Un filo che intreccia umanità: l’opera “Noi e il mondo”di Gabriella Locci

Per essere nella storia bisogna fare storia, non uniformandosi al già fatto, ma con un’opera nuova”. Parole dell’artista sarda di Ulassai, Maria Lai, che rivelano l’essenza dell’arte intesa come partecipazione attiva nel fluire del tempo, scandita dal suo costante rinnovarsi alla scoperta di nuovi linguaggi.

Il valore semantico di in/nov/azione ci lega al lavoro di un’artista sardaGabriella Locci che alcuni giorni fa, ha presentato – insieme a Dario Piludu e con la collaborazione dell’AES – Associazione Editori Sardi – l’opera “Noi e il mondo”, in uno dei numerosi incontri culturali inseriti nell’evento tenutosi a Tempio Pausania “Qui c’e Aria di Cultura”  per  L’Isola dei Libri, mostra libraria dell’editoria sarda.

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Courtesy of ©Archivio AES ph. Salvatore Taras

L’opera, espressione di arte relazionale e partecipativa, evoca quella che Maria Lai realizzò nel settembre del 1981 “Legarsi alla montagna”. L’artista coinvolse l’intero paese di Ulassai facendo legare case e montagna con un lunghissimo nastro celeste.  Ma, l’opera di Gabriella Locci si diversifica e si rinnova, presenta un suo peculiare carattere.

L’artista

Gabriella Locci di origini cagliaritane è la direttrice di Casa Falconieri, centro di ricerca per le arti visive: incisione, stampa digitale e video. 

Il suo linguaggio espressivo raffigura una dimensione esistenziale in cui si  sofferma a riflettere sui significati dell’esistere: il rapporto dell’uomo con gli altri, con le cose, con il mondo, che traduce facendo affiorare quell’imponderabilità, ineluttabilità, quel lato oscuro che lega l’esistenza di ogni individuo a nuove possibilità e significati.

 

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Atlantica 4,  2005 – Courtesy of Archivio Gabriella Locci

Nelle sue opere sono presenti segni di vita, interferenze, ferite, punti di fuga tra  campiture chiare: respiri di luce o di pensiero che si rifrangono, collegano, inducono a  scelte e scon/volgono.  Tracce quali sofferenze ataviche – che ora, rivestite di forza e passione, aprono varchi a nuove sfumature,  alterità, luoghi mentali.

Nell’atto dell’incisione, l’impressione finale può mutare la forma. I colori (dominanti rosso e nero) si estendono verso nuovi spazi, si creano nuove fessure – alternative dell’esistere –  e si aggiungono nuove “pieghe”, nuove esperienze. 

Da uomini in cammino siamo resi automi dall’incertezza che si percepisce come ineluttabile e imponderabile ma che si rivela come possibilità (Husserl). L’uomo è un semplice modo d’essere che mostra una “determinata situazione” soggetta a “deviazioni”, intese come opportunità.

Se ci focalizziamo su un percorso di vita possiamo visualizzarla come un’insieme di  esperienze che, sottratte alla volontà dell’uomo, si offrono nel loro accadere  con nuovi significati, a volte incomprensibili, che poi l’azione del tempo le rende intellegibili, ma sono sempre possibilità.

Courtesy of ©Archivio AES ph. Salvatore Taras

L’opera “Noi e il mondo”

A Tempio l’artista ha presentato la sua opera performativa “Noi e il mondo”,  dove la fruizione dell’opera si è definita nell’interrelazione tra i presenti (arte  partecipativa): un’esperienza socio-culturale di condivisione di segni letterari della nostra identità, per acquisire o fortificare la consapevolezza del loro valore.

L’opera si presenta come un libro antico, una pergamena arrotolata, realizzata in stoffa, dipinta dall’artista con colori e tracce che alludono alla terra di Sardegna.

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Courtesy of ©Archivio AES ph. Salvatore Taras

La tela è tempestata di spazi e pennellate di colore, intenso o sfumato che comunicano una tensione emotiva tracciata da giochi cromatici che prevalgono, si “staccano ”, emergono. 

Il rosso, quale macchia di energia, rimanda al temperamento della gente dell’isola che per il suo stato d’insularità sembra “ripiegarsi” su sé stesso per rafforzarsi, intensificarsi. Un elemento simbolico che allude alla forza degli abitanti, che non solo hanno difeso  le proprie coste,  ma  hanno dovuto affrontare una sfida maggiore: l’incognita di un mare che non sempre si è mostrato amico. 

Doppie sfide,  dove la forza atavica diviene coraggio, perseveranza e ostinazione. Alla fine, orgoglio, per aver superato traversie indescrivibili.

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Courtesy of ©Archivio AES ph. Salvatore Taras

Tra i segni compaiono frasi o #scritturebrevi (codificate dalla linguista Francesca Chiusaroli) dei nostri scrittori Antonio Gramsci, Grazia Deledda, Sergio Atzeni, Giulio Angioni e altri  che ci hanno risvegliati dal torpore e hanno trasmesso forma e sostanza alla nostra coscienza identitaria.  Sono le nostre “radici”.  Esse non temono salinità del mare né la forza aggressiva del mistral che genuflette alberi, ma che non li spezza, perchè  amano abbracciare il vento che ruba superfici, modificando spazi.

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Courtesy of ©Archivio AES ph. Salvatore Taras

La scrittura ci lega al nostro passato identitario,  come questa tela filiforme unisce tutti nel presente. Ora, leggiamo le frasi, le comunichiamo l’un con all’altro, le condividiamo, le “possediamo” insieme. L’individualismo viene rimosso e sostituito da una collettività che collabora e comunica, protagonista della performance.

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Courtesy of ©Archivio AES ph. Salvatore Taras

La tela continua a srotolarsi. Viene dato un lembo a ciascuno dei presenti che leggerà una frase ad alta voce, inizialmente solo, poi tutti insieme in una voce corale. Quella coralità che rinforza e avvolge voci: come l’incalzare del vento, che esprime la sua cultura immateriale con una sonorità diffusa tra fessure, grotte e antri. Un suono primordiale, come le voci crescenti e decrescenti nel salone dello Spazio Faber.

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Courtesy of ©Archivio AES ph. Salvatore Taras

Le parole lette sembravano riflettere quell’intensità, quella vis (si preferisce il valore semantico della parola latina inteso come forza, vigore, valore) propria dei segni sulla tela. Si sentivano addosso. Divenuti  pezzi di tela, la scrittura  veniva  deposta nell’anima stordita dallo sciabordio del tempo passato.

Una performance di arte relazionale molto suggestiva, in un periodo dove la solitudine e l’individualismo sembrano crescere in modo esponenziale.  L’artista  sente  e propone il valore della condivisione come presenza, acquisizione identitaria,  lettura condivisa.

Maria Lai e la fiaba

Maria Lai, – di cui quest’anno si celebra il centenario della nascita, – per realizzare la sua opera di arte relazionale o “scultura sociale” Legarsi alla montagna”,  s’ispira ad  una fiaba, tramandata oralmente, elemento del nostro patrimonio culturale immateriale.

La protagonista, una bambina,  che si  reca  nella montagna vicina per portare il pane ai pastori. Ma improvvisamente nella zona si abbatte un temporale e i pastori con i loro greggi  trovano rifugio in una grotta. La bambina, che stava per entrare dentro la grotta, viene attratta da un nastro celeste sospinto da giochi di vento. Incuriosita si allontana per andare a prendere quel nastro che aveva colpito la sua attenzione. Quell’andar via dalla grotta rappresenta la sua salvezza, perché pochi minuti dopo il soffitto della grotta crolla con i pastori all’interno. 

Legarsi alla montagna

Il nastro azzurro con cui Maria fa legare le case del paese, di porta in porta, ha una finalità: dissolvere inimicizie,  (come lei stessa dirà “storie di malocchio, di furti, di drammi e rancori”).

Dopo qualche timore, tutto il paese si mostra disponibile a collaborare. Il “filo” ora “tesse” case in un “in/camminarsi”comunitario.  Diviene simbolo di unione e di consapevolezza/ verità che la condivisione permette di affrontare difficoltà, paure con intensità differenti.

Il  sentimento di rispetto e amore tra le case viene espresso con un elemento semplice, il pane.  Un’allusione all’istante eucaristico che racchiude il principio dell’amore universale.  Un pane sarà annodato tra le case segnate da fratellanza, reciproco rispetto e amicizia. “Quando gli uomini condividono il pane – diceva Jean Cardonnel – condividono la loro amicizia”

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Maria Lai, Legarsi alla montagna 1981 (particolare)

Il passaggio del nastro viene vissuto come “un’attesa  silenziosa – ricorda Maria Lai – quando si solleva ad arco dalla montagna ai tetti delle case, sembra un getto d’acqua. Si scatenano urla, battimani, suoni di clacson, canti e balli fino a notte inoltrata.”

Il nastro, che a Maria evoca l’acqua, sembra esprimere una catarsi collettiva. Una purificazione. Da quel momento, il paese sconosciuto si ritrova inserito nella storia sociale, mostrando un progresso di consapevolezza e coscienza civile che nessuna forma politica sarebbe riuscita a realizzare.

Un’esperienza che ha segnato il paese di Ulassai e gli abitanti che presero parte al progetto, s’inscrive nella memoria storica mostrando un valore inestimabile perché soggiace ad un’intuizione mai pensata in precedenza. L’esperienza di Gabriella Locci, pur con rimandi a “Legarsi alla montagna”, è caratterizzata dal suo incessante ripetersi nell’infinito presente e assume valore  più con/temporaneo.

 

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