Palau | La fotografia di Fausto GIACCONE tra testimonianza e conoscenza

“Per un fotografo produrre immagini, che si reggano su un avvenimento, può essere molto facile. Molto difficile è produrre immagini su cui l’avvenimento stesso si regga. Rimanga impresso nella nostra memoria. Costruisca la nostra memoria. […] ma “forse, anche l’anima è tessuta di immagini. Una volta realizzate vivono per conto loro. Non hanno più tempo, possono parlare a tutti, anche a mille vite di distanza.” 

Queste frasi del fotografo Tano D’Amico esprimono alcune linee guida, nonché il valore di eterna contemporaneità della fotografia e sintetizzano le finalità del lavoro fotografico di un grande fotoreporter italiano, Fausto Giaccone, in mostra a Palau con una suggestiva e commovènte retrospettiva dal titolo “Sardegna e altri continenti (1967-1977)” visibile fino al 30 Settembre 2019, presso il Centro di Documentazione del Territorio di Palau e inserita tra gli eventi del XXXIII Festival  “Isole che parlano” di Fotografia.

Dopo la mostra fotografica sulla Sardegna al MAN_Museo d’Arte Provincia di Nuoro del pioniere del minimalismo italiano, il fotografo Guido Guidi – con un allestimento curato da Irina Zucca Alessandrelli: “Guido Guidi in Sardegna: 1974,2011” visitabile fino al 20 ottobre – anche a Palau, è possibile cogliere riflessi di una Sardegna al suo risveglio insieme ad altre interessanti storie di vita.

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Piazza Navona, 1966 Courtesy by ©Fausto Giaccone

Una mostra da visitare per significati e riflessioni che scaturiscono dalle immagini, tutte in un rigoroso bianco e nero, che fanno il miracolo di rendere più cristallina l’anima di un passato, passaggio obbligato verso il nostro presente.

Nelle fotografie esposte si da valore al momento vissuto,  senza il quale non saremo in grado di capire il nostro oggi. Si percepisce l’anima del fotografo nel suo “smarrirsi”, per documentare istanti di vita e ritrovarsi più consapevole nel suo racconto, progetto di conoscenza, per sensibilizzare e dare “giustizia” ai protagonisti dei complessi eventi, materie prescelte per le sue ricerche ed indagini antropocentriche.

Il suo sguardo cattura l’oltre fotografico, non si sofferma solo su spazi e superfici: riesce a cogliere quegli elementi che “impressionano” e irrompono fluidi dando luogo a molteplici tonalità emotive quali sgomento, rabbia, speranza, incredulità, tristezza, apprensione e ancora orgoglio, dignità.

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Proteste pacifiste contro la base Usa di Santo Stefano La Maddalena 1976 Courtesy by ©Fausto Giaccone

Le fotografie, circa una settantina, comprendono un lungo arco temporale intessuto da  tante storie segnate da disagio sociale, sofferenza, malessere, privazioni. Ma, ciò che colpisce è la rappresentazione di un gran numero di persone che manifestano, s’incontrano per condividere un progetto, un’idea. Lottano e non sono intimorite, sono guidate dalla loro forza interiore e dal loro pensiero.  Una stanchezza che improvvisamente diviene azione pura verso una destinazione senza più cedimenti né fermate.  Giaccone, come Italo Calvino direbbe che alla fine “contano sempre gli uomini prima delle idee. […] Le idee hanno sempre avuto occhi, naso, bocca, braccia, gambe”. Prima di ogni cosa, ciò che conta è la presenza umana. Le idee arrivano. Sono consequenziali.

Un altro elemento che le distingue, almeno per le foto esposte, è un alone di spontaneità di ripresa: sono poche le figure in posa. Inoltre, è indubbio che l’approccio estetico sia subordinato a certi orientamenti artistici approfonditi durante gli studi sulla storia dell’arte o al filone della fotografia di strada statunitense – agli albori sostenuta dal governo –  di cui ricordiamo Dorothea Lange,  Walker Evans, e ancora Berenice Abbott… 

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Terremoto Valle del Belice, 1968 Courtesy by ©Fausto Giaccone

Oltre alla presenza di influssi estetici d’impronta neorealista, si evidenziano le  inquadrature “composte ed equilibrate” che alla “figura umana danno dignità e solennità”, come ad esempio in questa intensa immagine della mamma con il bimbo, per composizione si potrebbe ricordare l’arte sacra. La coperta che li avvolge evoca il velo della Santa Vergine conferendo all’immagine un alone di sacralità, mentre il viso ricorda tratti più umani: incredulità, incertezza, smarrimento.

In altre foto della mostra se volessimo scegliere una contaminazione artistica si potrebbe scorgere quella forza e intensità che richiama  un’opera di Pellizza da Volpedo il Quarto Stato, come segnalato anche  dal  critico Giovanni Chiaramonte.

Il fotoreporter 

Fausto Giaccone nasce in Toscana (San Vincenzo, 1943) tuttavia cresce a Palermo. Nella solare città siciliana si iscrive alla Facoltà di Architettura ma, in seguito  prosegue i suoi studi nella sede di Valle Giulia a Roma. Intanto, inizia a percepire che l’architettura, non sarebbe stata la sua strada,  forse perché rigorosa e razionale.

Mentre fin da adolescente la fotografia gli si mostra inseparabile compagna di avventura che permette di raccogliere ricordi e definire nuovi sguardi e nuove luci. Un “sostegno”  a cui aggrapparsi durante il suo inquieto vagare alla ricerca di una propria identità. Un punto del suo stare al mondo nel fluire dell’esistenza, uno spazio per definir/si.

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Campo dei profughi palestinesi nei pressi di Amman, 1968 Courtesy by ©Fausto Giaccone

Una vocazione che affiora in lui come desiderio di autenticità, di verità, di libertà da cui la volontà di rappresentare “moti” d’animo, collettivi e individuali, che avrebbero segnato un’epoca e la necessità di documentare la trasformazione sociale in atto, presagio di profondi mutamenti. 

Erano gli agguerriti, ma stimolanti e creativi anni ‘60. Giaccone rimase coinvolto nella loro “trasfigurazione”:  a Roma, nel ‘67, con i cortei di protesta, come le manifestazioni pacifiste contro la guerra del Vietnam –  era l’anno in cui a New York il corteo antimilitarista aveva riunito 500.000 partecipanti – un atto di presenza sentito, dovuto, urgente;  nel 68’ – anno che ha scardinato modi di vivere e di  pensiero, che si voglia o no – con i movimenti studenteschi, le rivolte dei pastori sardi, la rivendicazione di diritti sociali e civili… Si assisteva ad un “risveglio” sociale, una presa di coscienza collettiva di persone diverse per censo o origini, che richiamava la necessità di condividere, di agire insieme, di confrontarsi, di fare politica. 

Nell’ambito della fotografia, la politica iniziava a palesarsi all’interno dei reportage, e come ci ricorda Roberto Mutti – nella prefazione del Photo Book “68 ALTROVE”  – il ‘68 evidenziava  “una svolta rispetto al passato, anche più recente, perché la fotografia cosiddetta neorealista, era stata poetica, lirica e spesso sociale ma non così direttamente politica.”

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Roma – Corteo studentesco 1968 Courtesy by ©Fausto Giaccone

L’energia di quegli anni spinse il fotografo a porsi come  testimone visivo,  sottrarre al tempo quegli eventi straordinari per riallinearli all’eternità. Come altri grandi fotografi del periodo si avvalse di questa intuizione: fotografare coincide con il  vivere.

L’autunno rosso dei pastori

Giaccone giunse la prima volta in Sardegna nel ‘68,  come inviato del settimanale Astrolabio, dove raccolse materiale per il servizio di Pietro Petrucci intitolato “L’autunno rosso dei pastori” .

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Articolo che raccontava la ribellione  diffusa tra operai, studenti, pastori in vari comuni barbaricini contro “la violenza dello stato e l’inettitudine della classe dirigente regionale”.

In copertina dal colore blu l’immagine di donne e uomini attenti ad ascoltare un comizio. Una foto diversa, originale perché mostrava la presenza degli studenti e delle donne. L’insofferenza aveva colpito ogni strato sociale. Una coesione mia vista prima. Anche nel numero successivo Petrucci scrisse un’altro articolo “La colonia Sardegna: Bilancio della Repressione” corredato sempre da fotografie di Giaccone. 

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 Orgosolo 1968 Courtesy by ©Fausto Giaccone

Dalle foto in mostra traspare  dignità e fierezza dei volti che implicano inarrendevolezza, determinazione. Le assemblee studentesche o le riunioni nel circolo Rosa Luxemburg ritratte erano situazioni dove condividere opinioni, cercare soluzioni, scrivere manifesti  “comunicati stampa” si affiggevano sui muri dei paesi. Sguardi fieri, di sfida, spavaldi e attenti. Erano richieste di attenzioni da parte di comunità che erano state trascurate.

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Circolo giovanile Orgosolo 1968 Courtesy by ©Fausto Giaccone

Nel ‘69, interessato al cambiamento dell’isola, compie un secondo viaggio per realizzare un servizio sull’industria petrolchimica di Porto Torres, nata intorno alla metà degli anni sessanta. Tra le foto c’è un bel ritratto di una giovane operaia per enfatizzare il diritto di uguaglianza tra donne e uomini all’interno della realtà industriale. Nella fotografia appare (in 3/4) il mezzo busto dell’operaia con metà volto sfiorato da una luce intensa e l’altra in totale oscurità. Quasi il presagio del tortuoso cammino che le donne dovranno affrontare per giungere ad una vera parità di diritti.

Dopo un periodo in Africa ritorna in Sardegna nel ‘75 illuminato da un testo che trova per caso in una libreria. Era un libro di Elio Vittorini “Sardegna come un’infanzia”. Rapito dai racconti e dalle immagini – dettati da stupore e avidità di sapere del giovane Vittorini, appena ventiquattrenne –  desidera ritornare nell’isola e indagare su elementi più etnografici come la festa della tosatura delle pecore, con dei rituali ben definiti, oppure la fiera dei cavalli a San Leonardo de Siete Fuentes nei pressi di Santu Lussurgiu, dove sono rappresentati momenti di distensione, di festa, di  convivialità  e condivisione che mettono in luce tradizioni e memoria immateriale della Sardegna.

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Banchetto dopo la tosatura Sa Serra Nuoro 1975 Courtesy by ©Fausto Giaccone

Gli anni ‘70 sono caratterizzati dai viaggi in Africa e in America Latina. Oltre a ciò Giaccone aderisce ad un collettivo di fotografi tra i quali c’è Tano D’Amico, Tatiano Majore e altri.

Tuttavia nel 1976  giunge ancora in Sardegna per documentare la manifestazione anti militare contro la base USAF che deteneva sottomarini atomici nell’isola di Santo Stefano. Inseguito si reca  ad Orgosolo per la  festa patronale dell’Assunta.

Altre foto presenti nella mostra si riferiscono al 1975, quando si reca in Portogallo per documentare la  “rivoluzione dei garofani”  e in particolare l’occupazione dei latifondi situati a sud della nazione da parte dei braccianti agricoli senza terra. Volti stanchi, per il lungo peregrinare ma sorridenti per la vittoria. Le foto accrescono quel senso di giustizia che sembra animare i volti. Uomini e donne a piedi o sui  carri con una luce di speranza nei loro occhi: il desiderio di ricominciare.

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Occupazione dei latifondi in Ribatejo Portogallo 1975 Courtesy by ©Fausto Giaccone

Come ricorda Giovanni Chiaramonte nel saggio critico allegato al bellissimo photo book Macondo Il mondo di Gabriel Garcìa Márquez:”Giaccone ha sempre cercato di operare nel nome di una giustizia dell’immagine, nella raggiunta consapevolezza che è l’uomo stesso ad essere per natura immagine, egli ha sempre cercato di far sì che la sua visione fosse un prendersi cura dell’uomo e del suo mondo”.

Negli anni ‘80 lavora per i settimanali Epoca e Panorama. Ma non trascura la sua essenza per raccontare di uomini. Fino a quando quel senso di libertà lo porterà a lasciare il fotogiornalismo e ad occuparsi solo dei suoi progetti.

Colombia e Gabo

Tra il 2016 e il 2010 attratto dal mondo di Gabriel Garcìa Márquez si reca in Colombia. Giaccone è sempre stato affascinato da Gabo e dal suo aggrovigliato ma struggente mondo che ruota attorno al libro “Cent’anni di solitudine” letto durante il periodo militare.

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Courtesy by ©Fausto Giaccone

Un anno di solitudine, di insofferenza lavorativa, di tristezza e tanta nostalgia della sua vita quotidiana, dei suoi affetti, dei suoi luoghi. Nel testo dell’autore colombiano Giaccone trova assonanze con la sua vita. In Colombia ricerca i luoghi descritti nelle opere di Gabo alla ricerca dell’anima del grande romanziere e forse della sua stessa anima.

E nel suo narrare  visiva dà volto ai personaggi che richiamano quel mondo di semplicità, povertà, di confini e tumulti tra sentimento e ragione in pieghe dell’animo umano che mutano come il trascorrere delle ore. Soggetti a morte ma anche a nuove rinascite.

Un fotografo che ha acquisito la realtà come fonte di conoscenza e si è posto l’ obiettivo  di  trasmetterla, documentarla,  perché ne ha compreso il valore.

 

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©️Riproduzione Riservata

 

 

IN SARDEGNA 1974,2011: al MAN mostra fotografica del fotografo minimalista GUIDO GUIDI

Uno sguardo lirico, attento alla sardità si potrà osservare nella nuova esposizione   che il Museo MAN di Nuoro propone dal 21 giugno al 20 ottobre 2019, dove verrà ospitata la prima grande mostra in un museo italiano – curata da Irina Zucca Alessandrelli – dal titolo “ In Sardegna: 1974, 2011” dedicata a Guido Guidi (Cesena, 1941), uno dei  più rilevanti protagonisti della fotografia minimalista italiana del secondo dopoguerra.

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Sardegna, Maggio 1974 |Stampa ai sali d’argento

La mostra è frutto di un’importante collaborazione tra l’istituzione museale e l’ISRE, Istituto Superiore Regionale Etnografico della Sardegna. Saranno esposte 250 fotografie inedite – commissionategli dall’ISRE – che testimoniano la relazione di Guido Guidi con il territorio sardo.

Un catalogo composto da tre volumi pubblicato da una casa editrice di Londra – Mack Books – documenterà le opere presenti in mostra che sono state ristampate dall’artista.

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Sardegna, Maggio 1974 | Stampa ai sali d’argento

Un racconto dei mutamenti paesaggistici e antropologici avvenuti in Sardegna dove immagini in bianco e nero degli anni Settanta sembrano colloquiare con le  opere a colori degli anni Duemila tra essenzialità, sottili geometrie, spazi lirici come struttura di storia, tradizione, umanità; la costante ricerca del dettaglio e del valore incommensurabile di ciò che è margine, parte di un tutto inafferrabile, un appiglio a quella realtà che il tempo muta.

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Sardegna, Maggio 1974 | Stampa ai sali d’argento

Tante “micro-storie” che ricamano emozioni e che sanno di origini, di semplicità e di nuove epifanie ed infine inducono riflessioni sulla nostra identità.

“Io non guardo soltanto il paesaggio ma ne faccio esperienza, perché io stesso sono dentro il paesaggio”  dice Guido Guidi, e noi faremo tesoro di questa mostra che privilegia l’interiorità del fotografo espressa con quelle “sfumature” del tempo, che ora ci scrutano e sembrano interrogarci sulla capacità di vedere e percepire la bellezza nell’anima della semplicità.

 

©Lycia Mele Ligios

(pubblicato su Olbia.it)

 

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English Version

A lyrical look, attentive to Sardinian culture, can be seen in the new exhibition that the MAN Museum of Nuoro on display from 21 June to 20 October 2019, where the first major exhibition will be hosted in an Italian museum – curated by Irina Zucca Alessandrelli – entitled “IN SARDEGNA: 1974, 2011” dedicated to Guido Guidi (Cesena, 1941) one of the most important post-war photographers, a forerunner of landscape photography much appreciated in the 70s.

The exhibition is the result of an important collaboration between the museum institution and the ISRE, Regional Ethnographic Institute of Sardinia: 250 unpublished photographs – commissioned by the ISRE – will be exhibited that testify to the relationship of Guido Guidi with the Sardinian territory.

A three-volume catalog published by a London publishing house – MACK BOOKS – will document the works on display that have been reprinted by the artist.

A story of the landscape and anthropological changes that took place in Sardinia where black and white images of the Seventies seem to dialogue with the color photographs of the 2000s between essentiality, subtle geometries, lyrical spaces as a structure of history, tradition and humanity; the constant search for detail and the immeasurable value of what is margin, part of an ungraspable whole, a foothold in that reality that time changes.

Many “micro-stories” that embroider emotions and that smell of origins, simplicity and new epiphanies and finally induce reflections on our identity.

“I do not only look at the landscape but I experience it, because I am inside the landscape” says Guido Guidi, and we will treasure this exhibition that favors the interiority of the photographer expressed with those “nuances” of the time that now scrutinize us and they seem to question us on the ability to see and perceive beauty in the soul of simplicity.

Il fotografo François-Xavier Gbré dona al Museo Man di Nuoro la sua opera “Sardegna”

“Noi ora dobbiamo affrontare il fatto … che il domani è oggi. Noi ci stiamo confrontando con la feroce urgenza dell’oggi…Sulle ossa e sui resti di numerose civiltà erano scritte queste patetiche parole:”troppo tardi”.

Martin Luther King  – 4 Aprile 1967

Nel mondo dell’arte, il luogo e l’identità sono temi ricorrenti che gli artisti inseriscono nei loro progetti, a volte segnati dall’aggressione del tempo che trasforma spazi e muta certezze.

Infatti, alcuni luoghi sembrano esser soggetti a logiche “dell’interruzione” per un’improvvisa sospensione dell’attività lavorativa o per l’incompiutezza di una struttura. Un ricorrente “volto con/temporaneo“, secondo quel concetto di contemporaneità definito dal filosofo Giorgio Agamben  “una singolare relazione con il proprio tempo, che aderisce ad esso attraverso una sfasatura e un anacronismo”.

Così un “presente” intriso di memoria storica, che mostra stratificazioni temporali, contraddizioni e discordanze, è stato oggetto del lavoro di François-Xavier Gbré, fotografo di fama internazionale, presente nella mostra fotografica  “Sogno D’Oltremare durante la penultima stagione espositiva  del MAN_Museo d’Arte Provincia di Nuoro.  

L’artista di origini franco-ivoriane nasce a Lille nel 1978. Tra le sue collaborazioni più importanti si ricorda quella con il grande maestro della fotografia a colori Stephen Shore, – amico e fotografo di Andy Warhol – autore del malinconico e mitico libro di fotografia  “Uncommon places”. Una collaborazione che gli ha permesso di affinare tecniche e linguaggi che forse lo hanno indirizzato verso un determinato tipo di percorsi artistici.

Anche François-Xavier Gbré ri/cuce memorie al presente nella ricerca spasmodica di strutture/architetture abbandonate, legate a mutamenti socio-economici. Inoltre, sceglie luoghi dove il tempo sembra essere sospeso,  mentre la natura s’impone con la sua travolgente libertà.

Ospite del MAN durante la scorsa estate, in collaborazione con la Sardegna Film Commission, ha percorso la nostra isola dal nord al sud per raccogliere materiale, al fine di sviluppare la  sua  articolata indagine storico-sociale e  in un excursus fotografico  comparava la sua terra d’origine, l’Africa, alla Sardegna per evidenziarne similarità.

Courtesy sito ©Françoise-Xavier Gbré 

La Sardegna e l’Africa terre separate da un mare che, in realtà, unisce lembi di terra, baricentro di civilizzazioni che hanno segnato la storia: il Mare Nostrum o Mar Mediterraneo.

Se pronunciamo lentamente la parola “m-e-d-i-t-e-r-r-a-n-e-o” ad un’iniziale apertura dell’apparato fonatorio, segue una chiusura verso la fine, quasi un’abbraccio come un onda che declina verso il suo inizio, dopo aver raggiunto la sua sommità. Oppure, l’abbraccio dell’artista che accoglie in sé il tempo, a cui sottrae istanti del passato per ridonarli all’eterno fluire, impreziositi da suggestive inquadrature, armoniche composizioni e malinconici giochi di luci. Riflessi di immensa sensibilità scanditi dal desiderio di rimodulare, ridefinire e infondere nuova vita  a ciò che sfiora con lo sguardo.

Nella mostra erano visibili testimonianze,  alle volte inquietanti e dolorose come i riferimenti  al periodo coloniale e lo sfruttamento delle risorse in Africa. Elementi  comuni con la nostra isola un tempo colonizzata, sfruttata, considerata margine.

Oggi in un presente “indefinito” è possibile cogliere echi di memorie. Il tempo visualizzato in ciò che “resiste”  sembra predisposto a conciliare con tutto ciò che resta, che è visibile e possiamo solo sfiorare o immaginare. La presenza umana percepita in alcune fotografie, dove ancora sono visibili i segni dell’uomo, è sospesa protagonista di un passato reo per aver distrutto e reso invivibili luoghi legati ad un dinamismo socio-economico che avrebbe potuto “descrivere una storia diversa“, forse migliore.

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“Sardegna” Courtesy MAN ph. ©Pierluigi Dessì – Confinivisivi

Tra le opere esposte c’era una “Costellazione” di 70 scatti dal titolo “Sardegna” che l’artista ha donato alla Collezione Permanente del MAN. Sono fotografie di vari luoghi dell’isola che hanno subito un’antropomorfizzazione,  opere incomplete e strutture di archeologia industriale dove i cicli di produzione sembrano esser stati interrotti.

129C78B2-20D3-4246-9C08-E5472FE62D70Courtesy MAN ph. ©Pierluigi Dessì – Confinivisivi

Azioni del passato che si intuiscono tra resti informi privi di senso: porzioni di edifici pubblici, strutture ricettive, ville, centrali elettriche, borghi fantasma… Un lavoro che esula da significati unicamente estetici e induce obbligatoriamente verso profonde riflessioni. Appare forse a livello inconscio la responsabilità sociale dell’artista e il suo impegno finalizzato  a “ri/scritture”?

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Courtesy MAN ph. ©Pierluigi Dessì – Confinivisivi

Forse sarebbe possibile recuperare i tanti luoghi abbandonati, più volte denunciati,  catalogati – come nell’eccellente lavoro svolto da Sardegna Abbandonata, – che ancora si stagliano contro la natura selvaggia e cieli depositari di storie taciute, e sui quali ci sono stati esigui interventi di ristrutturazione o riqualificazione?

Alcuni siti dovrebbero esser bonificati con urgenza per tutelare e salvaguardare la nostra terra. Oggi sono divenuti silenti presenze che riescono a farci esternare solo rabbia.

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Courtesy MAN ph. ©Pierluigi Dessì – Confinivisivi

E pensiamo alla Base USAF nel monte Limbara, nei pressi di Tempio Pausania,  che dovrebbe essere smantellata con una bonifica della zona; il Cementificio di Scala di Giocca, vicino Sassari. Come sarebbe interessante riqualificare forse per finalità turistiche o museali il borgo fantasma di Pratobello vicino Orgosolo; l’Albergo ESIT nel Monte Ortobene, a Nuoro;  la Miniera di San Leone, vicino Cagliari… Troppi luoghi se consideriamo che  la superficie della Sardegna è di appena 24.100 km²!

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Courtesy MAN ph. ©Pierluigi Dessì – Confinivisivi

In attesa di una maggior consapevolezza verso un intervento finalizzato alla tutela ambientale e al recupero della memoria storica, ci si chiede: quale funzione abbiano questi luoghi, al limite tra testimonianza e racconto, considerata la vocazione primaria dell’isola legata al turismo?

François Xavier-Gbré con la sua sensibilità, in un dialogo intimo dove l’incompiutezza, l’imperfezione potrebbe evocare la natura dell’uomo, i cicli di nascita e di morte, ha realizzato delle immagini liriche, di grande pathos che fanno “vibrare” il passato con giochi chiaroscurali, inquadrature rigorose e geometrie, alla ricerca di nuove logiche, forse nuove dimensioni dell’esistere.

Da qui la ricerca di quel senso che sfugge e ci induce a chiederci “perché”  ha sentito l’urgenza di fotografare quelle strutture abbandonate?

Aveva cominciato la sua indagine nella sua terra d’origine l’Africa. A Dakar aveva fotografato il Palazzo di Giustizia oggi divenuto sede della Biennale d’Arte Contemporanea, oppure la Piscina Olimpionica riaperta dopo esser stata ristrutturata da un azienda cinese. Quale sarà invece il destino di tutte queste strutture abbandonate nella nostra isola?

Le immagini acquisiscono senso nell’esprimere la bellezza malinconica e struggente di alcuni luoghi. E il fotografo avvalendosi di una scrittura di luce realista, coglie quelle sfumature che impressionano,  recupera il tempo dando il giusto valore riformulando funzioni, suggerendo implicitamente interventi mirati e urgenti in linea con la salvaguardia dell’ambiente, per lasciare uno spazio vivibile alle generazioni future.

L’isola è un’appendice della nostra anima. E tutti, anche coloro che non sono nati nell’isola ma la considerano terra d’adozione,  devono tutelarla.

Francois Xavier Gbré con il suo dono ha manifestato generosità e riconoscenza per  la città di Nuoro –  che lo ha accolto – e per tutti i sardi. Rimane così un segno del suo passaggio nella nostra isola. Un grande artista, delicato e sensibile che non solo ha colto l’importanza del nostro passato storico-culturale, ma lo ha ricollocato nel flusso del tempo donandogli nuovi significati e una “nuova”  struggente eternità.

©Lycia Mele Ligios 2019

 

English Version

 

Now we have to face the fact … that tomorrow is today. We are confronted with the fierce urgency of today … These pathetic words were written on the bones and remains of numerous civilizations: “too late”.

Martin Luther King – 4 April 1967

 

In the world of art, place and identity are recurring themes that the artists insert in their projects, sometimes marked by the aggression of time that transforms spaces and changes certainties.

In fact, some places seem to be subject to “interruption” logic due to a sudden suspension of work or due to the incompleteness of the structure. A recurring “con/temporary face”, according to concept of contemporaneity defined by the philosopher Giorgio Agamben as a “unique relationship with one’s own time, which adheres to it through a mismatch and an anachronism”.

Thus a “present” steeped in historical memory, which shows temporal stratifications, contradictions and discrepancies, was the subject of the work of François-Xavier Gbré, photographer of international fame, present with the photographic exhibition “Sogno D’Oltremare” in the penultimate exhibition season of the MAN Museum of the Province of Nuoro.

The artist of Franco-Ivorian origins was born in Lille in 1978. Among his most important collaborations I remember that with the great master of color photography Stephen Shore, – friend and photographer of Andy Warhol – author of the melancholic and mythical photography book ” Uncommon places ”. A collaboration that has allowed him to refine techniques and languages ​​that perhaps have directed him towards a certain type of artistic paths.

Even François-Xavier Gbré recalls memories in the present in the spasmodic search for abandoned structures / architectures, linked to socio-economic changes. And he also chooses places where time seems to be suspended, while nature imposes itself with its overwhelming freedom.

Guest of the MAN during last summer, in collaboration with the Sardinia Film Commission, he traveled our island from north to south to collect material, in order to develop his articulated historical-social investigation. And in a photographic excursus he compared his homeland, Africa, to Sardinia to highlight similarities.

Sardinia and Africa, lands separated by a sea that, in reality, combines strips of land, the center of civilization that have marked history: the Mare Nostrum or the Mediterranean Sea.

If we slowly pronounce the word “m-e-d-i-t-e-r-r-a-n-e-o” to an initial opening of the phonatory apparatus, there follows a closure towards the end, almost an embrace like a wave that declines towards its beginning, having reached its top. Or the embrace of the artist who welcomes time into himself, to which he steals moments from the past to give them back to the eternal flow, embellished by suggestive shots, harmonious compositions and melancholy plays of lights. Reflections of immense sensitivity punctuated by the desire to restructure, to redefine, to breathe new life into what touches with one’s eyes.

In the exhibition were visible testimonies, sometimes disturbing and painful as the references to the colonial period and the exploitation of resources in Africa. Common elements with our island once colonized, exploited, considered a margin.

Today in an “undefined” present it is possible to catch echoes of memories. The time displayed in what “resists” being present seems predisposed to reconcile with all that remains, which is visible and we can only touch or imagine.

The human presence perceived in some photographs, where the signs of man are still visible, is suspended protagonist of a past guilty for having destroyed and made uninhabitable places linked to a socio-economic dynamism that could “describe a different story”, perhaps best.

Among the exhibited works there was a “Constellation” of 70 shots entitled “Sardinia” that the artist donated to the Permanent Collection of the MAN.

They are photographs of various places on the island that have undergone anthropomorphization, incomplete works and industrial structures where production cycles seem to have been interrupted.

Actions of the past that can be sensed between shapeless remains devoid of meaning: portions of public buildings, accommodation facilities, villas, power stations, ghost towns … A work that goes beyond purely aesthetic meanings and necessarily leads to profound reflections. Does the social responsibility of the artist and his commitment aimed at “re / writing” appear at an unconscious level?

Perhaps it would be possible to recover the many abandoned places, repeatedly denounced, cataloged – as in the excellent work carried out by Abandoned Sardinia – which still stand out against the wild nature and the depository of untold stories, and on which there have been few interventions of restructuring or redevelopment?

Some sites should be urgently reclaimed to protect and safeguard our land. Today they have become silent presences that manage to make us express only anger.

I am thinking of the USAF base in Mount Limbara, near Tempio Pausania, which should be dismantled with a reclamation of the area; the Cement factory of Scala di Giocca, near Sassari. How it would be interesting to redevelop the ghost town of Pratobello near Orgosolo, perhaps for tourist or museum purposes; the ESIT Hotel in Monte Ortobene, in Nuoro; the San Leone Mine, near Cagliari … Too many places if we think that the surface of Sardinia is just 24,100 km²!

Waiting for a greater awareness towards an intervention aimed at environmental protection and the recovery of historical memory, one wonders what function these places have, on the border between testimony and story, considered the primary vocation of the island linked to tourism?

François Xavier-Gbré with his sensitivity, in an intimate dialogue where incompleteness, imperfection could evoke the nature of man and his evolutionary and involutive cycles, of birth and death, gave lyrical images, of great pathos that make the past vibrate with chiaroscuro games, rigorous shots and geometries that unconsciously seek new logics, perhaps new dimensions of existence?

Hence the search for that meaning that escapes and leads us to ask “why” did he feel the urgency to photograph those abandoned structures?

He had begun his investigation in his homeland of Africa. In Dakar he had photographed the Palazzo di Giustizia, which has now become the seat of the Biennale of Contemporary Art. Or the Olympic swimming pool that has been re-opened today because it was renovated by a Chinese company. What will be the fate of all these abandoned structures on our island?

Words have lost authenticity and power. They have become pure abstractions. Only the image takes on value in expressing with deafening silence the melancholy and poignant beauty of some places. And the photographer making use of a writing of realist light, captures those nuances that impress, recovers time giving the right value by reformulating functions, inciting targeted and urgent interventions in line with environmental protection, to leave a livable space for future generations .

The island is an offshoot of our soul, of our roots, so we must protect it, protect it more than we do ourselves. Because we are the island itself.

Francois Xavier Gbré with his gift showed generosity and gratitude for the city of Nuoro – which welcomed him – and for all the Sardinians. Thus it remains a sign of its passage through our land. A great artist, delicate and sensitive, who not only grasped the importance of our past, but put it back in the flow of time, giving it a “new” poignant eternity and new potential meanings.

©Lycia Mele Ligios

Angelo Lauria : le “impressioni” di un fotografo

Sono una lastra fotografica
impressionabile all’infinito
Ogni dettaglio si stampa
dentro di me in un tutto.
 Pessoa

La Sardegna è un’isola che ammalia da sempre: sia per la sua natura incontaminata che per il suo mare cristallino con una varietà di colori e sfumature. In una sola parola è emozione. Riflette emozioni. Inoltre ha potere taumaturgico. Distende gli animi, rasserena menti. Si riscopre il valore del tempo. Dei ritmi di vita scanditi dal fluire del giorno. Gli istanti si dilatano. Le cose sembrano avere un proprio senso, una propria storia, se rapportate ad un inizio. Ad una fine. L’alba e il tramonto che danno ritmo all’agire. Dove la Storia e il Tempo non compaiono. E Tutto diviene contemporanea (com)presenza: Passato intriso di tradizioni e Presente. L’istante sospeso.

Angelo Lauria, Punta Molara Capo CodaCavallo

©Angelo Lauria, Punta MolaraCapo Coda Cavallo

Questa magia che attrae l’anima dei visitatori, crea una sorta di dipendenza. Infatti sempre più persone scelgono la Sardegna come luogo di vacanza e vi ritornano negli anni successivi. Alcuni abbandonano il “continente” per vivere definitivamente nell’isola. Tra questi ricordo il cantante Fabrizio De André che scelse di vivere insieme alla sua compagna Dori Ghezzi ai piedi del monte Limbara, nei pressi della città di Tempio Pausania. Luogo di silenzi e meditazione ma anche di “spuntini” condivisi con i locali. Fonti di ispirazione per le sue canzoni che integrato con lo studio del dialetto e delle tradizioni popolari gli permise di assimilare “l’anima gallurese”.

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©Angelo Lauria,  Cala Brandinchi [San Teodoro]

L’isola sembra esser vista come una grande madre, i cui teneri abbracci distendono, rasserenano, riconciliano. Donano energia. E’ il ritorno a casa di Ulisse dopo le peripezie del viaggio. È voler ricolmare i vuoti di frenetiche città che sfiancano, in cui l’individuo diviene forma plasmata da eventi. Dove l’interiorità viene triturata dai grimaldelli del tempo. Dove tante le strade offerte ma poche le verità autentiche.

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©Angelo Lauria, Capo Comino [Siniscola]

La Sardegna, faro luminoso che allontana dai pericoli e salva, ha incantato per i suoi colori, profumi e sapori un fotografo lombardo che, lasciata la terra ferma come il poeta De André ha deciso di vivere stabilmente nell’isola scegliendo di vivere nella campagna di Torpè, nei pressi di una località tra le più suggestive del nord Sardegna, Posada.

LYC11©Angelo Lauria, Posada

Il suo nome è Angelo Lauria nato a Tripoli in Libia ma con un’isola nel cuore, la Sicilia, di cui erano originari i nonni. Negli anni dell’adolescenza si trasferisce con tutta la famiglia a Milano. E richiamato dalla semplicità e dalla straordinaria bellezza della natura, nella zona dei laghi, si trasferisce nei pressi del Lago di Varese.

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©Angelo Lauria, Airone Rosso [Lago di Varese]

I riflessi, i silenzi, la natura del luogo lo impressionano ed emozionano da sentire il desiderio di donare eternità all’istante sospeso in un fotogramma che continuerà a trasmettere emozioni.

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©Angelo Lauria,  Svasso [Lago di Varese]

E per scoprire questi luoghi incontaminati sceglie il Kayak. Mezzo che gli permette di  raggiungerli con facilità e immergersi in quei silenzi che fanno sfiorare l’eterno divenire.  Teso ad ascoltare i versi dei vari esemplari di fauna, i fruscii delle canne, i gorgoglii dell’acqua. Un orizzonte che ha dato senso alla sua vita. E le bellissime immagini raccolte hanno permesso la realizzazione della mostra “Il lago di Varese: Emozioni in kayak”, con la campagna di sensibilizzazione a salvaguardia della flora e fauna della zona lacustre, coinvolgendo scolaresche della zona.

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©Angelo Lauria, Cigni [Lago di Varese]

Intense e struggenti. Le fotografie commuovono per la loro bellezza. La natura si offre e dona. Una sintesi di quanto affermava il grande naturalista John Muir “In ogni passeggiata nella natura, l’uomo riceve molto più di ciò che cerca“. La natura ha permesso a Lauria di perfezionarsi nella tecnica e racconto fotografico.

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©Angelo Lauria, Tartaruga  e Folaga con i suoi piccoli [Lago di Varese]

Ma negli ultimi anni, quasi in segno di gratitudine verso la terra che lo ha adottato o forse per pura devozione, ha realizzato una serie di ritratti fotografici: volti di donne e uomini con il costume tradizionale, utilizzato nelle varie sagre o feste religiose che animano un’isola dove la tradizione, riscoperta e sostenuta negli ultimi decenni, da significato all’agire e ammalia. Come ad esempio rapiscono per rara bellezza i tessuti preziosi, i colori brillanti, i ricami e i decori sugli scialli. Superfici e forme che emettono sonorità. Melodie d’intensità.

DESULO

©Angelo Lauria Costume di Desulo

Seguire la tradizione è ricercare l’anima sarda e quell’elemento universale che caratterizza i sardi e che si riscopre nella bellezza, nelle forme e nel carattere. La bellezza eterna che traspare dalla perfezione e da un cromatismo armonico dei preziosi abiti ha colpito la sensibilità di Angelo Lauria. Alla bellezza della natura contrappone quella dei pregiati manufatti e dei volti alla ricerca di quello spirito di sardità che contraddistingue il sardo da qualsiasi connazionale.

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©Angelo Lauria, Costume di Osilo

Inizia a seguire le più importanti Sagre della Sardegna: la Sagra del Redentore, la Cavalcata Sarda, la Sagra di Sant’Efisio raccogliendo tantissimi scatti che dopo una attenta selezione sono esposti a Posada in una Mostra dal titolo “Il costume sardo: Volti e colori della tradizione popolare” e presentati ad Olbia nel Festival della Fotografia Popolare #Storie di un Attimo  a cura dell’Associazione Culturale Gli Argonauti.

NUORO

©Angelo Lauria, Costume di Nuoro

È in questa occasione che ho conosciuto il fotografo. Ed ebbra di colori, forme e richiami alla mia tradizione, decisi di intervistarlo. Una persona umile, entusiasta della sua grande passione per la fotografia. Mi parlò dei suoi iniziali obiettivi: ritrarre per trasmettere emozioni della natura, in particolare della fauna e flora lacustri. Un ritorno alle origini, alla semplicità per ritrovarsi o forse (r)accogliersi e proseguire il suo cammino  da apolide.

Una svolta nelle sue ricerche e racconti fotografici di carattere documentaristico sarà data dal suo trasferimento in Sardegna. Amore per il mare e per il moto perpetuo delle onde. Una musica dell’eterno presente che si annida nell’anima. Il soggetto muta ma l’elemento primordiale c’è, è presente. Perché l’acqua unisce e fortifica. Infonde coraggio. Salva.

I silenzi del lago ora diventano espressione / parola nei volti ritratti. L’anima di un popolo che lo incuriosisce e lo affascina.

Così continua il suo cammino. Alla ricerca di nuove emozioni. All’eterna ricerca del suo sé. Il segno della vita, da sempre.

Lycia Mele
©Riproduzione Riservata

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©Angelo Lauria, Costume di Ittiri

Mostre

LAGO DI VARESE – Emozioni in kayak

2010 Badia di Ganna 

2011 Lavena Ponte Tresa
2011 Valmorea

IL COSTUME SARDO – Volti e Colori Della Tradizione Popolare

2015    Posada 

2015    Torpè
2015    Olbia

●Contatti:
E-mail angelolauria52@gmail.com
ITTIRI
©Angelo Lauria, Costume di Ittiri
English Version

Karen Knorr

“L’animale ci guarda
e noi siamo nudi davanti a lui.
E pensare comincia forse proprio qui il pensiero”

Derrida

Ho sempre accarezzato l’idea che gli animali fossero delle creature speciali con il dono della “parola silente”: sguardi, versi che trasmettono significati mentre sfiorano le corde dell’emozione.
I bellissimi esemplari fotografati da Karen Knorr lo confermano. Animali umanizzati nelle loro pose sembrano sfidare l’uomo nella conoscenza, quasi si desideri superare quel dualismo uomo – animale e/o cultura – natura. E se la risultante fosse natura / cultura?

L’artista di origini tedesche, – che attualmente vive a Londra, –  nel 2008 si reca in India nella regione del Rajasthan con l’intento di dar risalto allo splendore dell’architettura indiana con i suoi  palazzi aristocratici, templi, mausolei, i loro interni con pregiati rivestimenti di marmi, vetri policromi e pietre preziose.

In questa cornice di raffinata bellezza inserisce dei bellissimi animali, come il cigno, la scimmia, il leone e altri, quasi ad enfatizzarne la sacralità e l’elemento di simbiosi concettuale: natura e cultura.

Karen Knorr The Gatekeeper
Karen Knorr
The Gatekeeper

La natura appare all’interno della “cultura”, mostra la sua centralità, quale fondamento. Senza la natura non ci sarebbe cultura. Il grande monito di significato antropologico sembra esser dettato dalla necessità di rigettare la cultura delle caste indiane. Come attribuire differenze tra esseri umani in base alla loro professione e/o ruolo all’interno di una società? Questo è solo sovrastruttura, si deve partire dalla natura che in-forma la cultura, come evidenzia Emanuela Casti quando afferma che la discrasia tra natura e cultura risulta superata “se si riconosce che l’uomo non solamente modifica il preesistente con la sua azione, ma lo crea attraverso una dinamica che potremmo chiamare retroattiva, quella che conduce la natura ad essere riconosciuta attraverso la cultura”.

Karen Knorr  Flight  to Freedom
Karen Knorr
Flight to Freedom

L’India vive di forti contrasti che ammutoliscono le coscienze di noi occidentali:  esistenze ai margini private della dignità di uomini, dove il riscatto sfuma nel malessere sociale radicato nella più profonda sofferenza ed estrema povertà.

Ma perché l’artista privilegia gli animali in spazi che per consuetudine appartengono agli uomini?

Dall’analisi etimologica dei termini si evidenzia una prima distinzione. La parola uomo viene dal latino homo che si collega a humus, terra, quindi terrestre, “procreato dalla terra”, un’antica credenza. La parola animale, invece, deriva da anima forma femminile di animus, spirito.

Si parla così di creature animate con la differenziazione sostanziale che vede l’uomo proteso verso la ma(ter)ia, mentre l’animale riflette spiritualità, purezza.

Karen Knorr The Witness
Karen Knorr
The Witness

Una diversità che ci conduce ad avvicinare sempre più l’animale all’uomo poiché  pur “terrestre” anche egli possiede un’anima. Se gli animali mostrano “coerenza” nel loro evolversi l’uomo sembra esser giunto al punto di non ritorno. Di immobilismo. I corsi e ricorsi di vichiana memoria hanno svuotato significati,  dove forme acquisite subordinate al tempo mutano o si annullano. Non hanno più valore.

L’uomo appare sconfitto, privato della sua dignità, del ruolo e coscienza. Sedotto dalla materialità e temporaneità più che dall’eternità. Non conosce il significato del suo vivere e lo cerca inquieto nel collezionare deviazioni, scarti, assenze per esser-ci.

Karen Knorr  The survivor
Karen Knorr
The survivor

In una nazione come l’India in cui le vacche sono sacre, la storia dei palazzi appare secondaria, marginale. Gli animali, che rappresentano l’istante dello scorrer del tempo, racchiudono significato. Da una parte si scandisce l’importanza di esser dentro la storia vestiti da veli di cultura; dall’altra la “natura” tra-veste l’agire.

Karen Knorr A place like Amravati
Karen Knorr
A place like Amravati

Sono animali, ma potrebbero essere uomini? Derrida dice “l’uomo è un animale che descrive la propria vita”. Forse la parola crea differenza? Ma evidenzia ancora che “l’uomo è l’unico animale che si è vestito, essere nudo è un limite interno alla vita. Solo con la vita nel suo apparire mi vedo come l’animale che sono, – continua Derrida –  ovvero la vita che sono.”

La differenza uomo-animale è stata creata dall’uomo per riconoscersi. Il filosofo li considera creature “viventi” di cui l’animale non è “non parlante” ma “non rispondente” . Se pensiamo ai nostri compagni cani, gatti, criceti, conigli potrebbero parlare anzi ci parlano. Ma non potrebbero rispondere. Ecco che per Derrida il codice animale esiste in quanto definito dal codice umano.

Karen Knorr Waiting for Atman
Karen Knorr
Waiting for Atman

Dopo Derrida voglio richiamare il pensiero di un’altro grande studioso, l’antropologo Lévi-Strauss che parla di “rapporto aperto” per i continui rimandi esistenti tra uomo e animale con manifeste contaminazioni. Lui stesso dirà che entrambi possiedono gli stessi meccanismi-processi solo che negli animali sembrano avere una forma “slegata”.

Ma allora il grande tributo agli animali, con l’esclusione dell’uomo dalla scena, potrebbe enfatizzare il nostro essere divenute “bestie”? Agiamo con violenza e sfregio nel mare dell’incoerenza portando come vessillo il nostro ego. Potremo ritrovarci solo nell’incontro con l’altro, e purificandoci da sovrastrutture che abbagliano.

lyciameleligios
© Riproduzione Riservata

Approfondimenti

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Fatma Bukač

Non mi fusi mai con nessuno

Mai respirai così tranquillamente

Schwarz

L’opera di Fatma Bukač riflette un’immagine fluida tesa a cristallizzarsi in un luogo estraneo a contaminazioni. In questo non-luogo sembra attendersi una Ri-Composizione del Silenzio che reso sordo dal dolore, riaffiora per ricomporsi sulle tracce “dell’essere”.

Le fotografie, le installazioni e i video trasudano sofferenza e desiderio di riscatto. Si ricercano origini per definire identità o ruoli nell’essere tempo. Dove l’assenza scruta l’umano sul limite del proprio baratro.

Fatma Bukac Untitled-III- Allegorie della colpevolezza passato
Fatma Bukač
Untitled-III-
Allegoria della colpevolezza-passato

Fatma Bukač di etnia curda, nasce nel 1982 in un piccolo paese turco, Iskenderun, ai confini con la Siria. Il padre era un’insegnante comunista che fu fatto prigioniero politico durante la guerra turco-siriana. L’assenza della figura paterna durante l’infanzia; la guerra in cui venne distrutto il suo villaggio; l’essere donna in una società per tradizione patrilineare, subordinata alla “protezione” di un uomo:  saranno elementi che Fatma rielaborerà e approfondirà nelle sue opere. Influenzeranno il suo linguaggio espressivo che diverrà interprete di conoscenze per predisporsi depositario di memoria.

Le sue opere struggenti graffiano l’anima. Non conoscono oblio. Sono assolute. Colmano vuoti che si rifrangono in un presente limite, incompleto. Tante le evocazioni e i rimandi. Si percepisce l’urlo di ciò che non è più, ma che potrà essere ricolmato. Ridefinito. Ridisegnato. Si aderirà al presente frantumando il ricordo per poter sopravvivere. Si conserveranno i resti. Si “penetrerà” nei restanti silenzi rubati alla Storia. Per accettare una diversità che non è mai “esistita” se non nell’essere tempo Storia che sfuma dettagli.

Fatma Bukač Latibulum
Fatma Bukač
Latibulum

Quando vidi le opere di Fatma Bukač sentii i “respiri” di Francesca Woodman. Ritrovai la stessa intensità e forza espressiva.  Là il preludio di una fine nell’espiazione. Qui tensione-potenzialità futura. Forse speranza che sopravvive ad un dolore-vertigine.   Ci si proietta in un futuro diverso, altro, di raccordo con il passato che partendo dal presente semina il domani.

Qualcosa dovrà definirsi, prender forma, divenire realtà. Anche se tutto sembra sospeso, estraneo al tempo diviene un non-luogo ascritto al mito. Focalizzato nell’atto delle poche azioni esistenti. Sembra un agire “contratto”. Lascia spazio ai pensieri. Liberi di correre negli interstizi di un reale muto. Sfiancato.

Fatma Bukač
Fatma Bukač

Tracce evase dai limiti della Storia raccontano l’immobilità agghiacciante di ciò che resta, privo di identità, di struttura, di codici. Ma l’agire crea luminosità. Apre squarci di desideri. Unisce. Appaga. È ritrovar-si nella germinazione del sé.

L’inseminazione dell’adesso su brandelli di un passato raso al suolo denuncia una presa di coscienza dell’io che mutilato ricerca equilibri nel far confluire il presente su  “tabulae rasae” verso la scoperta di un nuovo “genere” d’identità. Una forma che ricuce la parte mancante con l’assenza.

Fatma Bukač – Untitled IV (Allegoria della colpevolezza – passato)
Fatma Bukač – Untitled IV (Allegoria della colpevolezza – passato)

I paesaggi sembrano esser sospesi. Ma l’anima non ha abbandonato i luoghi. Manifesta il desiderio di ricostruire. Desidera essere parte fondante e seme di rinascita.

La figura nuda, avvolta nel cellophane, all’interno della casa bombardata è l’elemento fondante, quasi un demiurgo del fieri. Si  fecondano i luoghi per poterli “acquisire” nella propria interiorità. Si assimilano le origini nella consapevolezza di ciò che è stato.

Rimasi molto sorpresa quando in un intervista l’artista disse che le sue installazioni non erano di denuncia contro il governo turco. Il suo desiderio era quello di raccontare  il presente, manifestando ciò che le premeva definire: la sua Anima, l’identità,l’origine.

Forse una ricerca escatologica per unire lembi di lacerazioni e accettare la diversità pur nella tras-formazione.

Fatma Bukač  installazione Omne Vivum Ex Ovo
Fatma Bukač
installazione Omne Vivum Ex Ovo

Si vuole “inseminare” ciò che è divenuto non-luogo modificato da un evento la guerra, che voleva cancellare. Ecco una figura femminile che depone delle uova dentro i mattoni, resti dei bombardamenti.

Rinascere sarà consequenziale alla presa di coscienza di ciò che non è più e definisce le origini. Solo successivamente si edificherà un nuovo esistere. Le voragini devono esser colmate. Si devono creare ponti solidi per poter inseguire il futuro.

Fatma Bukač con le sue rappresentazioni diverrà un’importante fulcro di trasmissione del sapere. Come un vento impetuoso scuoterà coscienze.

Fatma Bukač  Ego et Lanx Nigra
Fatma Bukač
Ego et Lanx Nigra

“In questa prospettiva l’identità viene quindi considerata come un processo continuo di identificazione, dove le definizioni sono variabili: l’identità non è più qualcosa che proviene dalle appartenenze, o non solo, ma anche un processo legato alle autonome capacità di individuazione, sempre più richieste dalla società complessa che esige individui autonomi, che funzionino come terminali culturali”

Parole del Meucci che attestano come la consapevolezza di Fatma Bukač nel documentare le sue origini, la condurrà a porsi autentica mediatrice culturale.

Carlo Sgorlon sottolinea come non sia possibile rompere con il nostro passato perchè “rappresenta la tradizione, la continuità, la direzione, lo sfondo necessario della nostra esistenza….Sarebbe come rinunciare alla nostra memoria collettiva e quindi a una parte essenziale di noi stessi. Come sciogliere i cavi che ci legano alla Terra, per vagare senza meta nello spazio, al modo di una mongolfiera disancorata”.

Fatma Bukač Malum in se
Fatma Bukač
Malum in se

L’opera di Fatma Bukač è di notevole rilievo per le sue ricerche sulla costruzione identitaria. Pur presentandosi con un linguaggio espressivo intenso, a volte cruento, ha documentato un passato di continuità cercando di saldare nel presente l’origine e l’evoluzione della consapevolezza dell’essere uomo contemporaneo.

Non potremo vivere il presente senza recuperare o “riconciliarci” con il nostro passato, radice preziosa della nostra anima. Saremo alberi senza più radici, privi di domani.

Lycia Mele
© Riproduzione riservata

Approfondimenti
Le fotografie presenti appartangono alla serie Melancholia I, 2008
http://www.albertopeola.com/it/artisti/13-bucak-fatma.html
http://neuramagazine.com/le-identita-possibili-di-fatma-bucak/

Francesca Woodman
http://www.heenan.net/woodman/