove vieni”. Ma si potrebbe alludere all’eterna inquietudine dell’essere umano che alimenta l’energia vitale e creatrice?

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Serie Oblomov, #5 – Courtesy of Jean Córdova 

Nella serie “Oblomov” del 2016 la forma diviene margine, ha funzione decorativa. Assistiamo a pennellate piatte, larghe che mostrano un ritmo simmetrico.  Lo spazio diviene luogo esperienziale da riempire di eventuali finalità/contenuti.

 In alcune tele la presenza di sottili segni verticali possono alludere alla velocità. Forse la fugacità della vita, tra incidenze che plasmano significati e formano l’essere umano.

Ma chi era Oblomov e che rapporto ha con le opere dell’artista? Qui si potrebbe evocare il personaggio del celebre romanzo di Ivan Gončharov, capolavoro della letteratura russa.

Oblomov era un uomo ricchissimo che viveva una vita “sospesa”: un continuo rimandare il momento del suo vero e autentico vivere. Viveva di riflessi, delegando, oziando. Una vita intrisa di paure, idee preconcette e pregiudizi. Una triste vita a margine del fluire dell’esistenza. Nelle tele lo spazio centrale libero, esprime l’assenza,  potrebbe contenere una sintesi esperienziale, sembra preposto ad accogliere.

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Un grembo gonfio di nuvole d’oro, o grigie, e nere (Serie In forme) Courtesy of Jean Córdova 

Dopo l’indagine sullo spazio esistenziale dove si aggira l’essere nella sua affannosa  ricerca, la serie “In forme 2018” presenta alcune opere con cromatismi che evocano plasticità, in altre sembra si attribuisca alle pennellate una certa tensione dinamica o si cerca di definire lo spazio con piccole campiture di colore tipo taches (macchie).  

Nell’opera presentata sopra vi è un percorso che si snoda all’interno di un campo cromatico giallo che trasuda energia. Un volgersi verso, un tendere a,  si focalizzano   passaggi che implicano stadi necessari per raggiungere l”in forma”. Ovvero, nella vita di ogni individuo assume valore fondante l’esperienza che ci forma e ci definisce nell’essere.

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Serie Labirinti: Labririnto + Case + Acqua, 2009 Foto G.Pedroni Courtesy Jean Córdova 

In Jean Córdova, o almeno in queste opere analizzate e visibili in mostra, appare inscindibile il binomio arte e filosofia. Infatti è possibile delineare una propensione ad una indagine  metafisica e esistenziale dove “l’uomo è natura che prende coscienza” – per utilizzare le parole di un grande libero pensatore Élisée Reclus, –  s’interrela con lo spazio ed è caratterizzato da quell’anelito esistenziale che lo conduce verso un cercare infinito.

Sono presenti dei passaggi che inducono ad una consapevolezza maggiore del desein (esserci) di Martin Heidegger: l’uomo è da considerarsi non solo nel suo essere ma con una finalità quella del cercare, che implica dei percorsi e definisce l’esser/ci.

Si può ritrovare inoltre quella soggettività che tradotta come energia e movimento da Jackson Pollock, ha reso visibili ricordi, pensieri, sfumature dell’animo. Il piacere estetico potrebbe esser il “riflesso filosofico della verità” come avrebbe detto lo storico dell’arte Michel Seuphor mentre la natura della forma è l’incarnazione della sua stessa vita.

Un artista che scruta con accuratezza il suo presente contemporaneo, da cui enfatizza quel passato che struttura l’istante  vissuto e nella sua ricerca di resa d’assoluto o di tensione universale del suo rappresentare,  permette di smarrirci tra meraviglia e stupore: quale la risacca dell’onda nel suo rimaner sospesa. 

Quell’istante trascurabile, che noi a stento riusciamo a vedere assume un’importanza straordinaria. È la tregua che ritempra l’animo in ascolto al respiro della vita. Il luogo  che permette di ritrovare unicità, semplicità, verità. Sì, perché negli spazi creati da frammenti, negli istanti sospesi, lì palpita la vita nella sua potenzialità. Un decostruire per ridefinirsi e aprire la mente verso nuovi flussi di pensiero.

“Ogni persona che vive nel ventesimo secolo dovrebbe  sapere che la perfezione fisica è che la conoscenza quantitativa o scientifica è semplicemente informazione o un assoluto di perpetua incompletezza, e che l’estetica è quasi completa o perfetta come possiamo, essendo l’unica forma qualitativa di conoscenza che possediamo”. (Michel Seuphor – Abstract Painting Lauren Edition)

 

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©Riproduzione Riservata

 

(Articolo pubblicato su Olbia.it il 3 novembre 2019)

MAN | Arte Sarda nei nuovi percorsi espositivi : Anna MARONGIU e Collezione Permanente

Nelle ultime stagioni espositive, il Museo MAN  ha approfondito il ruolo della Sardegna, crocevia nell’area mediterranea,  “di flussi culturali, sociali e politici”.  Oggi propone due nuovi percorsi museali per riallinearsi a quello spirito che da sempre lo contraddistingue e che possiamo sintetizzare con due parole: indagine/ricerca e valorizzazione, metodi che hanno permesso di implementare la collezione permanente e promuovere opere di talentuosi artisti sardi.

Assistiamo, dunque, ad un nuovo sguardo sulla contemporaneità per mezzo di quel passato che ci definisce, delinea la nostra identità culturale e ne segna l’evoluzione estetica con due mostre dedicate all’arte sarda del Novecento.

La prima, un’importante retrospettiva a cura di Luigi Fassi,  con opening venerdì 8 novembre 2019 fino a domenica 1 marzo 2020, su Anna Marongiu (Cagliari 1907 – Ostia 1941), una grande artista scomparsa prematuramente a soli 34 anni, che ha lasciato un interessante corpus di opere, nonostante la vita abbia reciso troppo presto i suoi sogni.

Anna Marongiu per Il Circolo Pickwick – Courtesy Museo MAN

In esposizione avremo tre cicli di illustrazioni dedicati ad alcuni capolavori della letteratura inglese e italiana: la serie completa delle tavole di Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare del 1930, le illustrazioni de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni del 1926 e le tavole de Il Circolo Pickwick di Charles Dickens  del 1929.

L’elemento più prezioso della retrospettiva è  quest’ultima serie di tavole provenienti dal Charles Dickens Museum di Londra. Esposte per la prima volta in un istituzione museale, dopo ben novant’anni dalla loro realizzazione. Per la gioia di grandi e piccini, le 262 tavole realizzate a inchiostro e acquarello raffigurano le scene e i protagonisti del primo romanzo, capolavoro della letteratura inglese, che il geniale Charles Dickens scrisse nel 1836 “The Pickwick Papers”, pubblicato in fascicoli secondo la consuetudine del tempo.

Oltre all’esposizione è possibile vedere un breve docufilm  sull’artistarealizzato dal MAN e Film Commission Sardegna in collaborazione con il Charles Dickens Museum – con la regia di Gemma Lynch.  Inoltre, correda la  mostra il catalogo edito da Marsilio Editore.

Anna Marongiu

Ma chi era Anna Marongiu? Un’artista molto riservata, come si racconta. Devota alla sua arte, al suo disegnare. Era una persona curiosa e attenta alla realtà che la circondava. Grande osservatrice dei caratteri umani che traduceva in segni definiti, precisi, puliti.

Nelle sue delicate e raffinate illustrazioni,  ogni tratto sembra scorrere fluido senza incertezza,  legato al successivo con una straordinaria lucidità e immediatezza del gesto, del segno, per risultati equilibrati, armonici.

Una plasticità ricercata con resa tonale ben sfumata. Capace di penetrare l’animo dei personaggi raffigurati, si mostra abile nell’introspezione  psicologica sì da definire paradigmi caratteriali del genere umano che traduce con vigore espressivo. L’immediatezza visiva coinvolge e chiarifica le minuziose descrizioni dello scrittore e come per magia ci si ritrova protagonisti del racconto. 

Anna Marongiu si forma presso l’Accademia Inglese di Roma.  Ma fin da subito mostra “grande capacità di sperimentazione alle molteplici tecniche come il disegno, l’acquaforte, l’olio, il bulino. Il suo registro linguistico, caratterizzato da una forte espressività del segno, si muove tra l’umoristico e il drammatico, il comico e il mitologico, trovando originalità e vigore in tutte le tecniche da lei adoperate”.

La Galleria Palladino, importante centro d’arte di Cagliari, ospitò una sua prima mostra personale che in seguito le permise, nel 1940, di partecipare  alla Mostra dell’incisione italiana moderna di Roma.

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Anna Marongiu per Il Circolo Pickwick – Courtesy Museo MAN

Sorprende come oggi questa artista fosse un po’ dimenticata. Purtroppo sembra un destino comune a molti. Ancora tanti gli artisti sardi,  con linguaggi espressivi originali che meritano di esser  valorizzati.

L’ombra del mare sulla collina

La seconda mostra – che inaugura l’8 novembre 2019 ma termina domenica 12 gennaio 2020,  a  cura di Luigi Fassi e Emanuela Manca  presenta un titolo di evocazione surreale che vagamente potrebbe ricordarci l’eccentrico ma incantevole artista Salvador Dalì “L’ombra del mare sulla collina”,  vede esposte alcune opere della ricca e poliedrica Collezione Permanente del MAN tra disegni, pitture, sculture e film.

Il percorso espositivo ricostruisce le vicende artistiche del Novecento sardo attraverso alcune opere, tra le più rappresentative della collezione, e prosegue fino al presente instaurando uno stretto dialogo con diversi autori contemporanei.

La mostra prende nome da un’opera di Mauro Manca (Cagliari 1913 – Sassari 1969), – artista brillante, poliedrico, inquieto, – che segna un preciso momento storico del secondo dopoguerra, quando anche la Sardegna sembra aprirsi  ai linguaggi dell’arte moderna.

 

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Mauro Manca, L’ombra del mare sulla collina, 1957 – Courtesy Museo MAN

L’eterogeneità della storia artistica sarda, si palesa in confluenze e rimandi tra i vecchi linguaggi legati alla tradizione e quelli innovativi più vicini alle nuove forme sperimentali più spirituali, più introspettive, tese verso l’astrattismo. 

In esposizione le vedute di interni di Giacinto Satta e le nuove acquisizioni di Aldo Contini, Anna Marongiu e Mario Paglietti. Inoltre, avremo in mostra opere di artisti dai differenti linguaggi espressivi, divenuti figure chiave della scena artistica sarda: Edina Altara, Italo Antico, Antonio Ballero, Alessandro Bigio, Giuseppe Biasi, Giovanni Campus, Cristian Chironi, Francesco Ciusa, Giovanni Ciusa Romagna, Delitala, Francesca Devoto, Salvatore Fancello, Gino Fogheri, Caterina Lai, Maria Lai, Costantino Nivola, Rosanna Rossi, Vincenzo Satta, Tona Scano, Antonio Secci, Bernardino Palazzi.  A loro il merito di aver elaborato quei codici espressivi caratterizzanti l’arte dell’isola nel secolo scorso, creando contaminazioni presenti in alcuni artisti contemporanei.

Vogliamo, infine, ricordare le parole di una grande collezionista, Peggy Guggenheim: “sostenere e promuovere l’arte e gli artisti è un dovere morale” imprescindibile. L’arte è vita. Un riflesso della società che allude a conoscenza, delinea nuovi percorsi, suggerisce nuovi sguardi/idee.  Lodevole l’impegno delle istituzioni museali o fondazioni private  che promuovono  e valorizzano ciò che il tempo talvolta sembra occultare.

 

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©Riproduzione Riservata

(Articolo apparso su Olbia.it il 27 Ottobre 2019)

 

 

 

 

 

Musica | esplode l’anima del rock con i bravissimi Rock Tales

La Sardegna terra di silenzi, stasi e ripetizioni quasi un riflesso del suo mare, presenta esperienze culturali molto antiche di carattere etnografico. Tra queste le feste patronali che esercitano sempre grande fascino, molto suggestive nei riti  e consuetudini, molto sentite da parte dell’intera comunità; anche se alcuni antropologi sostengono che siano destinate a scomparire a causa del dilagante materialismo culturale, della globalizzazione che implica il concetto di appiattimento, di indifferenza, di atipicità, di disuguaglianza. Ma per noi sardi le radici culturali non sono solo ben impiantate, sono disperse nella roccia atavica e nel nostro mare che lambisce le coste. Sarà difficile sradicarle.

Queste feste un tempo erano momenti in cui prevaleva una sensazione di libertà e leggerezza, di distensione e gioia.  Ci si sentiva liberi di socializzare. Anche i piccoli avevano i loro privilegi: poter giocare e rincorrersi davanti al palco, dove si esibivano gli artisti della serata.

Impegno e presenza

Oggi le feste patronali sono organizzate da comitati spontanei delle comunità, dalle classi o in dialetto gallurese “fidali”, nati nello stesso anno. Le Classi/Comitati provvedono a curare ogni particolare organizzativo come ad esempio ricevono le bandiere del Santo o della Santa di cui ricorrono i festeggiamenti e allestiscono la chiesa, organizzano la processione religiosa, provvedono al divertimento della comunità coinvolgendo artisti, dj, cabarettisti etc…

Il lavoro impegnativo e gravoso nella raccolta dei fondi, nel predisporre tutto secondo i severi parametri della sicurezza non sono inezie, richiedono dinamismo, capacità organizzative e spirito di sacrificio.

Un riscontro di presenza da parte del pubblico dovrebbe esserci per  supportare e condividere chi organizza. Altrimenti sembrerebbe una festa privata, priva del significato primario della condivisione collettiva.

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Courtesy  of Rock Tales

Ma la tramontana ha anima rock?

Con un’aria dal sapore di tramontana sferzante, autunnale, sanamente combattuta con birra, buon vino rosso di  produzione locale, sambuca e del filu ferru (l’elisir di lunga vita della gente sarda)  qualche sera fa abbiamo assistito ad un’esibizione che merita di esser scolpita nella memoria.

Sul palco di Berchiddeddu (frazione di Olbia) in occasione della festa patronale 2019 in onore alla Beata Vergine Immacolata si sono esibiti i Rock Tales, una tra le band più apprezzate della Sardegna, in uno spettacolo avvincente sulla storia del rock, dagli anni ‘50 ai ‘90 del secolo scorso, con parallelismi storici e interferenze nella musica italiana.

Oltre due ore di greatest hits dei più grandi cantanti e gruppi rock della storia musicale, suddivisi secondo decadi, a cui si attribuisce un colore e relativo significato per rappresentare gli elementi più cool della musica del periodo.

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Photo ©credits Antonella Mura courtesy of Rock Tales

Con l’ausilio di uno schermo, dove scorrevano immagini e le caratteristiche del periodo musicale presentato, abbiamo riascoltato canzoni di Elvis, Beatles e del gruppo rivale Rolling Stone,  Jimi Hendrix, Jim Morrison e Doors, Janis Joplin, Deep Purple, e ancora Led Zeppelin,  Toto,  Queen, Nirvana e tanti altri artisti.

In scaletta erano presenti  anche canzoni di cantanti italiani per evidenziare le relative assonanze con la storia del rock: come Celentano, con la sua mitica Svalutation, la PFM, Lucio Battisti, Gianna Nannini, Litfiba, Vasco Rossi. A ciò si aggiungevano i continui riferimenti alla storia socio-culturale dei periodi analizzati  mostrando capacità di sintesi  e  ingegno  divulgativo della band.

 

Il progetto musicale Rock Tales

Il progetto  musicale nasce nel 2013 come storia del rock  dalle sue origini blues degli anni ′50, negli Stati Uniti,   fino agli anni ′90  ovvero la sua evoluzione in rock and roll e altre forme.

Da Johnny B. Goode del musicista americano Chuck Berry del 1958 in cui si parla del sogno americano preannunciato dalla madre di un ragazzo semplice, di campagna che pur non sapendo né scrivere né leggere riesce ad aver successo per il suo talento naturale nel suonare la chitarra.

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Photo ©credits Antonella Mura courtesy of Rock Tales

Era un blues rock di riscatto, con implicito riferimento alla  disuguaglianza e differenziazione delle classi sociali americane e al sogno di giustizia e integrazione della popolazione nera nella società americana. Infatti, il brano originale citava un ragazzo di “colore”, che poi Berry sostituì con ragazzo di “campagna” , per timore che il pezzo non venisse pubblicizzato trasmesso in radio. Il talento che uno possiede prescinde dal colore della pelle. Fu questo il vero significato purtroppo celato.

Poi è la volta del rockabilly, la musica dei bianchi. La canzone di Carl Perkins di cui si fece grande interprete Elvis Presley. Una canzone che in sé sembra non aver significato, mentre se approfondiamo la storia si capisce l’intenzione, forse in chiave ironica: lo sconcerto e disapprovazione di chi vede un ospite di una festa preoccuparsi delle sue scarpe di camoscio blu che erano state calpestate, non curandosi della donna che aveva accanto. Un linguaggio allusivo che sembra volerci suggerire che nella vita bisogna dare il giusto valore alle cose.  Perché preoccuparsi di una  cosa marginale e secondaria? Un paio di scarpe!?

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Photo ©credits Antonella Mura courtesy of Rock Tales

E la storia del rock continua con nuove suggestioni, significati, forme, come ad esempio lo struggente rock acustico o quello elettrico e quello più attuale.

Un immenso progetto musicale che unisce tutti.   Oggi appare  sempre  più apprezzato, anche per la genialità del gruppo che riesce a rinnovarlo: annualmente al tour si aggiungono date e vengono inserite nuove canzoni.

Il gruppo composto da eccellenti musicisti professionisti, – insegnanti di musica della zona di Oristano e Medio Campidano, – ha donato ai presenti uno spettacolo che trasudava saggezza, energia, positività. Ma non solo, anche tanta nostalgia di un tempo che ormai vive solo nei ricordi, insito in quelli che lo hanno  vissuto.  Periodi storico-culturali in cui originalità e creatività non erano concetti ma idee che si concretizzavano, si perseguivano, avvincevano e a volte scioccavano per imprevedibilità e spavalderia. Era rabbia e sete di giustizia, desiderio di riscatto,  pace, vita, e ancora erano armonizzazioni musicali quasi frasi ristoratrici dove l’anima trovava riparo dal caos esistenziale d’insanabile inquietudine.

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Photo ©credits Antonella Mura courtesy of Rock Tales

E ora il gruppo:  voce solista potente (Freddy avrà applaudito da lassù!) quella di  Martino  Mereu, insegnante di canto, voce versatile, fresca, che “spacca” (per utilizzare un termine caro alla cantante inglese Skin, giudice in un talent televisivo), Marco Pinna al basso e voce, GianMatteo Zucca chitarra e voce, Giovanni Collu alla batteria, Alberto “Benga” Floris chitarra e voce.

Non solo musica

Da un punto di vista tecnico confrontandoci possiamo considerarli eccellenti musicisti in armonia, senza individuali virtuosismi (possibili visto lo spessore dei musicisti sul palco) ma equilibrati e attenti a ricreare la giusta atmosfera musicale del pezzo suonato. Sembrerebbe una formazione insolita, per la presenza di due chitarre, atte a ricreare la parte armonica e solista, a supporto della melodia cantata. Tutte le parti armoniche delle tastiere sono state minuziosamente ricreate per chitarra, facendoci dimenticare la loro assenza in brani indelebili della nostra memoria musicale.

I due chitarristi si mostrano affiatati e intercambiabili nelle parti soliste e armoniche. La struttura ritmica viene eseguita dall’eccellente batterista di rinomata esperienza Giovanni Collu, supportata in simbiosi dal bassista Marco Pinna. Vanno inoltre menzionate le perfette armonizzazioni corali del gruppo creando un valore aggiunto  all’esecuzione.

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Photo ©credits Antonella Mura courtesy of Rock Tales

Ma sul palco non è solo canto, è presenza scenica non sguaiata. Ci si diverte e si scherza. Si manifesta una velata ironia. Ora sembra impetuosa, ora ha tinte più delicate. D’altronde tanti affermano che bisogna staccarsi dalle cose, con giusta ironia,  planare dall’alto per capire a fondo situazioni ormai legate al tempo.

Ora ci inducono a pensare con estemporanei quiz o riflettere su parole del passato,  allusioni a  incandescenze di vita sociale al di là di ogni logica, come i conflitti armati e la corsa agli armamenti, la globalizzazione, il materialismo ormai erba infestante, libertà di genere.

La musica diventa “struttura” sociale dove ricollocare il pensiero dell’uomo nel suo percorso. Loro l’hanno raccontata rendendola unica dove le differenze di forma sembrano annullarsi per con/temporaneità.

Oggi pur con forme diverse  permangono i significati. La  musica continuerà ad essere l’espressione più democratica, unirà, azzererà il tempo fino ad varcare la soglia dell’eternità. Dove eterna presenza diverrà una bella emozione. Oggi come ieri.

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© Riproduzione Riservata

All Photos ©credits Antonella Mura courtesy of Rock Tales

 

(Articolo apparso su Olbia.it 08 Settembre 2019)