#ConnessioniInventive | Il filosofo Giovanni Leghissa parla di vincoli e libertà

“La filosofia è tornata nella piazza” scrive su “Aut Aut” la filosofa Laura Boella e si può trovare anche in “cucina” sotto forma di ottima “ricetta” per lo spirito.

La filosofia sembra essersi alleggerita del suo status “inafferrabile” e oggi si riscopre quale “strumento“ di trasformazione interiore, di terapia per l’anima. Ma non solo. Sembra scalpitare dal desiderio di vivere non più al margine, ma “dentro” il sociale.

Con valenza metaforica appare il celebre dipinto di Michelangelo, il Giudizio Universale della Cappella Sistina, dove Dio sfiora il dito di Abramo per donargli intelligenza.

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Particolare dal Giudizio Universale di Michelangelo – Cappella Sistina 

Anche la filosofia vuole prendersi cura dell’uomo. Trasmettergli mezzi necessari alla sopravvivenza in questo periodo dove l’incertezza, lo smarrimento, la sofferenza tracciano il silenzio surreale delle città deserte.

E domani 16 aprile, alle ore 11, in diretta streaming sul canale Facebook e Instagram del Museo MAN di Nuoro (@museoman) e ICA di Milano (@ica_ milano) il filosofo Giovanni Leghissa professore del Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino, redattore di “Aut Aut” e direttore della rivista di filosofia on line “Philosophy Kitchen” parlerà di alcune tematiche molto attuali: “Il vincolo e la libertà”.

La lecture rientra nel progetto Connessioni Inventive – domani al secondo appuntamento  – a cura di Luigi Fassi direttore del Museo MAN della Provincia di Nuoro e Alberto Salvadori direttore di ICA, Istituto Contemporaneo per le Arti  di Milano.

In un momento in cui tutti siamo obbligati a #stareacasa,  il progetto #connessioniinventive promuove conoscenza umanistica con autorevoli voci della nostra cultura e riabilita la funzione dei social quali validi strumenti di diffusione del sapere.

Si parlerà dei vincoli a cui è soggetta l’azione umana: quello biologico in quanto l’uomo è parte della specie animale,  e quello istituzionale/organizzativo che vede ogni individuo muoversi tra spazi strutturati con regole, consuetudini; e altri, determinati da norme morali.

La domanda d’indagine ruota attorno allo spazio che resta a disposizione dell’uomo affinché possa crearsi una sua esistenza in modo libero e autonomo, senza altre ingerenze. Si parlerà di desideri, di pulsioni per giungere a focalizzarsi sulla libertà.

Se impossibilitati a seguire la lecture in streaming si potrà vedere nel canale You Tube Connessioni Inventive.

Lycia Mele Ligios

©️Riproduzione Riservata

MAN | Arte Sarda nei nuovi percorsi espositivi : Anna MARONGIU e Collezione Permanente

Nelle ultime stagioni espositive, il Museo MAN  ha approfondito il ruolo della Sardegna, crocevia nell’area mediterranea,  “di flussi culturali, sociali e politici”.  Oggi propone due nuovi percorsi museali per riallinearsi a quello spirito che da sempre lo contraddistingue e che possiamo sintetizzare con due parole: indagine/ricerca e valorizzazione, metodi che hanno permesso di implementare la collezione permanente e promuovere opere di talentuosi artisti sardi.

Assistiamo, dunque, ad un nuovo sguardo sulla contemporaneità per mezzo di quel passato che ci definisce, delinea la nostra identità culturale e ne segna l’evoluzione estetica con due mostre dedicate all’arte sarda del Novecento.

La prima, un’importante retrospettiva a cura di Luigi Fassi,  con opening venerdì 8 novembre 2019 fino a domenica 1 marzo 2020, su Anna Marongiu (Cagliari 1907 – Ostia 1941), una grande artista scomparsa prematuramente a soli 34 anni, che ha lasciato un interessante corpus di opere, nonostante la vita abbia reciso troppo presto i suoi sogni.

Anna Marongiu per Il Circolo Pickwick – Courtesy Museo MAN

In esposizione avremo tre cicli di illustrazioni dedicati ad alcuni capolavori della letteratura inglese e italiana: la serie completa delle tavole di Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare del 1930, le illustrazioni de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni del 1926 e le tavole de Il Circolo Pickwick di Charles Dickens  del 1929.

L’elemento più prezioso della retrospettiva è  quest’ultima serie di tavole provenienti dal Charles Dickens Museum di Londra. Esposte per la prima volta in un istituzione museale, dopo ben novant’anni dalla loro realizzazione. Per la gioia di grandi e piccini, le 262 tavole realizzate a inchiostro e acquarello raffigurano le scene e i protagonisti del primo romanzo, capolavoro della letteratura inglese, che il geniale Charles Dickens scrisse nel 1836 “The Pickwick Papers”, pubblicato in fascicoli secondo la consuetudine del tempo.

Oltre all’esposizione è possibile vedere un breve docufilm  sull’artistarealizzato dal MAN e Film Commission Sardegna in collaborazione con il Charles Dickens Museum – con la regia di Gemma Lynch.  Inoltre, correda la  mostra il catalogo edito da Marsilio Editore.

Anna Marongiu

Ma chi era Anna Marongiu? Un’artista molto riservata, come si racconta. Devota alla sua arte, al suo disegnare. Era una persona curiosa e attenta alla realtà che la circondava. Grande osservatrice dei caratteri umani che traduceva in segni definiti, precisi, puliti.

Nelle sue delicate e raffinate illustrazioni,  ogni tratto sembra scorrere fluido senza incertezza,  legato al successivo con una straordinaria lucidità e immediatezza del gesto, del segno, per risultati equilibrati, armonici.

Una plasticità ricercata con resa tonale ben sfumata. Capace di penetrare l’animo dei personaggi raffigurati, si mostra abile nell’introspezione  psicologica sì da definire paradigmi caratteriali del genere umano che traduce con vigore espressivo. L’immediatezza visiva coinvolge e chiarifica le minuziose descrizioni dello scrittore e come per magia ci si ritrova protagonisti del racconto. 

Anna Marongiu si forma presso l’Accademia Inglese di Roma.  Ma fin da subito mostra “grande capacità di sperimentazione alle molteplici tecniche come il disegno, l’acquaforte, l’olio, il bulino. Il suo registro linguistico, caratterizzato da una forte espressività del segno, si muove tra l’umoristico e il drammatico, il comico e il mitologico, trovando originalità e vigore in tutte le tecniche da lei adoperate”.

La Galleria Palladino, importante centro d’arte di Cagliari, ospitò una sua prima mostra personale che in seguito le permise, nel 1940, di partecipare  alla Mostra dell’incisione italiana moderna di Roma.

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Anna Marongiu per Il Circolo Pickwick – Courtesy Museo MAN

Sorprende come oggi questa artista fosse un po’ dimenticata. Purtroppo sembra un destino comune a molti. Ancora tanti gli artisti sardi,  con linguaggi espressivi originali che meritano di esser  valorizzati.

L’ombra del mare sulla collina

La seconda mostra – che inaugura l’8 novembre 2019 ma termina domenica 12 gennaio 2020,  a  cura di Luigi Fassi e Emanuela Manca  presenta un titolo di evocazione surreale che vagamente potrebbe ricordarci l’eccentrico ma incantevole artista Salvador Dalì “L’ombra del mare sulla collina”,  vede esposte alcune opere della ricca e poliedrica Collezione Permanente del MAN tra disegni, pitture, sculture e film.

Il percorso espositivo ricostruisce le vicende artistiche del Novecento sardo attraverso alcune opere, tra le più rappresentative della collezione, e prosegue fino al presente instaurando uno stretto dialogo con diversi autori contemporanei.

La mostra prende nome da un’opera di Mauro Manca (Cagliari 1913 – Sassari 1969), – artista brillante, poliedrico, inquieto, – che segna un preciso momento storico del secondo dopoguerra, quando anche la Sardegna sembra aprirsi  ai linguaggi dell’arte moderna.

 

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Mauro Manca, L’ombra del mare sulla collina, 1957 – Courtesy Museo MAN

L’eterogeneità della storia artistica sarda, si palesa in confluenze e rimandi tra i vecchi linguaggi legati alla tradizione e quelli innovativi più vicini alle nuove forme sperimentali più spirituali, più introspettive, tese verso l’astrattismo. 

In esposizione le vedute di interni di Giacinto Satta e le nuove acquisizioni di Aldo Contini, Anna Marongiu e Mario Paglietti. Inoltre, avremo in mostra opere di artisti dai differenti linguaggi espressivi, divenuti figure chiave della scena artistica sarda: Edina Altara, Italo Antico, Antonio Ballero, Alessandro Bigio, Giuseppe Biasi, Giovanni Campus, Cristian Chironi, Francesco Ciusa, Giovanni Ciusa Romagna, Delitala, Francesca Devoto, Salvatore Fancello, Gino Fogheri, Caterina Lai, Maria Lai, Costantino Nivola, Rosanna Rossi, Vincenzo Satta, Tona Scano, Antonio Secci, Bernardino Palazzi.  A loro il merito di aver elaborato quei codici espressivi caratterizzanti l’arte dell’isola nel secolo scorso, creando contaminazioni presenti in alcuni artisti contemporanei.

Vogliamo, infine, ricordare le parole di una grande collezionista, Peggy Guggenheim: “sostenere e promuovere l’arte e gli artisti è un dovere morale” imprescindibile. L’arte è vita. Un riflesso della società che allude a conoscenza, delinea nuovi percorsi, suggerisce nuovi sguardi/idee.  Lodevole l’impegno delle istituzioni museali o fondazioni private  che promuovono  e valorizzano ciò che il tempo talvolta sembra occultare.

 

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©Riproduzione Riservata

(Articolo apparso su Olbia.it il 27 Ottobre 2019)

 

 

 

 

 

Sardegna | Intervista a Luigi Fassi Direttore del MAN_Museo: l’isola al centro e l’urgenza di condividere cultura

In un clima di fermento culturale per le numerose mostre, ormai diffuse capillarmente in tutta la Sardegna, abbiamo intervistato Luigi Fassi,  direttore del MAN, per conoscere lo stato dell’arte contemporanea nell’isola e le novità della nuova stagione museale.

Luigi Fassi, succeduto nel 2018 a Lorenzo Giusti alla guida dell’istituzione sarda sembra sia riuscito ad implementare visibilità al piccolo museo investendo sulle relazioni, sulla comunicazione e promozione, – merito di un efficiente ufficio stampa, – e  naturalmente su una ricerca estetica e cifra stilistica a tutto tondo:  figurativo, astratto,  scultoreo fino a linguaggi più innovativi come quelli multimediali,  che gli hanno permesso di inserire la Sardegna nel circuito internazionale dell’arte contemporanea.

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Courtesy Archivio Museo MAN ©Confinivisivi

Oltre ad essersi rivelato un direttore intuitivo, si è mostrato dinamico e competente nell’accogliere sempre nuove sfide, nella capacità di diffondere messaggi culturali e farli apprezzare.

Siamo riusciti ad intervistarlo prima della partenza per il Brasile per importante simposio sull’arte contemporanea.

Direttore è reduce da un opening a New York: una mostra legata al MAN con le opere di Sonia Leimer, un’artista di rilievo nel mondo dell’arte contemporanea. Ci vuole parlare del progetto e del significato che assume per il Museo Man?

Nel 2019 il MAN ha accompagnato l’artista italiana Sonia Leimer alla vittoria del quarto bando dell’Italian Council (promosso da MiBAC) con il progetto Via San Gennaro, assieme al centro di arte contemporanea International Studio and Curatorial Program ISCP di New York. A settembre di quest’anno, da pochi giorni si è inaugurata la mostra personale dell’artista all’ISCP e nell’autunno del 2020 la mostra giungerà al MAN – arricchita da una residenza dell’artista in Sardegna (in collaborazione con la Film Commission).

Nel frattempo, a gennaio 2020 uscirà un catalogo monografico su Sonia Leimer, sempre parte del progetto Italian Council, edito da Mousse Publishing e realizzato dal MAN e dall’ISCP di New York.

Per il MAN si tratta di un progetto molto importante. Come da norma dell’Italian Council le opere prodotte dall’artista entreranno infatti nella collezione permanente del MAN, che così continua un periodo intenso di crescita della propria collezione, soprattutto tramite donazioni. Una parte di questi nuovi ingressi è di artisti non sardi e questo è un elemento importante di sviluppo del MAN, una traccia visibile del lavoro istituzionale svolto con le mostre.

Nei prossimi mesi il MAN intende proseguire il supporto alla scena artistica italiana contemporanea anche con una seconda, ulteriore candidatura al bando Italian Council appena inviata.

Lei viene dal Festival Steirischer Herbst (Autunno Stiriano) di Graz. Quanto ha inciso il bagaglio esperienziale acquisito al festival di arte contemporanea sul suo approccio lavorativo al Man di Nuoro?

Lavorare al Festival di Graz è stata un’esperienza fondamentale in quanto incentrata sulla committenza diretta agli artisti di nuove opere e la necessità di seguire tutta la filiera di produzione, avendo un’intera città e una regione, Graz e la Stria, a disposizione come luoghi di riferimento.

Ogni anno il Festival, infatti, si reinventava, invitando artisti a entrare nel vivo del territorio, affrontandone tematiche e peculiarità. La produzione di nuove opere è un tema decisivo oggi tanto per gli artisti che per le istituzioni e ho voluto portare questa priorità al MAN, dove abbiamo avviato progetti di committenza, già dall’autunno del 2018, con le personali di Dor Guez e François-Xavier Gbré.

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Courtesy Archivio Museo MAN ©Confinivisivi

Da esperto di direzione museale e da grande conoscitore delle dinamiche legate ai flussi d’arte contemporanea internazionale, qual è secondo lei lo stato dell’arte in Sardegna? 

La scena artistica istituzionale in Sardegna è vivace, penso ai Musei Civici di Cagliari e a tutto il lavoro che svolgono (citerei ora la bellissima mostra di Arte Povera organizzata da Paola Mura), oppure la Fondazione Nivola, con il suo impegno a studiare la straordinaria figura di Costantino Nivola, e il Macc di Calasetta. Un lavoro notevolissimo per qualità e quantità è portato avanti anche dall’Associazione Cherimus a Perdaxius.

Quali artisti sardi preferisce e perché? Sembra che ci sia un ritorno al figurativo. Condivide?

Credo sia necessario continuare un lavoro di ricerca storica e allo stesso tempo guardare alla vivacità della scena contemporanea. Diversi artisti sardi si stanno muovendo tra il territorio di origine e il mondo globale e ve ne sono di sicuro interesse e avvenire. Penso ad esempio a Montecristo Project.

Ora focalizziamoci sul termine “museo aperto”, di cui lei è un grande sostenitore, tanto da far soggiornare qui artisti di varie nazionalità. Che significato ha per lei (o in generale) la residenza d’artista e quali finalità si pone?

Il progetto di residenze d’artista che abbiamo avviato in collaborazione strategica con la Film Commission Sardegna ha un ruolo importante nell’attività del MAN ed è finalizzato a valorizzare il ruolo della Sardegna come territorio privilegiato di ricerca e produzione per artisti internazionali, guardando con particolare attenzione al mondo del Mediterraneo. La Sardegna è un immenso archivio di ricerca sul mondo mediterraneo e per gli artisti che concepiscono la propria attività come forma di pensiero complesso, è proprio il mondo del Mediterraneo insulare a presentarsi quale luogo particolarmente ricco di suggestioni per il loro lavoro e ricco di formidabili strumenti di lavoro. A Nuoro e in regione ho trovato in tal senso alcuni archivi eccezionali, dall’Archivio di Stato a quelli dell’ente etnografico regionale, l’ISRE, sino alle biblioteche e a fondi privati. Enti e risorse con cui stiamo mettendo in contatto diversi artisti per permettere loro di sviluppare ricerche e produzioni.

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Courtesy Archivio Museo MAN ©Confinivisivi

Parliamo di economia e cultura. Si parla di soft economy legata all’attività museale: fa bene ai territori, tutela il patrimonio artistico e diffonde cultura identitaria.

In Sardegna c’è ancora tanta strada da percorrere, come si potrebbe intervenire?

Si tratta innanzitutto di convincersi che la Sardegna non è ai margini ma al centro del motore della maggior parte dei cambiamenti del nostro tempo in Europa, il Mediterraneo. E che i tesori della Regione, dall’archeologia alla cultura contemporanea, sono poco valorizzati, alcuni addirittura completamente invisibili. Il Distretto Culturale del Nuorese cui noi fortemente aderiamo, sta operando un lavoro brillante per far conoscere tutta la varietà dell’offerta culturale della Provincia di Nuoro e occorre andare avanti con ambizione, superando gli ostacoli dei mille campanili tipici della cultura italiana e anche sarda.

Affinché una struttura museale resista nel tempo, quali elementi dovrebbe possedere?

Una struttura museale vive del rapporto con il proprio territorio e con i propri visitatori, reali e potenziali, in una logica di servizio e di continua offerta. Oggi a ben vedere, una percentuale molto alta nell’occorrenza della parola “Nuoro”, ma anche “Sardegna”, nei giornali nazionali e nella stampa internazionale è legata al MAN, in occasione non solo di recensioni di quotidiani e riviste di settore, ma anche di itinerari turistici per i mesi estivi e focus di scoperta del territorio della Sardegna pubblicati dalla stampa specializzata in turismo e cultura. Questo significa che oggi il MAN è un landmark territoriale, un museo che trasmette un messaggio e un’immagine che include al suo interno buona parte della regione. È una responsabilità civile che il museo ha assunto in modo crescente nei suoi due decenni di attività: quella di interpretare un ruolo guida nell’innovazione sociale e culturale all’interno della provincia di Nuoro e della Sardegna.

Sta per concludersi l’esposizione della stagione estiva: la delicata e malinconica mostra sulla Sardegna del grande artista e fotografo Guido Guidi, celebrata anche dal Financial Times. È possibile conoscere qualche dato qualitativo sui visitatori? 

Ci apprestiamo a chiudere la rassegna stampa prodotta in questi mesi di mostra, e sta assumendo la forma di un dizionario di centinaia di pagine. L’attenzione della stampa e del pubblico è stata enorme, in particolare internazionali. Ma abbiamo avuto un interesse trasversale, locale e straniero, e venduto circa 500 copie di un catalogo impegnativo e ambizioso. Senza contare l’interesse degli addetti ai lavori. Ancora pochi giorni fa dall’Università di Düsseldorf è giunta al MAN una ricercatrice che sta portando avanti un dottorato su Guido Guidi, autore che in Germania ha un seguito attento e ricco di mostre istituzionali.

 

Si potrebbe fare un bilancio sulla sua intensa attività alla direzione del MAN?

Non penso si tratti di fare un bilancio, ma di riflettere sul percorso fatto per meglio interpretare il futuro prossimo. L’obiettivo è continuare a pensare la Sardegna come crocevia di idee nel Mediterraneo, ribaltando la prospettiva geografica, l’asse nord-sud con cui si guarda alla Sardegna. Non un territorio marginale ma un avamposto di elaborazione, un luogo dove percepire in anticipo alcuni dei cambiamenti cruciali del nostro tempo, che passano attraverso il Mediterraneo, per poterli interpretare in maniera diretta.

Nell’anno trascorso è stato fondamentale il rapporto con il territorio, come quello fertile con la Film Commission Sardegna con cui abbiamo avviato il progetto di residenze e coprodotto il workshop con la Quadriennale di Roma che a luglio ha portato a lavorare nell’isola giovani artisti e curatori da tutto Italia con due tutor d’eccezione come Enrico David e Bart Van Der Heide. Sempre con la Film Commission a gennaio abbiamo avviato una collaborazione con la Film Commission di Londra portando sei giovani filmmaker inglesi a trascorrere tre settimane a Nuoro per studiare da vicino i carnevali della Barbagia. Un progetto che rifaremo a breve nel 2020.

Ma penso anche alla collaborazione sempre più forte con l’Isola delle storie di Gavoi con le mostre di Feldmann e Balka, e quella più recente con il Festival della Letteratura di Viaggio, che è approdato a Nuoro per la prima volta l’anno scorso a giugno e che abbiamo voluto far tornare ora a ottobre. Abbiamo poi coprodotto con la casa editrice Arkadia di Cagliari la monografia dell’artista franco-palestinese Maliheh Afnan e strutturato un’importantissima partnership con l’ISRE, culminata in una giornata internazionale di studi su Guido Guidi.

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Courtesy Archivio Museo MAN ©Confinivisivi

Quindi ci sarà in allestimento una mostra sulla Collezione Permanente del Man curata insieme alla Dott.ssa Emanuela Manca, storica dell’arte, può anticipare le tematiche o finalità del progetto espositivo, potrebbe citare qualche autore?

Presentiamo due mostre. Organizzata e curata dal MAN la prima, è una retrospettiva dedicata ad Anna Marongiu (Cagliari 1907 – Ostia 1941) una delle figure più originali e al tempo stesso dimenticate della scena artistica sarda della prima metà del Novecento. Il focus della mostra verte sul suo lavoro illustrativo, proponendo tra altri lavori, la serie completa delle tavole di Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare del 1930 e quella de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni del 1926. La più preziosa opera in mostra e il cuore di tutto il progetto è data dalle 262 tavole de Il Circolo Pickwick di Charles Dickens del 1929 (acquerelli e disegni a penna), in prestito dal Charles Dickens Museum di Londra e oggi per la prima volta visibili in un museo italiano. In occasione della mostra verrà esposto un film di approfondimento sull’artista che stiamo ultimando con la Film Commission Sardegna. La mostra sarà accompagnata da un dettagliato catalogo pubblicato con la Marsilio di Venezia, un libro studio sull’artista e la sua figura.

La seconda mostra è un’articolata esplorazione della collezione del MAN, presentando classici, ma anche opere poco viste e nuove acquisizioni e donazioni. Dopo la mostra al museo comunale di Gavoi nel settembre del 2018 e quella di marzo di quest’anno è la terza mostra di collezione che ho voluto organizzare dal mio arrivo. La collezione del MAN, per la sua bellezza e importanza, è un desiderio per tutto il pubblico del museo ed è sempre una vera gioia poterla condividere e presentarla.

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Courtesy Archivio Museo MAN ©Confinivisivi

Ci saranno laboratori per i più piccini o attività extra come simposi, presentazioni di libri, concerti etc.?

Si. Abbiamo iniziato sabato 12 ottobre con il Festival di Letteratura di Viaggio e  presentato martedì 15 ottobre in anteprima in Sardegna il nuovo romanzo di Marcello Fois, Pietro e Paolo. Seguiranno poi diversi eventi e una continua attività di laboratori per bambini e adulti. Perché il MAN è affollato di scolaresche da tutta la Regione che percorrono il museo ogni giorno (anche oltre mille bambini al mese), di visitatori di tutte le età, tutti con una diversa idea di cosa desiderano vedere e incontrare in un museo. Penso che questa sia una possibile e definizione di museo civico quale il MAN è: un’istituzione che sa rivolgersi a residenti, turisti, studenti, appassionati e anche chi capita per caso e apprezza la sorpresa.

 

È soddisfatto di ciò che ha realizzato? Ha mai avuto timori sulla scelta degli artisti?

Percorrendo le strade di un progetto articolato, come è per me la direzione MAN, non c’è posto per la soddisfazione, ma solo per lo stimolo a continuare a lavorare inseguendo idee, desideri e visioni per un’attività sempre migliore.

 

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©Riproduzione riservata

(Articolo apparso su Olbia.it il 19 Ottobre 2019)

A GAVOI è “Bloomday” | MAN_Museo presenta opera di Miroslaw BALKA che celebra JAMES JOYCE

Non era un giorno qualunque. Era un giorno che diverrà un  punto chiave della nostra modernità. La descrizione di una lunga giornata saltellando dentro e fuori i pensieri dei protagonisti, in un tempo privo di confini, per ritrovarci travolti da fiumi di parole  o meglio definito  “stream of consciousness” – flusso di coscienza – pensieri in libertà come si originano nella coscienza senza ordine logico. E con un viaggio all’interno di se stessi si rifiniva un nuovo abito di scrittura creativa. Si direbbe. In tanti l’avrebbero indossato, minuzzato e adattato a sé. 

Era un giovedì 16 giugno 1904.  Forse, alcuni ricordano questa data oggi divenuta simbolo di modernità, nell’ambito letterario, per la nascita di nuova forma di romanzo non  più soggetta a  rapporto di causa ed effetto come voleva la tradizione precedente. Nasceva il romanzo psicologico del ‘900.

Il giorno, “luogo” di scena che sembra non conoscere confini, è tratto  dal suo romanzo più famoso l’Ulisse dove si raccontano le 24 ore trascorse dal suo antieroe Leopold Bloom.

Lui è lo scrittore più rivoluzionario ed innovativo che la storia  della letteratura ricorda: James Joyce (Dublino 1882 – Zurigo 1941). Un autore che intimorisce per l’esuberanza di una scrittura esplosiva, complessa, a tratti ostica.

Dublino, Città della Letteratura per l’Unesco, rivive l’atmosfera di quel giorno nel Bloomday,  festival letterario frizzante e movimentato a tratti folcloristico, molto coinvolgente.

Anche la Sardegna, sembra idealmente coinvolta. Celebrerà lo scrittore e la sua opera nel “magico” paesino di Gavoi, dove il cielo disegna la sua luce su graniti e gerani rossi, nel Preludio del Festival Letterario “Isola delle Storie” che si svolgerà dal 4 al 7 luglio.

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Al Museo del Fiore Sardo domenica 16 giugno (stesso giorno del romanzo) alle ore 18:00 ci sarà l’opening di una mostra, curata dal Direttore del MAN di Nuoro Luigi Fassi, –  grazie alla Fondazione Antonio Dalle Nogare di Bolzano,  – vedrà esposta fino a domenica 7 luglio l’opera scultorea  (250 x 280 x 120) “Sweets of Sin”  di Miroslaw Balka  (Varsavia 1958) ispirata a James Joyce e alla sua opera letteraria l’Ulisse.

L’Artista

È prestigioso avere un’opera di Miroslaw Balka in Sardegna. Impegno di un’istituzione museale, il MAN di Nuoro, che orienta le sue ricerche e proposte in un’ottica sempre più internazionale con linguaggi artistici che riflettono la complessità del nostro viver contemporaneo.

Balka è un artista-filosofo di grande rilievo nella scena dell’arte contemporanea che vanta tante presenze alla Biennale di Venezia,  alle  Biennali di Liverpool, di San Paolo, di Sydney e Documenta IX solo per citarne alcune.

Un artista che nelle sue opere non si pone solo finalità estetiche, ma concettuali, intellettuali. Secondo un processo di comprensione dell’opera (specie nell’arte contemporanea) il fruitore non è un semplice osservatore passivo ma colui che partecipa attivamente con il proprio pensiero. Le opere di Balka, inducono  a riflettere e ad analizzare l’opera quasi  fosse un testo letterario.

Le sue indagini sono “in bilico” su precipizi o abissi del nostro viver contemporaneo: superficialità, frivolezza, fragilità, vuoto mediatico, solitudini, sentimenti, memoria storica… “cosa ci rende umani” promuovendo quel “conosci te stesso” caro a Socrate. La sua finalità è definire e recuperare valori sempre più alla deriva.

In quest’opera, una scultura dal titolo 250 x 280 x 120 Sweets of Sin realizzata da Balka nel 2004 per la collettiva “Joyce in Art”, l’artista mediante un’opera simbolica di raffinata e armoniosa sintesi, rimanda ad alcuni elementi dell’universo joyceano per celebrare l’autore e la sua opera più famosa l’ Ulisse.

Opera rivoluzionaria per struttura narrativa e linguaggi, pubblicata nel 1922 a Parigi che fece scandalo e attirò critiche e polemiche. Tre i protagonisti: Leopold Bloom, Molly, moglie fedifraga ma a sua volta tradita dal marito e Stephen Dedalus, alter ego di Joyce.

Balka sintetizza il “fluire” offrendoci una pluralità di “assonanze” con il testo di Joyce.

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Courtesy of Museo MAN

L’opera

L’opera, nell’analisi spaziale, è composta da due elementi uno sopra l’altro o vs., una struttura orizzontale e una verticale con cavità regolare, disposti in maniera armonica quasi fossero un unico blocco di sostegno reciproco nel loro completarsi.

Questo potrebbe rimandare al monologo interiore e/o al flusso di coscienza che caratterizzano la tecnica narrativa dello scrittore, dove i ricordi, gli stati d’animo, i pensieri dei personaggi si rincorrono spontaneamente nella loro coscienza, in apparenza senza un filo logico, intaccando in vari livelli la struttura del romanzo.

Quasi pensieri concatenati seppur in libertà: una struttura orizzontale sembra esser sovrapposta (un po’ come l’accavallarsi delle idee, al pari delle onde)  all’altra verticale dalla quale, come se fosse una fontana, da un piccolo tubicino fuoriesce del whisky; una figura solida “l’accavallarsi” delle idee, al pari del moto ondoso fluido, inarrestabile.

Un elemento che allude alla sua vita. Joyce, infatti, era un gran bevitore di whisky che sembra essere un “valore” costante nei suoi romanzi, gli attribuisce salvazione, diviene “sorgente di vita” al pari dell’acqua. Forse, anche lui, aveva necessità di bere per evidenziare idee su livelli diversi, come diceva Ernest Hemingway riguardo al suo scrivere.

Ma, il fluire continuo di questa sostanza potrebbe simboleggiare lo scorrere delle immagini che rimandano alle idee contrastanti nei monologhi dei suoi personaggi.

Oltre all’utilizzo interscambiabile dei vari registri linguistici, Joyce utilizza la figura retorica della sinestesia: la contaminazione dei sensi su base soggettiva, che oggi è sempre più utilizzata nell’arte contemporanea e dai pubblicitari. Balka la riprende  per indurci verso lo stupore, vuole farci percepire una nuova sensazione. L’odore forte del liquore si propaga attorno alla fontana che profuma di whisky. Un contrasto incisivo che lede la nostra consuetudinaria immaginazione.

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Courtesy of Museo MAN

L’asse orizzontale è fatto di gommapiuma, materiale utilizzato nei materassi, qui appoggiato all’asse verticale potrebbe alludere all’insonnia dei protagonisti; durante la notte il flusso dei pensieri inesorabile continua inarrestabile, irrequieto e tumultuoso.

Ricordando il titolo dell’opera 250 x 280 x 120 Sweets of Sin (Le dolcezze del peccato) si può notare come l’artista abbia ripreso lo stesso titolo del romanzo erotico che leggeva Molly Bloom moglie di Leopold.

Joyce ha sempre temuto di esser stato tradito dalla moglie Nora e riporta questo suo malessere nell’Ulisse. Balka lo ha ripreso è reso universale. Si riaffaccia un certo filone religioso che induce a riflessioni sul peccato e forse possibili rinascite. La scoperta delle lettere di Joyce alla moglie Nora testimoniano la sua predisposizione per contenuti erotici e le allusioni esplicite sono presenti anche nell’Ulisse.

L’Ulisse di Joyce è  un’opera che implica un’indagine nel cammino di un uomo dall’interno della sua coscienza, non più dall’esterno come nel vagabondare “materico” di Ulisse nell’Odissea.

E la stilizzazione del flusso del liquore nell’opera di Balka oltre a riflettere sul continuo fluire della vita, del tempo inarrestabile,  soggiace alla stessa idea di Joyce ovvero la percezione deriva da un’impressione esterna verso la propria interiorità. 

Quasi un corollario all’opera di Balka estremamente raffinata, mimesi di letteratura contemporanea che conferma quel lega/me  inscindibile con l’arte.

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(Articolo pubblicato su Olbia.it il 15 Giugno 2019)

 

IN SARDEGNA 1974,2011: al MAN mostra fotografica del fotografo minimalista GUIDO GUIDI

Uno sguardo lirico, attento alla sardità si potrà osservare nella nuova esposizione   che il Museo MAN di Nuoro propone dal 21 giugno al 20 ottobre 2019, dove verrà ospitata la prima grande mostra in un museo italiano – curata da Irina Zucca Alessandrelli – dal titolo “ In Sardegna: 1974, 2011” dedicata a Guido Guidi (Cesena, 1941), uno dei  più rilevanti protagonisti della fotografia minimalista italiana del secondo dopoguerra.

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Sardegna, Maggio 1974 |Stampa ai sali d’argento

La mostra è frutto di un’importante collaborazione tra l’istituzione museale e l’ISRE, Istituto Superiore Regionale Etnografico della Sardegna. Saranno esposte 250 fotografie inedite – commissionategli dall’ISRE – che testimoniano la relazione di Guido Guidi con il territorio sardo.

Un catalogo composto da tre volumi pubblicato da una casa editrice di Londra – Mack Books – documenterà le opere presenti in mostra che sono state ristampate dall’artista.

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Sardegna, Maggio 1974 | Stampa ai sali d’argento

Un racconto dei mutamenti paesaggistici e antropologici avvenuti in Sardegna dove immagini in bianco e nero degli anni Settanta sembrano colloquiare con le  opere a colori degli anni Duemila tra essenzialità, sottili geometrie, spazi lirici come struttura di storia, tradizione, umanità; la costante ricerca del dettaglio e del valore incommensurabile di ciò che è margine, parte di un tutto inafferrabile, un appiglio a quella realtà che il tempo muta.

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Sardegna, Maggio 1974 | Stampa ai sali d’argento

Tante “micro-storie” che ricamano emozioni e che sanno di origini, di semplicità e di nuove epifanie ed infine inducono riflessioni sulla nostra identità.

“Io non guardo soltanto il paesaggio ma ne faccio esperienza, perché io stesso sono dentro il paesaggio”  dice Guido Guidi, e noi faremo tesoro di questa mostra che privilegia l’interiorità del fotografo espressa con quelle “sfumature” del tempo, che ora ci scrutano e sembrano interrogarci sulla capacità di vedere e percepire la bellezza nell’anima della semplicità.

 

©Lycia Mele Ligios

(pubblicato su Olbia.it)

 

C2302360-8372-4AD0-A5CC-5C4E5B13C3CA.jpegSarule 2011 | Stampa Cromogenica


English Version

A lyrical look, attentive to Sardinian culture, can be seen in the new exhibition that the MAN Museum of Nuoro on display from 21 June to 20 October 2019, where the first major exhibition will be hosted in an Italian museum – curated by Irina Zucca Alessandrelli – entitled “IN SARDEGNA: 1974, 2011” dedicated to Guido Guidi (Cesena, 1941) one of the most important post-war photographers, a forerunner of landscape photography much appreciated in the 70s.

The exhibition is the result of an important collaboration between the museum institution and the ISRE, Regional Ethnographic Institute of Sardinia: 250 unpublished photographs – commissioned by the ISRE – will be exhibited that testify to the relationship of Guido Guidi with the Sardinian territory.

A three-volume catalog published by a London publishing house – MACK BOOKS – will document the works on display that have been reprinted by the artist.

A story of the landscape and anthropological changes that took place in Sardinia where black and white images of the Seventies seem to dialogue with the color photographs of the 2000s between essentiality, subtle geometries, lyrical spaces as a structure of history, tradition and humanity; the constant search for detail and the immeasurable value of what is margin, part of an ungraspable whole, a foothold in that reality that time changes.

Many “micro-stories” that embroider emotions and that smell of origins, simplicity and new epiphanies and finally induce reflections on our identity.

“I do not only look at the landscape but I experience it, because I am inside the landscape” says Guido Guidi, and we will treasure this exhibition that favors the interiority of the photographer expressed with those “nuances” of the time that now scrutinize us and they seem to question us on the ability to see and perceive beauty in the soul of simplicity.

Al MAN di Nuoro “Personnages” prima mostra in Italia di Maliheh Afnan

“La memoria non è un cassetto dove giacciono, come oggetti già definiti e noti, i nostri ricordi. Piuttosto, si infiltra nelle pieghe del nostro tempo, contamina la nostra percezione attuale…” Questa frase di Massimo Recalcati racchiude l’essenza dell’opera artistica di una pittrice palestinese – in mostra fino al 9 giugno al Museo MAN di NuoroMaliheh Afnan, pittrice molto apprezzata nel panorama artistico internazionale, presente in alcune collezioni importanti – tra cui il Metropolitan Museum di New York e il British Museum di Londra, – e per la prima volta una sua mostra in Italia.

Nata a Haifa nel 1935, da genitori persiani di fede bahá’í.  Ancora adolescente conobbe il dramma di una vita diasporica per motivi religiosi e politici.  Inizialmente con la sua famiglia si trasferì a Beirut dove si laureò presso l’Università Americana. Nel 1956 andò in America, a Washington DC dove conseguì nel 1962 un MA in Belle Arti presso la Corcoran School of Art. Ritornata in Medio Oriente per circa una decina di anni, nel 1974  si trasferirà  prima a Parigi e poi Londra, dove morì nel 2016.

DSC_7837What Remains, 2014 (particular); mixed media installation – ph. ©Lycia Mele Ligios

Maliheh Afnan è un’artista che trovò ispirazione dalla tragedia della diaspora e il conseguente dolore – per aver abbandonato la sua terra natia, colpita da una guerra che sembrava non aver fine, − facendo confluire il suo vissuto drammatico nelle opere. La pittura le permise di ricollocarsi nel fluire del tempo, dopo aver assimilato e interiorizzato il suo dramma.

Gli oggetti che era riuscita a salvare divennero finestre di memoria, “sculture” parlanti segnate dal dolore. Ed ecco i vecchi libri degli avi conservati come reliquie in “What Remains” − “luoghi” del tempo e dei ricordi − dai quali trarre forza per dare un senso al domani e ritrovare quella dimensione artistica che le infondeva gioia di vivere, serenità. “Vengo da un luogo dove ci sono reliquie di antiche civiltà, – disse in un’intervista del 2014 – sia che si tratti del Libano o della Palestina. È inevitabile che in qualche  modo io sia attratta da questo genere di cose”. Da un lato la sua indagine espliciterà ataviche tradizioni mediorientali, dall’altro darà consistenza al suo vissuto con un linguaggio vicino all’espressionismo astratto, con pochi accordi cromatici come le terre, il bianco e il nero, con una tensione più spirituale, intimista. In alcune opere il colore viene “graffiato”, asportato con gestualità inconscia, appare stratificato e in alcune zone mancante quasi ad esprimere quella sofferenza subìta che si vorrebbe sradicare ma che è impossibile, perché è pensiero ubicato in quello spazio di eterna contemporaneità.

DSC_7841Contained Thoughts, 2000 (particular) (8 works) ph. ©Lycia Mele Ligios

L’urgenza di custodire la memoria è riposta in questo assemblage Contained Thoughts”(2000): i suoi lavori arrotolati e legati con uno spago, dove si allude alla transitorietà e al desiderio di salvare dall’oblìo oggetti personali di grande valore affettivo. Il vuoto al lato dei disegni sembra enfatizzare “ferite” che non si suturano e/o spazi per trattenere  pens/ieri. Una “scultura” modulare con le superfici arrotondate e dislivelli, a dimostrazione che la precarietà della vita diviene radice dell’esistenza umana.

Le persone che conobbero Maliheh Afnan la ricordano come una donna ironica, saggia e molto elegante con una casa ben curata in cui si respirava un’aria esotica. Non amava esser definita “artista mediorientale” e neppure “artista donna”.

In verità le definizioni creano solo gabbie, sovrastrutture che vincolano. Sono “confini”. Anche il suo linguaggio artistico, che spaziava tra vari generi, figurativo, astratto e informale, induce a pensare ad una sorta di indipendenza del suo modo di esprimersi.

E906F4EB-B9E9-4CF0-8AA3-6E5C36314324Wartorn 1979 – Courtesy Lawrie Shabibi Gallery

Innegabili echi di Alberto Burri (1915-1995) e il suo informale materico come in “Wartorn” (1979)  e Silent Witness (1979) in cui l’artista utilizza del cartone che brucia con una fiamma, – come Burri aveva fatto con i sacchi di iuta e con il legno – dove sembra trasporre la sua sofferenza e la sua angoscia,  il fuoco della guerra che divora le case, i bagliori delle armi che sparano. Ciò che un tempo esisteva, ora è solo memoria. Ma la distruzione richiama la vita e diventa urlo, espresso con accordi cromatici che riflettono luce. L’urgenza di essere testimone nel silenzio assordante dei ricordi. 

0AE06D20-9E9C-4A2B-9BDF-5808264BA5F2Silent Witness 1979 – Courtesy Lawrie Shabibi Gallery

Le opere figurative sono “personaggi” o meglio “figure” definite da segni che affiorano da luoghi di memoria senza preciso ordine, subordinati al ricordo di un’umanità incontrata negli anni, concentrata più sulla diversità che sull’omologazione.  Maliheh Afnan lavorava sui volti per giungere ad esprimere quell’unicum presente in ogni essere, ovvero l’anima. Voleva definire un “denominatore comune”, la preziosa unicità che sta alla base del genere umano che rende diversi seppur simili.

DSC_7839Sam, 1990 (particular) – ph. Lycia Mele Ligios

In alcuni volti affiora una delicata sfumatura caricaturale, quasi ad  enfatizzare elementi fisionomici ad esempio occhi piccoli e ravvicinati, oppure bocca piccolissima, leggermente segnata,  su teste in apparenza deformi. Un inconscio evocare il carattere del personaggio ritratto? Figure atemporali, strutture di memorie, tracce di esistenze “confuse” nel marasma del ricordo.

Aveva sviluppato un grande senso d’ironia, che le permetteva di sdrammatizzare e focalizzarsi su elementi che avrebbero suscitato ilarità, mostrando così la sua acuta intelligenza e fantasia e attribuendo valore alla semplicità.

Certi disegni mostrano dei volti stilizzati in assenza di prospettiva, come se – visti dall’alto – fossero elementi di una carta topografica dove non sono presenti particolari ma solo contorni del volto, uniti dal filo sottile dell’uguaglianza. Sembrano non esserci differenze sostanziali. La scelta di metterli vicini, uno accanto all’altro, sintetizza il concetto di fratellanza e umanità presente nei principi fondanti della sua fede Bahá’í in cui viene a superarsi il concetto di razza oltre quello di classe sociale.

DSC_7844Nuchis 1985 – (particular) – ph. ©Lycia Mele Ligios

Dall’indefinito che supporta l’uguaglianza al definito che sfiora il lirismo per intensità: il ripetuto scrivere il nome di un luogo che le era caro in una sua opera, “Nuchis” . L’artista amava la Sardegna: vi si era recata in vacanza insieme alla figlia ed era rimasta affascinata da un piccola frazione di 400 anime, nei pressi di Tempio Pausania, Nuchis, in Gallura. Un grazioso paesino, ai piedi del Monte Limbara, con piccole case realizzate con blocchi di granito e immancabili gerani nei balconi, immerso nel verde brillante, sfumato in una miriade di tonalità della campagna gallurese. Quei luoghi s’impressero nell’anima di Maliheh Afnan. Si erano “incollati” addosso e non voleva dimenticarli per quel senso di benessere che le infondevano. Al rientro dipinse un quadro astratto su campitura terra d’ombra bruciata con leggeri punti cromatici rosso cupo – forse cinabro – su cui attaccò tanti piccoli pezzi di scotch che colorò  e su cui scrisse in vari punti la parola Nuchis, quasi volesse attaccare o incollare alla sua anima la bellezza e le emozioni provate in quel piccolo pezzo di paradiso. Luogo che le aveva trasmesso serenità interiore e momentaneamente allontanato dai suoi ricordi, le sofferenze del passato.

dsc_7868-e1555522109126.jpgThe visitor, 1992 – Photo ©Lycia Mele Ligios

La tensione all’uguaglianza è quasi un grido “graffiante” nelle sue opere, dove i pensieri si traducono in espressione artistica con stesure di colore più aggressive  e dense, oppure più trasparenti e delicate. Come in quei ritratti dove con difficoltà s’intravvedono le figure dei visi dispersi in un colore che assorbe, in cui i lineamenti si disperdono nello spazio della tela. Volti in cui l’indefinito diventa la piega dell’anima ancorata a corpi, dalle tonalità  calde, origini di terra bruciata e forse dolore. Si intravvede uno studio, una ricerca teleologica – come avrebbe detto l’intellettuale e politico italiano Luigi Sturzo – di una coscienza che tende ad attenuare le sopravvalutazioni nazionali per dar luogo ad un sentimento di maggiore comunione tra i popoli”.

I significati di questa pittrice sono di una contemporaneità che sorprende, se pensiamo al clima sociale presente attualmente in Italia come la recrudescenza della xenofobia e del razzismo.

Innegabili gli influssi dei linguaggi artistici del periodo in cui visse e lavorò − espressionismo astratto, astrattismo, arte informale − che esprimono il vibrante ed energico clima culturale europeo e americano del tempo, ma che possiamo dire Maliheh Afnan li abbia filtrati, esprimendo con un linguaggio espressivo originale  le sue tensioni, le sue sofferenze, i suoi ricordi.  Indagini che scandagliano significati di grande valore come la libertà, l’umanità, l’uguaglianza. Ma alla fine, attraverso gli occhi dei vari “Personnages” che ci guardano, sembra porci una famosa domanda di Socrate:  “Che cos’è dunque l’uomo?”. Lascio a voi la risposta.

©Lycia Mele Ligios

MAN | Museo d’Arte Provincia di Nuoro

Via Sebastiano Satta 27, Nuoro

http://www.museoman.it | info@museoman.it T. +39 0784 252110


English Version

“Memory is not a drawer where our memories lie, as objects already defined and known. Rather, it infiltrates the folds of our time, contaminates our current perception … “This phrase by Massimo Recalcati contains the essence of the artistic work of a Palestinian painter – on display until June 9 at the MAN Museum of NuoroMaliheh Afnan, a very appreciated painter in the international art scene, present in some important collections – including the Metropolitan Museum of New York and the British Museum in London, – and for the first time on display in Italy.

Born in Haifa in 1935, from Persian parents of Bahá’í faith. While still a teenager, he experienced the drama of a diasporic life for religious and political reasons. Initially with his family he moved to Beirut where he graduated from the American University. In 1956 he went to America, to Washington DC where he obtained in 1962 an MA in Fine Arts at the Corcoran School of Art. Returning to the Middle East for about ten years, in 1974 he moved first to Paris and then London, where he died in 2016.

Maliheh Afnan is an artist who found inspiration for her art from the tragedy of the diaspora and the consequent pain – for having abandoned her homeland, struck by a war that seems to have no end, – bringing her dramatic experience into the works . Painting allowed her to relocate herself in the flow of time, after having assimilated and internalized her drama. The objects she had managed to save became windows of memory, talking “sculptures” marked by pain. And here are the old books of the ancestors preserved as relics – places of time and memories – from which to draw strength to make sense of tomorrow and rediscover that artistic dimension that gave it joy of life, serenity. “I come from a place where there are relics of ancient civilizations, – she said in a 2014 interview – whether it is Lebanon or Palestine. It is inevitable that somehow I will be attracted to this kind of thing”. On the one hand, her research will explain ancestral Middle Eastern traditions, on the other hand she will give consistency to her lived with a language close to abstract expressionism, with few chromatic chords such as “lands”, white and black, with a more spiritual, intimate tension . In some works the color is “scratched”, removed with unconscious gestures, it appears stratified and in some areas is missing almost to express the suffering suffered that one would like to eradicate but that is impossible, because it is thought placed in that space of eternal contemporaneity.

The urgency to preserve the memory is placed in this “Contained Thoughts” assemblage: her works are rolled up and tied with a string, which alludes to the transience and the desire to save personal objects of great emotional value from oblivion. The emptiness at the side of the drawings seems to emphasize “wounds” that do not suture and/or spaces to hold thoughts/yesterday. A modular “sculpture” with rounded surfaces and differences in height, demonstrating that the precariousness of life becomes the root of human existence.

The people who knew Maliheh Afnan remember her as an ironic, wise and very elegant woman with a well-kept home where one breathes an exotic air. she didn’t like to be called a “Middle Eastern artist” or even a “woman artist”.

In truth the definitions only create cages, superstructures that bind. They are “borders”. Even her artistic language, which ranged between various genres, figurative, abstract and informal, leads us to think of a sort of independence of her way of expressing herself.

Undeniable echoes by Alberto Burri (1915) and his informal material as in “Wartorn” (1979) and “Silent Witness” (1979) in which the artist uses cardboard that burns with a flame, – as Burri had done with sacks of jute – where his suffering and anguish seems to transpose, the fire of war that devours houses, the flashes of firing weapons. What once existed is now only memory. But destruction recalls life and becomes a scream, expressed with chromatic accords that reflect light. The urgency to be a witness in the deafening silence of memories.

The figurative works are “characters” or rather “figures” defined by signs that emerge from places of memory without precise order, subordinated to the memory of a humanity encountered over the years, focused more on diversity than on homologation. Maliheh Afnan worked on faces to come to express that unicum present in every being, or the soul. She wanted to define a “common denominator”, the precious uniqueness that underlies the human race that makes it different but similar.

In some faces a delicate caricature tinge emerges, as if to emphasize physiognomic elements, for example small and close eyes, or a very small mouth, slightly marked, on apparently deformed heads. An unconscious evoke the character of the portrayed character? Timeless figures, memory structures, traces of “confused” existences in the chaos of memory.

She had developed a great sense of irony, which allowed her to play down and focus on elements that would arouse laughter, thus showing her acute intelligence and imagination and attributing value to simplicity.

Some drawings show stylized faces in the absence of perspective, as if – viewed from above – they were elements of a topographic map where there are no details but only contours of the face, united by the thin thread of equality. There seem to be no substantial differences. The choice to put them close, one next to the other, summarizes the concept of brotherhood and humanity present in the founding principles of her Bahá’í faith in which the concept of race beyond that of social class is overcome.

From the indefinite that supports the equality to the defined that touches the lyricism by intensity: the repeated write the name of a place that was dear to her in one of her works, “Nuchis”.

The artist loved Sardinia. She had gone on holiday with her daughter and was fascinated by a small fraction of 400 souls, near Tempio Pausania, Nuchis, in Gallura. A pretty village, at the foot of Mount Limbara, with small houses built with granite blocks and inevitable geraniums in the balconies, immersed in brilliant green with a myriad of shades of the Gallura countryside. Those places were impressed in the soul of Maliheh Afnan. They had “stuck” on her and she did not want to forget them for that sense of well-being that infused her.

On the way back, she painted an abstract painting on a shaded umber field with light chromatic dots dark red – perhaps cinnabar – on which she attached many small pieces of scotch which she colored and on which she wrote the word Nuchis in various places, as if she wanted to stick or paste to her soul the beauty and emotions felt in that little piece of paradise. Place that had transmitted interior serenity and momentarily distanced herself from its memories, the sufferings of the past.

The tension towards equality is almost a “scathing” cry in her works, where thoughts are translated into artistic expression with more aggressive intense or dense colors, or more transparent and delicate. As in those portraits where the figures of the faces dispersed in an absorbing color can be glimpsed with difficulty, in which the features are dispersed in the space of the canvas. Faces in which the indefinite becomes the fold of the soul anchored to bodies, with warm tones, origins of scorched earth and perhaps pain. A study can be glimpsed, a teleological research – as Italian intellectual and politician Luigi Sturzo would have said – of a conscience that “tends to attenuate national “overvaluations” to give rise to a feeling of greater communion between peoples ”.

The meanings of this painter are of a surprising contemporary, if we think of the social climate currently present in Italy as the resurgence of xenophobia and racism.

The influences of the artistic languages ​​of the period in which she lived and worked were undeniable – abstract expressionism, abstractionism, informal art – which express the vibrant and energetic European and American cultural climate of the time, but we can say that Maliheh Afnan has filtered them, expressing with a language original expressive her tensions, her sufferings, her memories. Investigations that probe meanings of great value such as freedom, humanity, equality. But in the end, through the eyes of the various “Personnages” who look at us, she seems to ask us a famous question from Socrates: “What then is man?” I leave the answer to you.

©Lycia Mele Ligios