Musicultura | Cordas et Cannas, uno sguardo oltre l’isola

“Dove il futuro si innalza nel passato e l’oggi è questo
sguardo. È un occhio il presente, tra un battito di ciglia e
l’altro, in un montaggio permanente di visioni”

Davide Nota

Un nome avvolge l’anima della loro musica, creato da due parole.  La prima rappresenta un oggetto, la corda,  simbolo di unione: l’abbraccio della loro musica verso contaminazioni, con rimandi tra tradizione e innovazione. A ciò, si aggiunga la necessità di confronto e condivisione con altre realtà musicali nazionali e internazionali. Infine, il nome di una pianta graminacea, tipica dell’area mediterranea, la canna, apparentemente  esile in realtà molto resistente.  Evoca la fragilità dell’uomo, soggetto ai venti della vita, in  resilienza e adattabilità. Possiamo ben dire che si distingua per longevità, altra caratteristica di questo gruppo. Loro sono i Cordas et Cannas, gruppo di musica etnica, portavoce delle nostra cultura identitaria in Sardegna e all’estero. 

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Cordas et Cannas – by courtesy of ©️Fabrizio Giuffrida

In questi giorni impegnati nel Musicultura World Festival come promotori dell’importante rassegna musicale, li abbiamo intervistati per ripercorrere insieme la loro storia e per ringraziarli del loro impegno e volontà nel proporre progetti musicali, dove l’attenzione è rivolta non solo alle melodie, armonizzazioni tra  sperimentazione e contaminazione, ma ai loro testi che affrontano tematiche di carattere sociale al fine di indurre una maggior consapevolezza e senso civico in tutti: problemi che affliggono la nostra contemporaneità come la guerra, conflitti, mine antiuomo e salvaguardia  dell’ambiente. Una musica pervasa dall’impegno con tonalità contemporanee.

Cominciamo a parlare di origini, quelle che vi hanno fatto incontrare e portare avanti un progetto musicale prezioso,  legato in parte alla nostro patrimonio culturale.

Il gruppo Cordas et Cannas nasce ad Olbia nel 1978-1979 dall’incontro di musicisti con percorsi musicali differenti, ma intenti ben definiti, avvalendosi,  inoltre, di vari ricercatori in campo storico-antropologico ed etnografico. 

La prima formazione era composta da: Andreino Marras, Gesuino Deiana, Francesco Pilu e Bruno Piccinnu. 

Il nostro percorso musicale è segnato dal confronto tra la nostra realtà socio-culturale e quella del mondo intero. A ciò si deve l’uso di alcuni strumenti quali l’organetto diatonico, launeddas, trunfa, sulittu, armonica,  serraggia, tumbarinu di Gavoi,  a cui si sono accostati  strumenti non tipicamente sardi: le percussioni, il violino, la chitarra elettrica e il flauto traverso, provenienti da altre culture musicali quali le percussioni africane, asiatiche e latino americane. Commistione che si ripropone anche nella scelta ed elaborazione dei testi, laddove accanto agli autori della nostra Isola, si riconoscono echi di autori stranieri.

Qual è la vostra formazione attuale? 

Oggi ci presentiamo con una formazione rinnovata e un sound ancora più coinvolgente e adatto ad ogni tipo di pubblico e contesto. Il gruppo è composto dal cantante/polistrumentista Francesco Pilu,  Bruno Piccinnu (percussioni e voce) fondatori storici del gruppo, Lorenzo Sabattini al basso elettrico fretless, Sandro Piccinnu alla batteria, Gianluca Dessì chitarre e mandola e Alain Pattitoni chitarra acustica ed elettrica più voce.

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Francesco Pilu – photo by courtesy of ©️Fabrizio Giuffrida 

La vostra musica colta si misura tra tradizione e innovazione.

Il nostro percorso musicale parte dal patrimonio culturale della tradizione sarda orale con le sue varianti linguistiche logudorese, barbaricino, campidanese, gallurese e con i propri stili popolari: canto a tenore, cantadores a chiterra, launeddas e danze tipiche.  Prosegue nell’esplorazione di generi musicali, che spaziano dall’Africa all’area del Mediterraneo, fino al mondo della cultura celtica, ponendoli insieme in una piattaforma unica, che ha permesso di sviluppare un suono originale e ha conferito al gruppo una distinta connotazione fin dalla sua nascita. 

Il progetto musicale Cordas et Cannas  si definisce  un viaggio attraverso le radici culturali della musica sarda, attualizzata da armoniosi intarsi sonori, presi da altre culture e generi musicali e,  inoltre, con il percorso musicalimba, si materializza l’incontro tra la musica tradizionale e quella moderna, espressa nelle varie lingue del territorio della nostra regione, con sonorità originali, danze coinvolgenti e canzoni di appartenenza. 

Con il video Terra Muda, che presenta un brano di recente realizzazione, si rappresenta la Sardegna enfatizzando la salvaguardia dell’ambiente; un messaggio che nasce e parte dalla nostra isola,  indirizzato verso tutto il pianeta sintetizzato in una frase:  Un suono, un’idea, un messaggio dalla terra del silenzio“, quasi un mantra che anima i nostri concerti con un concetto “distillato” di un rinnovato e praticabile rispetto verso l’ambiente e la bellissima natura che ci circonda.

Come nasce la ricerca delle vostre sonorità? 

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo far riferimento alla nascita del gruppo quarant’anni fa quando si creavano canzoni e brani strumentali attingendo dalla tradizione, come già espresso prima.  Nell’arco di circa dieci anni, si è lavorato alla composizione di musica originale intorno a quella tradizionale,  ma già ponendo basi di esplorazione artistica spesso molto lontana dai canoni tipici della Sardegna.

Spesso i pezzi venivano proposti da qualche componente del gruppo, visti e visionati da tutti con gli strumenti a disposizione e dopo discussioni sul tipo di brano e il suo contesto, veniva abbozzato in una sorta di prova strumentale. Ognuno svolgeva una propria ricerca esecutiva ed espressiva e quando sentivamo fosse completo e soprattutto funzionale, il pezzo veniva blindato in un arrangiamento definitivo.

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Bruno Piccinnu – Photo by Courtesy of ©️Fabrizio Giuffrida

Da quali autori attingete per ricreare quelle particolari atmosfere e sonorità che evocano, pur mostrando “libertà” negli arrangiamenti, la nostra musica etnica?

Gli autori sono tantissimi e sono quelli che fanno parte integrante dei nostri percorsi musicali. Perciò, non faremo esplicitamente dei nomi, potremo dire che ognuno di noi ha vissuto (chi più chi meno), tutta la musica dagli anni sessanta in poi. I fenomeni rock, blues, jazz e musica d’autore sono stati veicoli importanti verso un confronto con la musica sarda per affermare quest’ultima in un una nuova modalità e con un rinnovato stilema artistico. 

In questo panorama musicale, affiora la musica etnica internazionale e inizialmente i nostri modelli di riferimento sono stati i gruppi del Folk Revival, come Fairport Convention e Alan Stivell e altri di fine anni settanta, ma anche gruppi italiani come Nuova Compagnia del Canto Popolare, Canzoniere del Lazio insieme ad altri. Tutti hanno avuto un ruolo importante nel tracciare una nuova via che sarebbe diventata la musica caratterizzante del nostro gruppo.

Dopo i tre lavori discografici dei primi dieci anni, abbiamo dato molta importanza ai concerti e quindi alla musica dal vivo, producendo un disco live seppur completato in studio. Crediamo che ci siano stati brani, da noi composti, che abbiano avuto tantissime contaminazioni artistiche. Infatti abbiamo cercato di mettere insieme testi di poeti contemporanei della Sardegna con musiche originali, con riferimenti al canto a tenore e in qualche occasione alla musica cosidetta progressiva, utilzzando strumenti musicali non convenzionali. In quarant’anni anni di musica, ci  definiscono ancora oggi, gli “innovatori della musica sarda”, crediamo sia un complimento di cui andar fieri.

Tra i temi proposti si evidenziano quelli legati al sociale e alla complessa contemporaneità, come nelle canzoni degli album Fronteras e Ur, dove accanto al recupero della tradizione, intense emozioni s’intrecciano su narrazioni di sofferenze. Un richiamo, una denuncia. 

Il mondo deve prendere coscienza delle ingiustizie gravi che subiscono gli “ultimi e le popolazioni senza futuro” spesso a causa delle politiche di sfruttamento imposte dai grandi della Terra. 

Noi abbiamo sempre sostenuto associazioni umanitarie, quali Emergency, Amnesty International e altre, che operano in luoghi e territori che sono ai confini del rispetto dei diritti umani ed economici, in particolare Emergency, l’organizzazione italiana che offre assistenza medico-chirurgica gratuita e di elevate qualità alle vittime dei conflitti e povertà, nei teatri di guerra.

Crediamo che il senso civico debba sempre essere presente e vivo. Opporsi alle logiche del profitto a tutti i costi, sia una conseguenza naturale, pensiamo che gli interessi economici dei grandi del pianeta attraverso grandi poteri, siano la ragione che sta portando il mondo verso una via di non ritorno; guerre, consumo sfrenato del territorio, sviluppo tecnologico senza fine, insensibiltà concreta verso i cambiamenti climatici, sono temi che abbiamo sempre usato nella nostra attività musicale.

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Lorenzo Sabattini – photo by courtesy of  ©️Fabrizio Giuffrida 

Il vostro stile musicale oggi è sempre alla ricerca di nuove sperimentazioni vicine al jazz… forse una libertà di espressione musicale che la tradizione non concede?

La prima canzone che abbiamo ripreso e arrangiato è stata “S’ora chi no tt’ido“ di Maria Carta. Un brano che non abbiamo mai inciso, che però nei primissimi anni abbiamo sempre suonato. Nel 1983 abbiamo rielaborato “Dillu” dal testo di Peppino Mereu, a “Nanni Sulis” conosciuto come “Nanneddu”, che sono stati elementi identificativi del nostro progetto musicale. 

Da allora ad oggi,  il nostro repertorio si è totalmente evoluto, con incursioni sonore verso tutta la musica, afro, jazz, rock e altro. Abbiamo creato una sorta di piattoforma musicale in cui convivono elementi della tradizione e modelli totalmente differenti. 

Ci sentiamo privilegiati in questo, poichè a distanza di quarant’anni i nostri concerti sono animati da brani che oggi sono diventati tradizionali, ma anche da altri che hanno proiezioni di grande attualità.

Il fatto che abbiamo conservato il DNA degli stili del patrimonio musicale sardo, ci permette e ci dà la possibiltà di spaziare nella musica a trecentosessanta gradi; naturalmente, a nostro rischio e pericolo. Prevale comunque l’idea che la musica made in Sardegna può essere tranquillamente esportata in tutto il mondo, a patto però che nel conservare le proprie radici venga riconosciuta come tale. In questo siamo stati pionieri e perciò ci sentiamo di percorrere un “working in progress” che ci spinge e ispira in continuazione.

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Sandro Piccinnu – photo by courtesy of ©️Fabrizio Giuffrida

Musicultura World Festival è stato per anni un vostro progetto musicale molto seguito. Si ha nostalgia del Festival di dicembre, quando la diversità della musica etnica si fonde in armonia, bellezza, incontro, confronto, rispetto, condivisione. Si rappresenta quell’energia e forza vitale che solo certe espressioni musicali riescono a trasmettere. E quest’anno il via alla 31 edizione con qualche novità. 

Il progetto Musicultura Sardegna, che ricordiamo è sovvenzionato dalla Regione Sardegna, ci permette di diffondere momenti di scambio culturale ed arricchimento vicendevole con altri paesi: Europa, Africa, Asia,  etc. Ogni evento musicale fa  riferimento alle culture etniche diffuse in tutto il mondo, una scelta verso tutti quegli artisti che viaggiano con l’intento di portare a conoscenza le tradizioni culturali e musicali del proprio luogo d’origine.

Quest’anno vogliamo ricordare che la nostra attività Musicultura Sardegna ha realizzato il festival Finis Terrae in collaborazione con il Comune di San Teodoro a settembre, in cui si sono esibiti: LamoriVostri, una formazione femminile che porta in giro per il mondo la musica del sud Italia  e Kilema, musicista del Madagascar, molto conosciuto e vero ambasciatore della sua terra. 

Il Musicultura World Festival che da un paio d’anni si svolge in forma itinerante, per questa 31° edizione sarà presente a Martis, Olbia, San Teodoro e Straula. Questa nuova formula propone eventi culturali in vari luoghi espandendo così l’offerta artistica per un coinvolgimento più diffuso del territorio. L’intento è proprio quello di rappresentare la musica etnica come fusione di “armonia, bellezza, incontro, confronto, rispetto, condivisione”. 

Quando è nata l’idea di ospitare validi musicisti di ogni parte del mondo?

Come gruppo sentivamo l’esigenza di rapportarci con le istituzioni in forma più programmata, ed  essere più attivi nella nostra attività concertistica. Con il festival avremmo avuto l’opportunità di confrontarci con musicisti provenienti da varie parti del mondo. Creavamo, quindi, un movimento culturale che nel corso degli anni si affermò come il più importante nel suo genere. 

Costituivamo l’associazione tra il 1989 e il 1990 e contestualmente alla sua nascita organizzavamo il primo festival di musica etnica e jazz ad Olbia.

Per noi è stato molto costruttivo perché ci ha permesso di viaggiare e di stabilire contatti con organizzazioni musicali in tutto il mondo e  porre al centro la cultura della Sardegna. 

Un esempio rilevante é stato il confronto con Peter Gabriel che ci ha ospitato nei suoi Festivals,  definiti Womad. E’ stata una grande opportunità avere collaborazioni importanti con musicisti jazz come Paolo Fresu, Antonello Salis e Eugenio Colombo e con altri artisti internazionali di musica etnica: Aborigeni Australiani, Michel Heupel (Germania), Cotò (Cuba), Gilla Haorta (Brasile,) Kilema (Madagascar), Brendan Power (Nuova Zelanda), Ravy (Inghilterra.

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Gianluca Dessì – photo by courtesy of ©️Fabrizio Giuffrida

Avete cantato e suonato con artisti di rilievo nel mondo della musica: Peter Gabriel, Paolo Fresu, Andrea Parodi … Quale artista ha lasciato tracce nella vostra storia musicale?  Quali ricordi? 

Partiamo dai ricordi… Partecipare ai festivals di Peter Gabriel è stata una cosa straordinaria. Gli eventi Womad sono dei passaggi molto importanti per qualsiasi musicista del mondo. Aver fatto parte, in qualche occasione, di quelle manifestazioni internazionali è grande motivo di orgoglio per noi e per la Sardegna. 

Il  confronto musicale con Peter Gabriel è stato molto interessante. Un musicista che ha influenzato generazioni di artisti e ha dato un enorme contributo alla vita stessa della musica etnica di tutto il mondo. 

Andrea Parodi é stato un musicista che ha sempre manifestato grandissima stima nei nostri confronti, con cui abbiamo condiviso progetti artistici e ci siamo esibiti negli stessi palchi. 

Voce di straordinaria intensità e bellezza che come musicista ha saputo  sperimentare nuovi percorsi come pochi. Artista che dal pop si è totalmente avvicinato alla musica etnica sarda e mediterranea.

Paolo Fresu, Antonello Salis, Eugenio Colombo e altri validi musicisti hanno dato un valore aggiunto ad alcune nostre registrazioni e verso i quali nutriamo grandissima stima e riconoscenza. In quarant’anni il nostro percorso è stato tracciato da tantissime collaborazioni con artisti jazz e di musica etnica, cementando la nostra configurazione musicale fino ad oggi.

La musica etnica come patrimonio universale va tutelato. È l’anima della nostra identità. Come evitarne la dispersione?

Crediamo che la musica etnica non si spegnerà mai! Potrà non essere presente nei media, nelle televisioni o potrà sembrare fuori moda, ma pensiamo che  sempre saprà affermarsi in tutta la sua forma, perché fa parte della cultura, dell’anima di tutte le popolazioni. 

La musica in generale, ciclicamente attinge dalla musica popolare, specie nei momenti di crisi identitarie. Certo mai abbassare la guardia, si deve tutelare per la sua potenzialità identificativa e di appartenenza. Spesso la sua  folclorizzazione commerciale può sminuirne il valore. Paradossalmente, una sua intellettualizzazione può rappresentare un nuovo interesse per i giovani, spostarsi dagli schemi di rappresentazioni tradizionali può essere motivo di riscoperta  e ciò potrebbe avvicinarli. 

Pensiamo ai festivals dove la musica etnica può convivere e confrontarsi con generi musicali  più moderni, per cui le nuove generazioni possono acquisire  le conoscenze delle proprie radici. Nei paesi anglosassoni questo succede molto spesso.

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Alan Pattitoni – Photo by courtesy of ©Fabrizio Giuffrida 

La musica è cultura da condividere. Potremo pensare alla musica come veicolo d’idee con una potenzialità immensa quella divulgativa. Rientra nelle finalità del vostro gruppo?

Certamente la musica è cultura da condividere. In particolare quella etnica  rappresenta la vita dell’uomo fin dalla sua nascita, perciò va preservata e divulgata. Noi, come gruppo, abbiamo sempre inteso l’arte musicale come un veicolo d’idee. Spesso i nostri testi affrontano tematiche legate al sociale, all’ambiente,  all’amore e all’armonia tra popoli e contro qualsiasi forma di violenza e guerra. 

Il tema identitario della nostra terra comunque ha rappresentato un motore divulgativo che ci ha contraddistinti. In Sardegna, spesso, veniamo identificati come difensori del nostro patrimonio culturale.

Il Mediterraneo luogo di origine, d’incontri, di eclettismo e di originalità intesa come distinzione. Un luogo a cui voi spesso fate riferimento, che importanza gli attribuite?

Il Mediterraneo luogo e crocevia di culture che si mescolano e si rigenerano da millenni in cui la Sardegna ha avuto la fortuna di ritrovarsi proprio nel suo centro,  mantenendo una sua forte connotazione identitaria e di grande originalità che esprime nel suo immenso e originale patrimonio culturale.

Come gruppo abbiamo scelto di cantare i testi utilizzando  idiomi di questa terra, con la musica invece abbiamo attinto da tutto ciò che offre il Mediterraneo. Nei nostri brani si percepiscono influenze arabe, spagnole, africane.

Questa è la ricchezza culturale che deve essere raccolta e portata avanti nei progetti a largo respiro e con prospettive internazionali.

La musica multietnica può insegnare che la diversità può essere vista come una infinita risorsa. Che ne pensate?

La multietnicità è un valore aggiunto in tutte le circostanze sociali e di vita… Ne siamo fermamente convinti, nella musica poi, le mescolanze, le commistioni di generi musicali,  le condivisioni nelle diversità, sono   forze  autentiche  dal potere  aggregante che hanno generato la musica in tutto il mondo.

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Photo by Courtesy of ©Archivio Cordas et Cannas

Una lunga carriera musicale, negli anni avete mostrato coerenza per linguaggi sonori, per significati e temi proposti. Lo scorso anno avete raggiunto un traguardo importante: 40 anni di musica. 

Sì, abbiamo oltre quarant’anni anni di attività live e siamo la più longeva formazione della worldmusic sarda con un’attività concertistica che ha portato la band in varie parti del mondo: Australia, Stati Uniti, Sud America e Nord Europa. È una sensazione indescrivibile per noi.   

La forza, ci viene trasmessa dal pubblico  come energia  che raccogliamo durante i concerti  dove si crea un contatto diretto con chi ci ascolta. 

Il gruppo esiste ancora, in tutti questi anni, grazie alla gente che lo apprezza e gli riconosce: di aver tutelato le nostre radici identitarie e di aver saputo infondere valore aggiunto alla musica sarda con ricerche su sonorità più  moderne ed internazionali.   

Il nostro percorso musicale è stato un crescendo di melodie e arrangiamenti, strumenti e musicisti. Oggi possiamo affermare che abbiamo saputo mantenere una certa coerenza artistica che ci fa sentire in piena armonia con noi stessi. Naturalmente non spetterebbe a noi affermarlo…

Un ultima domanda per concludere, avete in cantiere qualche nuovo progetto musicale?

Terra Muda è un brano di cui abbiamo realizzato un video, pubblicato sul nostro canale You Tube, nell’estate del 2007. Una canzone che parla della necessità di cambiare strada nell’utilizzo delle risorse del nostro pianeta, ma anche di noi stessi che dobbiamo prendere coscienza per la salvaguardia dell’ambiente, per lasciare un luogo vivibile alle future generazioni. Dal progetto video è stato realizzato un cd con altri brani, che ora suoniamo nei palchi dove ci esibiamo, nella speranza di poterlo pubblicare al più presto. 

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©️Riproduzione Riservata 

 

[Articolo pubblicato il 15 Dicembre 2019 su Olbia.it]

Sardegna | Intervista a Luigi Fassi Direttore del MAN_Museo: l’isola al centro e l’urgenza di condividere cultura

In un clima di fermento culturale per le numerose mostre, ormai diffuse capillarmente in tutta la Sardegna, abbiamo intervistato Luigi Fassi,  direttore del MAN, per conoscere lo stato dell’arte contemporanea nell’isola e le novità della nuova stagione museale.

Luigi Fassi, succeduto nel 2018 a Lorenzo Giusti alla guida dell’istituzione sarda sembra sia riuscito ad implementare visibilità al piccolo museo investendo sulle relazioni, sulla comunicazione e promozione, – merito di un efficiente ufficio stampa, – e  naturalmente su una ricerca estetica e cifra stilistica a tutto tondo:  figurativo, astratto,  scultoreo fino a linguaggi più innovativi come quelli multimediali,  che gli hanno permesso di inserire la Sardegna nel circuito internazionale dell’arte contemporanea.

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Courtesy Archivio Museo MAN ©Confinivisivi

Oltre ad essersi rivelato un direttore intuitivo, si è mostrato dinamico e competente nell’accogliere sempre nuove sfide, nella capacità di diffondere messaggi culturali e farli apprezzare.

Siamo riusciti ad intervistarlo prima della partenza per il Brasile per importante simposio sull’arte contemporanea.

Direttore è reduce da un opening a New York: una mostra legata al MAN con le opere di Sonia Leimer, un’artista di rilievo nel mondo dell’arte contemporanea. Ci vuole parlare del progetto e del significato che assume per il Museo Man?

Nel 2019 il MAN ha accompagnato l’artista italiana Sonia Leimer alla vittoria del quarto bando dell’Italian Council (promosso da MiBAC) con il progetto Via San Gennaro, assieme al centro di arte contemporanea International Studio and Curatorial Program ISCP di New York. A settembre di quest’anno, da pochi giorni si è inaugurata la mostra personale dell’artista all’ISCP e nell’autunno del 2020 la mostra giungerà al MAN – arricchita da una residenza dell’artista in Sardegna (in collaborazione con la Film Commission).

Nel frattempo, a gennaio 2020 uscirà un catalogo monografico su Sonia Leimer, sempre parte del progetto Italian Council, edito da Mousse Publishing e realizzato dal MAN e dall’ISCP di New York.

Per il MAN si tratta di un progetto molto importante. Come da norma dell’Italian Council le opere prodotte dall’artista entreranno infatti nella collezione permanente del MAN, che così continua un periodo intenso di crescita della propria collezione, soprattutto tramite donazioni. Una parte di questi nuovi ingressi è di artisti non sardi e questo è un elemento importante di sviluppo del MAN, una traccia visibile del lavoro istituzionale svolto con le mostre.

Nei prossimi mesi il MAN intende proseguire il supporto alla scena artistica italiana contemporanea anche con una seconda, ulteriore candidatura al bando Italian Council appena inviata.

Lei viene dal Festival Steirischer Herbst (Autunno Stiriano) di Graz. Quanto ha inciso il bagaglio esperienziale acquisito al festival di arte contemporanea sul suo approccio lavorativo al Man di Nuoro?

Lavorare al Festival di Graz è stata un’esperienza fondamentale in quanto incentrata sulla committenza diretta agli artisti di nuove opere e la necessità di seguire tutta la filiera di produzione, avendo un’intera città e una regione, Graz e la Stria, a disposizione come luoghi di riferimento.

Ogni anno il Festival, infatti, si reinventava, invitando artisti a entrare nel vivo del territorio, affrontandone tematiche e peculiarità. La produzione di nuove opere è un tema decisivo oggi tanto per gli artisti che per le istituzioni e ho voluto portare questa priorità al MAN, dove abbiamo avviato progetti di committenza, già dall’autunno del 2018, con le personali di Dor Guez e François-Xavier Gbré.

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Courtesy Archivio Museo MAN ©Confinivisivi

Da esperto di direzione museale e da grande conoscitore delle dinamiche legate ai flussi d’arte contemporanea internazionale, qual è secondo lei lo stato dell’arte in Sardegna? 

La scena artistica istituzionale in Sardegna è vivace, penso ai Musei Civici di Cagliari e a tutto il lavoro che svolgono (citerei ora la bellissima mostra di Arte Povera organizzata da Paola Mura), oppure la Fondazione Nivola, con il suo impegno a studiare la straordinaria figura di Costantino Nivola, e il Macc di Calasetta. Un lavoro notevolissimo per qualità e quantità è portato avanti anche dall’Associazione Cherimus a Perdaxius.

Quali artisti sardi preferisce e perché? Sembra che ci sia un ritorno al figurativo. Condivide?

Credo sia necessario continuare un lavoro di ricerca storica e allo stesso tempo guardare alla vivacità della scena contemporanea. Diversi artisti sardi si stanno muovendo tra il territorio di origine e il mondo globale e ve ne sono di sicuro interesse e avvenire. Penso ad esempio a Montecristo Project.

Ora focalizziamoci sul termine “museo aperto”, di cui lei è un grande sostenitore, tanto da far soggiornare qui artisti di varie nazionalità. Che significato ha per lei (o in generale) la residenza d’artista e quali finalità si pone?

Il progetto di residenze d’artista che abbiamo avviato in collaborazione strategica con la Film Commission Sardegna ha un ruolo importante nell’attività del MAN ed è finalizzato a valorizzare il ruolo della Sardegna come territorio privilegiato di ricerca e produzione per artisti internazionali, guardando con particolare attenzione al mondo del Mediterraneo. La Sardegna è un immenso archivio di ricerca sul mondo mediterraneo e per gli artisti che concepiscono la propria attività come forma di pensiero complesso, è proprio il mondo del Mediterraneo insulare a presentarsi quale luogo particolarmente ricco di suggestioni per il loro lavoro e ricco di formidabili strumenti di lavoro. A Nuoro e in regione ho trovato in tal senso alcuni archivi eccezionali, dall’Archivio di Stato a quelli dell’ente etnografico regionale, l’ISRE, sino alle biblioteche e a fondi privati. Enti e risorse con cui stiamo mettendo in contatto diversi artisti per permettere loro di sviluppare ricerche e produzioni.

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Courtesy Archivio Museo MAN ©Confinivisivi

Parliamo di economia e cultura. Si parla di soft economy legata all’attività museale: fa bene ai territori, tutela il patrimonio artistico e diffonde cultura identitaria.

In Sardegna c’è ancora tanta strada da percorrere, come si potrebbe intervenire?

Si tratta innanzitutto di convincersi che la Sardegna non è ai margini ma al centro del motore della maggior parte dei cambiamenti del nostro tempo in Europa, il Mediterraneo. E che i tesori della Regione, dall’archeologia alla cultura contemporanea, sono poco valorizzati, alcuni addirittura completamente invisibili. Il Distretto Culturale del Nuorese cui noi fortemente aderiamo, sta operando un lavoro brillante per far conoscere tutta la varietà dell’offerta culturale della Provincia di Nuoro e occorre andare avanti con ambizione, superando gli ostacoli dei mille campanili tipici della cultura italiana e anche sarda.

Affinché una struttura museale resista nel tempo, quali elementi dovrebbe possedere?

Una struttura museale vive del rapporto con il proprio territorio e con i propri visitatori, reali e potenziali, in una logica di servizio e di continua offerta. Oggi a ben vedere, una percentuale molto alta nell’occorrenza della parola “Nuoro”, ma anche “Sardegna”, nei giornali nazionali e nella stampa internazionale è legata al MAN, in occasione non solo di recensioni di quotidiani e riviste di settore, ma anche di itinerari turistici per i mesi estivi e focus di scoperta del territorio della Sardegna pubblicati dalla stampa specializzata in turismo e cultura. Questo significa che oggi il MAN è un landmark territoriale, un museo che trasmette un messaggio e un’immagine che include al suo interno buona parte della regione. È una responsabilità civile che il museo ha assunto in modo crescente nei suoi due decenni di attività: quella di interpretare un ruolo guida nell’innovazione sociale e culturale all’interno della provincia di Nuoro e della Sardegna.

Sta per concludersi l’esposizione della stagione estiva: la delicata e malinconica mostra sulla Sardegna del grande artista e fotografo Guido Guidi, celebrata anche dal Financial Times. È possibile conoscere qualche dato qualitativo sui visitatori? 

Ci apprestiamo a chiudere la rassegna stampa prodotta in questi mesi di mostra, e sta assumendo la forma di un dizionario di centinaia di pagine. L’attenzione della stampa e del pubblico è stata enorme, in particolare internazionali. Ma abbiamo avuto un interesse trasversale, locale e straniero, e venduto circa 500 copie di un catalogo impegnativo e ambizioso. Senza contare l’interesse degli addetti ai lavori. Ancora pochi giorni fa dall’Università di Düsseldorf è giunta al MAN una ricercatrice che sta portando avanti un dottorato su Guido Guidi, autore che in Germania ha un seguito attento e ricco di mostre istituzionali.

 

Si potrebbe fare un bilancio sulla sua intensa attività alla direzione del MAN?

Non penso si tratti di fare un bilancio, ma di riflettere sul percorso fatto per meglio interpretare il futuro prossimo. L’obiettivo è continuare a pensare la Sardegna come crocevia di idee nel Mediterraneo, ribaltando la prospettiva geografica, l’asse nord-sud con cui si guarda alla Sardegna. Non un territorio marginale ma un avamposto di elaborazione, un luogo dove percepire in anticipo alcuni dei cambiamenti cruciali del nostro tempo, che passano attraverso il Mediterraneo, per poterli interpretare in maniera diretta.

Nell’anno trascorso è stato fondamentale il rapporto con il territorio, come quello fertile con la Film Commission Sardegna con cui abbiamo avviato il progetto di residenze e coprodotto il workshop con la Quadriennale di Roma che a luglio ha portato a lavorare nell’isola giovani artisti e curatori da tutto Italia con due tutor d’eccezione come Enrico David e Bart Van Der Heide. Sempre con la Film Commission a gennaio abbiamo avviato una collaborazione con la Film Commission di Londra portando sei giovani filmmaker inglesi a trascorrere tre settimane a Nuoro per studiare da vicino i carnevali della Barbagia. Un progetto che rifaremo a breve nel 2020.

Ma penso anche alla collaborazione sempre più forte con l’Isola delle storie di Gavoi con le mostre di Feldmann e Balka, e quella più recente con il Festival della Letteratura di Viaggio, che è approdato a Nuoro per la prima volta l’anno scorso a giugno e che abbiamo voluto far tornare ora a ottobre. Abbiamo poi coprodotto con la casa editrice Arkadia di Cagliari la monografia dell’artista franco-palestinese Maliheh Afnan e strutturato un’importantissima partnership con l’ISRE, culminata in una giornata internazionale di studi su Guido Guidi.

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Courtesy Archivio Museo MAN ©Confinivisivi

Quindi ci sarà in allestimento una mostra sulla Collezione Permanente del Man curata insieme alla Dott.ssa Emanuela Manca, storica dell’arte, può anticipare le tematiche o finalità del progetto espositivo, potrebbe citare qualche autore?

Presentiamo due mostre. Organizzata e curata dal MAN la prima, è una retrospettiva dedicata ad Anna Marongiu (Cagliari 1907 – Ostia 1941) una delle figure più originali e al tempo stesso dimenticate della scena artistica sarda della prima metà del Novecento. Il focus della mostra verte sul suo lavoro illustrativo, proponendo tra altri lavori, la serie completa delle tavole di Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare del 1930 e quella de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni del 1926. La più preziosa opera in mostra e il cuore di tutto il progetto è data dalle 262 tavole de Il Circolo Pickwick di Charles Dickens del 1929 (acquerelli e disegni a penna), in prestito dal Charles Dickens Museum di Londra e oggi per la prima volta visibili in un museo italiano. In occasione della mostra verrà esposto un film di approfondimento sull’artista che stiamo ultimando con la Film Commission Sardegna. La mostra sarà accompagnata da un dettagliato catalogo pubblicato con la Marsilio di Venezia, un libro studio sull’artista e la sua figura.

La seconda mostra è un’articolata esplorazione della collezione del MAN, presentando classici, ma anche opere poco viste e nuove acquisizioni e donazioni. Dopo la mostra al museo comunale di Gavoi nel settembre del 2018 e quella di marzo di quest’anno è la terza mostra di collezione che ho voluto organizzare dal mio arrivo. La collezione del MAN, per la sua bellezza e importanza, è un desiderio per tutto il pubblico del museo ed è sempre una vera gioia poterla condividere e presentarla.

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Courtesy Archivio Museo MAN ©Confinivisivi

Ci saranno laboratori per i più piccini o attività extra come simposi, presentazioni di libri, concerti etc.?

Si. Abbiamo iniziato sabato 12 ottobre con il Festival di Letteratura di Viaggio e  presentato martedì 15 ottobre in anteprima in Sardegna il nuovo romanzo di Marcello Fois, Pietro e Paolo. Seguiranno poi diversi eventi e una continua attività di laboratori per bambini e adulti. Perché il MAN è affollato di scolaresche da tutta la Regione che percorrono il museo ogni giorno (anche oltre mille bambini al mese), di visitatori di tutte le età, tutti con una diversa idea di cosa desiderano vedere e incontrare in un museo. Penso che questa sia una possibile e definizione di museo civico quale il MAN è: un’istituzione che sa rivolgersi a residenti, turisti, studenti, appassionati e anche chi capita per caso e apprezza la sorpresa.

 

È soddisfatto di ciò che ha realizzato? Ha mai avuto timori sulla scelta degli artisti?

Percorrendo le strade di un progetto articolato, come è per me la direzione MAN, non c’è posto per la soddisfazione, ma solo per lo stimolo a continuare a lavorare inseguendo idee, desideri e visioni per un’attività sempre migliore.

 

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(Articolo apparso su Olbia.it il 19 Ottobre 2019)

Intervista a Beppe Severgnini | Apprendistato, scrittura e amore per la Sardegna

Esprimi il pensiero in modo conciso perché sia letto, chiaro perché sia capito, pittoresco perché sia ricordato ed esatto perché i lettori siano guidati dalla sua luce”. Queste parole del celebre editore Joseph Pulitzer scolpiscono tracce di scrittura presenti nello stile inconfondibile di un giornalista italiano, scrittore, – tra i suoi libri più famosi: “Inglesi”, ”Italiani con la valigia”, ”Un italiano in America”, ”Italiani si diventa”, “Manuale dell’Imperfetto viaggiatore” “La testa degli italiani” –  editorialista del Corriere della Sera, corrispondente dall’Italia per il settimanale  inglese The Economist e The New York Times, opinionista in vari talk show e conduttore di programmi televisivi: Beppe Severgnini. 

Originario di Crema, assiduo frequentatore della nostra isola di cui ne parla con occhi acquosi, brillanti e un “disteso” sorriso, quasi la risacca del nostro mare quando si abbandona sospesa, prima di allungarsi in un’onda! Una cosa è certa: conosce bene la nostra isola, la sua anima e le più antiche tradizioni.

Giornalista e “scrivente” come lo avrebbe definito il critico letterario Roland Barthes. Infatti,  in  “scrivente”  la  parola  “pone fine ad un’ambiguità del mondo, istituisce una spiegazione irreversibile (che può esser provvisoria)” o un’informazione che può  insegnare, istruire; diverso il significato di “scrittore” dove la parola necessita di “interpretazione”.

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A noi piace definirlo “scrivente interstiziale” per quell’attenzione al particolare, una premessa del suo riflettere: un distacco finalizzato a una esigenza incontenibile di conoscere, raccontare, trasporre, trasferire ciò che sfugge a causa dei ritmi frenetici di vita.  Quella  velocità che ci impedisce di cogliere l’essenza, la verità o ancora, l’aspetto più cristallino della realtà. A lui non sfugge niente,  ha una capacità focale degna di una Hasselblad.

Se il suo scrivere fosse una fotografia potrebbe evocare alcuni lavori del minimalismo italiano, se invece fosse un un’opera pittorica oscillerebbe tra espressionismo e pop art. Ma possiamo dire che alle sue tele di vita sovrapponga “magiche lenti” d’ingrandimento dove noi lettori amiamo soffermarci, riflettere e ritrovarci.

Il suo pensiero non è solo logos (ragione) ma anche pathos e  ethos: trasmette emozioni per una delicata capacità introspettiva; delinea e motiva principi etici.

Severgnini ci mostra il suo sguardo sulle cose. La parola si impregna d’immagine, mentre il tempo raccorda distanze, nella sua celere fuga. Così esperienze di vita quotidiana s’intrecciano in una sequenza filmica dove la macchina da presa si ferma sui particolari, gigantografie, a volte stranianti.

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Gli uffici dei giornalisti correvano lungo il perimetro del dodicesimo e tredicesimo piano e godevano di una vista spettacolare. Credo d’aver trascorso i primi tre giorni a guardare il panorama. Londra, ai tempi, era una città orizzontale. Dall’alto si vedevano le distese di case bianche verso nord, la cattedrale di St Paul, la striscia bluastra del fiume, le macchie verdi dei parchi, i bus che avanzavano come insetti panciuti nelle strade affollate. Appena sotto, vicini, St James’s Palace e Buckingham Palace. Le monarchie amano farsi ammirare dal basso; vederle dall’alto è più affascinante. Quando ho smesso di guardare giù, ho cominciato a guardarmi intorno.

Un breve passo che racchiude la forza espressiva dello stile di Beppe Severgnini. Il brano è tratto dal suo ultimo libro “Italiani si rimane” da cui è nato il “Diario Sentimentale di un giornalista”, (spettacolo teatrale proposto nella Rassegna Il Filo del Discorso, organizzata dalla Biblioteca Civica e Comune di Olbia. Parole fiume, ciottoli  e musica stratosferica. Folgorata. Avevo già l’intervista in testa! n.d.r) 

Nel monologo teatrale accompagnato da Serena Fiore, – curatrice della sezione musicale, – Severgnini racconta la storia della sua vocazione/passione giornalistica con aneddoti divertenti e significativi. L’elemento autobiografico s’intreccia in un amarcord  di storia culturale del nostro paese.

Ma ora tra acume e perspicacia “ascoltiamo” la sua voce familiare, ironica, divertente.

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Il suo nome Beppe: breve, familiare, semplice, sembra avere un riflesso della sua scrittura. Ci ha mai pensato?

Beppe è un diminutivo pieno di labiali: non bellissimo, ma rassicurante. E poi è breve; va bene con un cognome lungo e intricato come il mio.  Come tutti sappiamo, un altro Beppe – genovese, più spettinato di me – ha fondato un movimento politico. Evidentemente il nome spinge a fare cose insolite.

Un altro elemento che contraddistingue il suo stile narrativo è l’ironia. Quando ne ha colto l’importanza? 

Quando ho capito che l’ironia abbatte molte barriere. Compresa la diffidenza, la più alta e la più ostica.

Per lei, come per tanti intellettuali, l’illusione ha un valore fondante, quasi salvifico. Quanto può aver giovato alla sua vita?

La perdono, Lycia, di avermi chiamato “intellettuale”: in Italia è una parolaccia! Illusione? Diciamo che da ragazzo avevo un sogno – diventare giornalista e scrittore, in Italia e all’estero – e l’ho realizzato. Mi considero molto fortunato. Anche per questo evito di mugugnare e lamentarmi, uno sport amato da tanti bravi colleghi.

Per anni corrispondente estero in Inghilterra, America, Russia; e ha viaggiato in tutto il mondo, dalla Cina al Sudamerica, fino all’Australia.  Come ha vissuto la lontananza? 

Come una lezione, uno stimolo e un’occasione. Ma sapevo che sarei tornato nei miei posti del cuore: Crema, la Lombardia, la Sardegna.

“Non conta dove e da chi nasciamo, la patria è questione di cuore”: quale significato attribuisce a questa frase? Qual è il paese a cui si sente più legato?  

Sono italiano, orgoglioso di esserlo. Non è sempre facile: il nostro Paese ti manda in bestia e in estasi nel giro di dieci minuti e di cento metri. “La patria è una questione di cuore” vuol dire anche un’altra cosa: il legame di sangue – sul quale si basa oggi la cittadinanza italiana – è meno importante della lealtà, del rispetto, della passione e del contributo che noi diamo a un Paese. Ecco perché sono favorevole a uno “ius soli” temperato: chi nasce e cresce qui deve essere italiano. 

Nel suo libro “Italiani si rimane” (2018), che in ottobre 2019 uscirà in edizione aggiornata Bur-Rizzoli, parla di una figura fondamentale nella storia del giornalismo italiano, il suo maestro Indro Montanelli. Quali grandi eredità le ha trasmesso? 

Meno è meglio. Tre parole. Bastano.

Da giornalista quali consigli potrebbe dare a chi vuole intraprendere la sua professione?  

Imparare a fare molte cose: stare in redazione e fare i giornali (di carta e soprattutto online), scrivere, stare in video, fare video, stare in radio, parlare in pubblico, scrivere un libro. Una di queste diventerà l’occupazione principale, quella che darà da vivere. Le altre verranno buone. 

Ha lavorato con altre personalità del giornalismo italiano: Enzo Biagi, Mario Cervi, Enzo Bettiza. Allora, le divergenze tra giornalisti erano meno accese rispetto ai nostri tempi? 

Anche nel secolo scorso – quando ho iniziato – le rivalità e le invidie esistevano, eccome se esistevano. Ma non c’era internet e non c’erano i social. C’era tempo per far sbollire rancori e malumori. Oggi troppi colleghi sono impulsivi: pensano una cattiveria, la mettono in rete e poi sono guai. Devo dire che io corro pochi rischi: ho molti difetti, ma non sono invidioso. Mai stato. Se un collega è bravo sono il primo a riconoscerlo. Se ha successo, sono felice per lei/per lui.

Diventa corrispondente da Londra per il Giornale a 27 anni. Come ha vissuto l’esperienza londinese? Quanto hanno influito sulla sua scrittura items e/o sovrastrutture concettuali anglofone, più minimaliste? 

A Londra ho imparato la sintesi, l’ironia e a non sbagliare giacca: non è poco. Vedere la mia amata Inghilterra nello psicodramma Brexit è, insieme, un’amarezza e una delusione.

Nel passaggio al Corriere della Sera, Lucia Annunziata, che stava con lei a Washigton, le donò alcuni consigli su via Solferino. Quali erano? 

Ne cito uno solo: mai alzare la voce. Gli altri li trovate in “Italiani si rimane”!

Sardo d’adozione ha vissuto l’ascesa esponenziale della vocazione turistica nella nostra isola. Come l’ha vissuta e cosa migliorerebbe? 

L’ho vissuta con gioia: il turismo ha portato benessere a una terra che amo e frequento dal 1973. Una cosa da fare? Basta seconde case (ristrutturiamo quelle che ci sono!). E qualche servizio in più sulle spiagge accessibili: un chiosco, una doccia e un bagno non rovinano certo i luoghi e l’atmosfera.  Ma la chiave è la distanza: lo Stato italiano dovrebbe impegnarsi per rendere semplici ed economici i trasporti  (marittimi, aerei) per  tutto l’anno, non solo d’estate: la Sardegna ha molto da offrire in ogni stagione. Il mercato non basta: e lo dice uno che al mercato ci crede. 

Una domanda inerente ai social sempre più oggetto di discussione. Come si dovrebbero utilizzare? I politici  dovrebbero avere un profilo social? 

Come si utilizzano? Con cautela. I social (testo, audio, immagini, video ) costituiscono uno strumento potentissimo, che fino a pochi anni fa era risvervato ai professionisti (giornalisti, operatori radio e tv). Non mi lamento, è giusto che le cose siano cambiate. Ma bisogna prestare attenzione. Sui social non si vede solo se sono abbronzato: si capisce anche se sono intelligente e/o stupido, e se ho qualcosa da dire. I politici possono avere un profilo social? Certo. Ma se stanno al governo dovrebbero utilizzarlo poco. 

Se le proponessero un viaggio sulla luna, per raccontare la vita degli astronauti con il suo stile inconfondibile, abbandonerebbe la sua amata Inter?

Porto l’Inter sulla luna. Vinceremmo pure lì. Quadruplete Spaziale: ci manca.

 

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©️Riproduzione Riservata

 

All Photos Courtesy ©Archivio Beppe Severgnini

L’uomo e la tutela della biodiversità | Intervist/a Paolo GUIDETTI

Negli ultimi tempi sembra diffondersi con più insistenza una certa coscienza ecologica che implica un comportamento più consapevole e responsabile nei confronti dell’ambiente che ci circonda, con attente valutazioni antropogeniche.

Dopo i vari episodi di moria di organismi marini a causa dell’ingestione di grandi quantità di plastica, come il capodoglio spiaggiato a Cala Romantica nei pressi di Porto Cervo, i comuni di alcune città costiere – del Nord Sardegna, – hanno diffuso ordinanze restrittive per ciò che concerne l’utilizzo della plastica o il divieto di fumare sigarette in spiaggia, con conseguenti multe per chi non le rispetti.

Il discorso esula dalla vocazione turistica della Sardegna e da conseguenti priorità di tutela, ha un respiro molto più ampio.

Ognuno di noi, nel nostro piccolo, può fare qualcosa, deve fare qualcosa concretamente, per ristabilire quell’armonia che sembra essersi dissolta tra uomo e ambiente in cui vive. Esempio se consideriamo il tempo di questi ultimi mesi che sembra esser impazzito, con stagioni meteorologiche non corrispondenti a quelle astronomiche e i conseguenti disastri ambientali sempre più frequenti.

L’Organizzazione Meteorologica  Mondiale – WMO – ha registrato dal 2015 al 2018 gli anni più caldi mai registrati prima a causa di concentrazioni record di gas serra nell’atmosfera che sono all’origine dei repentini cambiamenti climatici.

Oggi risulta esser prioritaria   “la conservazione e il ripristino di habitat naturali (ad es arie umide e dune costiere) che hanno un ruolo determinante nelle strategie e adattamento ai cambiamenti climatici e contrastano gli effetti negativi degli eventi estremi”. (Fonte ISPRA)

La terra può  appare matrigna per l’uomo che non la rispetti ma che non si deve  dimenticare  che è la nostra grande madre: oltre ad accoglierci, permette di vivere donandoci preziose risorse.

La redazione é sempre  stata in prima linea cercando di evidenziare e denunciare mancanze e documentando missioni positive: la pulizia delle spiagge che ogni anno coinvolge i ragazzi delle scuole cittadine; l’operato di volontari che dedicano il proprio tempo alla pulizia e tutela dell’ambiente.

Azioni che gratificano la persona che compie il gesto nel suo rendersi utile alla comunità, finalizzati ad un bene collettivo non individuale e perciò di valore incommensurabile.

Sensibili  alle tematiche legate all’ambiente abbiamo intervistato una persona che il mare lo vive come se fosse parte della sua anima, inscindibile dal suo essere, – come si evince dal  suo entusiasmo e passione quando parla della sua professione e inerenti finalità, – il Prof. Paolo Guidetti Docente di Ecologia presso il Laboratorio ECOSEAS dell’Università di Nizza “Sophia Antipolis” e ricercatore del CoNISMa (Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Scienze del Mare), attivo collaboratore delle Aree Marine Protette (AMP) in particolare dell’Area Marina Protetta TAVOLARA PUNTA CODA CAVALLO del Nord Sardegna. 

Un’intervista illuminante  in cui parleremo di ecologia marina,  di pesca, di problemi ambientali e sostenibilità di risorse, da cui traspare la volontà e l’urgenza di salvaguardare la biodiversità marina con le implicazioni socio-economico-culturali collegate quali la pesca, la figura del pescatore, i borghi marinari.

Come nasce la tua vocazione per l’ecologia marina.

Premetto che sono genovese di nascita e fin da piccolo andavo al mare con la mia famiglia in spiagge frequentate anche dai pescatori. Da allora ho avuto l’imprinting. Ricordo che già intorno ai cinque o sei anni avevo deciso di fare il biologo marino e alla fine mi sono specializzato in ecologia marina della conservazione.

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Visual Census ph. ©Egidio Trainito

Qual è stato il tuo percorso di studi? 

Dopo aver frequentato il liceo a Genova mi sono laureato in Biologia con una tesi sull’accrescimento dei molluschi, anche se ero già orientato verso lo studio della fauna ittica. Dopo la laurea ho avuto la fortuna di collaborare prima con un ente di ricerca di Roma, oggi ISPRA – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale – poi ho vinto una borsa di studio alla Stazione Zoologica di Napoli, uno degli istituti più prestigiosi e più antichi di biologia marina.

Successivamente ho fatto il Dottorato di Ricerca sulle Aree Marine Protette presso l’Università del Salento durante il quale sono stato presso la Scripps Institution of Oceanography a San Diego – La Jolla, California –  uno dei centri più importanti al mondo per la biologia marina.

Rientrato in Italia ho avuto diversi contratti di ricerca e nel 2007 un posto da ricercatore in Zoologia all’Università del Salento. Sono rimasto a Lecce fino al 2012 quando ho vinto un posto da professore di Ecologia all’Università di Nizza Sophia Antipolis. Dal 2016 dirigo un laboratorio di Ecologia Marina.

A questo proposito, vuoi parlarci del laboratorio e del lavoro di ricerca che effettuate?

Per me la ricerca ha due finalità importanti: la prima è l’acquisizione di conoscenze sugli ecosistemi marini che offrono tanto all’uomo e alla società. Spesso non ce ne accorgiamo ma è doveroso acquisire  le conoscenze di base perché si sa pochissimo. Guardiamo a Marte, ma non sappiamo che si possono scoprire nuove  specie in ogni bicchiere di sabbia, prelevata nella spiaggia, dove facciamo il bagno.

Inoltre, conoscere l’ambiente marino permette di dare indicazioni ai gestori sia a livello locale, come i direttori delle Aree Marine Protette, ma anche ai Ministeri e all’Europa, affinché gli ecosistemi marini siano gestiti in modo da essere in uno stato sano, da proteggere la bio-diversità, che non è solo una scelta a fondamento etico ma è anche scelta di convenienza. Infatti gli ecosistemi sani ed ad alta bio-diversità forniscono alla società una serie di beni e di servizi –  che diamo per scontati ma che scontati non sono – che costituiscono un vantaggio.

Di che cosa ti occupi, nello specifico.

I filoni di ricerca più importanti di cui mi occupo sono centrati sul modello fauna ittica – pesci –  e sono: la conoscenza della biologia e dell’ecologia delle specie ittiche ma anche l’applicazione di metodi di pesca sostenibile e l’utilizzazione della fauna ittica come indicatore delle qualità degli ecosistemi marini.

Il motivo per cui noi lavoriamo in tantissime AMP è perché, adottando certe tecniche di raccolta dati sulla fauna ittica, siamo in grado di dire se una certa misura di protezione o gestione che è stata adottata in una certa AMP o in una certa zona, stia o meno proteggendo efficacemente la fauna ittica e l’ecosistema di cui la fauna ittica fa parte.

Come negli esami del sangue si contano i globuli rossi, la formula eritrocitaria,  noi misuriamo l’abbondanza dei pesci, la loro taglia, quante specie sono presenti, se ci sono i giovanili, se i riproduttori sono efficaci e grandi.

Si lavora anche per incrementare risorse.

Lavoriamo sulla gestione della pesca che in alcuni momenti può esser diminuita o sospesa al fine di ricostituire le risorse di pesca e perché successivamente i pescatori ne possano beneficiare.

Ci sono modalità di pesca che consentono di pescare meglio. È una questione culturale, nel senso che le risorse in mare sono condivise. Se si scatena una mentalità iper-competitiva, i pescatori si fanno del male reciprocamente perché pescano individui piccoli, immaturi, pur di pescare qualcosa che non sia pescato da un altro. Se si pesca in maniera cooperativa, – e ci sono degli studi che abbiamo fatto e che hanno mostrato risultati molto interessanti – il pesce ha tempo di crescere, i riproduttori di produrre uova e larve, nello scopo di rimanere in una situazione più ecologicamente sana e anche più abbondante produttiva per la pesca.

E ci colleghiamo al concetto di sostenibilità delle risorse viventi. Quando  parliamo di una miniera di carbone o riserva di petrolio una volta che estraiamo e usiamo il materiale, questo non esiste più. Per una risorsa vivente, come uno stock di pesca, i pesci sono vivi e devono poter crescere e riprodursi, in tal modo possiamo pescarne una parte, evitando di esaurire la risorsa.

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Visual Census ph. ©Egidio Trainito

L’Italia continua a perdere studiosi, ricercatori, una “fuga di cervelli”, una diaspora che sembra non finire.

Io non sono molto d’accordo sul concetto di “fuga di cervelli”, perché di geni ce ne sono stati pochi nella storia. Qui consideriamo Einstein e quelli che hanno inventato cose fondamentali.

Quello che sta succedendo, ben più grave, è che dall’Italia se ne stanno andando tante persone normali, ma con tanta voglia di fare, tanta volontà e tanta motivazione e competenze che spesso contano più della genialità, le quali non trovando spazio per meritocrazia, uno stipendio adeguato o altro, trovano occasioni altrove.

Io, per esempio, sono andato a Nizza e riesco a attirare cospicui finanziamenti dall’Europa o da altre realtà. Ciò significa che sono fondi che non arrivano in Italia e con ciò non si permette di dare qualche borsa di studio a giovani italiani, né  di pagare una fornitura per un servizio, giusto per fare un esempio.

Il problema non è solo che tanti se ne vanno, ma anche che l’Italia non è capace di attirare un francese, un tedesco o un asiatico che poi produce più di me o altri.

Da anni sei collaboratore attivo di tante Aree Marine Protette. Che cosa s’intende per AMP e perché la necessità  di costituirla?

In termini più generali un’Area Marina Protetta è un’area definita da un perimetro a mare soggetta a qualche regola più stringente rispetto alle leggi nazionali vigenti. Nel contesto italiano, incluso quello sardo, le aree marine protette hanno un perimetro all’interno delle quali al 90 % si può entrare, i pescatori locali professionisti possono pescare e in ampie aree anche i pescatori ricreativi possono pescare salvo i pescatori in apnea con il fucile sub. Queste zone sono dette ‘zone tampone’ e corrispondono alle cosiddette zone B e C delle AMP italiane. All’interno delle AMP ci sono poi piccole zone, dette zone A, in cui si può entrare unicamente per sorveglianza, se c’è un’urgenza o un soccorso, o per motivi di ricerca previa autorizzazione.

Per esempio, nell’Area Marina Protetta di Tavolara, le uniche zone totalmente interdette sono un settore presso Punta del Papa presso l’Isola di Tavolara e intorno all’isolotto di Molarotto. Nel resto si può accedere con l’imbarcazione andando a velocità moderata. Possono operare i pescatori professionisti muniti di licenza e in una zona C, molto ampia, anche i pescatori ricreativi, se si registrano presso l’Area Marina Protetta e chiedono autorizzazione, possono, seguendo alcune regole, pescare e divertirsi.

Un’Area Marina Protetta è uno strumento che se lo si usa bene – e i dati che provengono oltre che dal Mediterraneo, da tutto il mondo, lo confermano – è un’occasione di legalità e ha il potenziale di produrre un ritorno economico molto importante.

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Epinephelus Marginatus Corteggiamento ph. ©Egidio Trainito

Parliamo del problema legato all’aumento della temperatura del mare che sembra stia alterando l’habitat marino. Qual’è la reale situazione?

Innanzitutto bisogna distinguere tra effetti diretti o indiretti. L’aumento della temperatura per sé è qualcosa che cambia le condizioni ecologiche dell’ambiente. L’aumento della temperatura delle acque marine è la conseguenza di cambiamenti climatici di origine antropica, ma i cambiamenti che stanno avendo luo in Mediterraneo sono determinati anche da altre concause.

A causa dell’apertura del Canale di Suez, abbiamo aperto la porta a specie più affini alle acque calde, come quelle del Mar Rosso, che sono entrate a centinaia, migliaia nel Mar Mediterraneo e alcune decine hanno trovato un habitat “caldo” ideale.

Il Mediterraneo, nella parte Est, è sovrapescato, alcune di queste specie del mar Rosso non hanno trovato quelle difese naturali, quei grossi pesci predatori, come le cernie per esempio, che mangiandosele possano controllare le loro popolazioni.

Due specie in particolare, entrate attraverso il canale di Suez, stanno desertificando le coste rocciose del Mediterraneo orientale, nel senso che qui vediamo la roccia con sopra le alghe, mentre in alcune coste rocciose turche e libanesi la roccia appare “liscia”. Non c’è più nulla. Questi pesci erbivori, chiamati pesci coniglio, brucano le alghe e si riproducono velocemente. Sono già arrivati nel basso Adriatico e in Sicilia (sono abbondanti a Lampedusa) e  si cominciano ad avere segnalazioni anche nel Tirreno.

Questo è un effetto dell’innalzamento della temperatura che cambia le condizioni ecologiche. Si fa spazio a nuove specie che eliminano specie di alghe, ma anche per competizione specie locali come la Salpa, pesce erbivoro mediterraneo, ormai quasi sparita lungo le coste della Turchia.

Poi c’è da considerare l’effetto indiretto. Alcune patologie dovute ad infestazioni di parassiti, protozoi, virus e batteri diventano molto più virulente in acque più calde. C’è una patologia diffusa che colpisce le cernie, spigole e altri pesci che si presentano o morenti in superficie o morti sul fondo e hanno gli occhi bianchi. Si possono vedere anche murene viventi con gli occhi bianchi. Questo è un virus la cui virulenza aumenta d’estate con l’aumento della temperatura delle acque e in generale è aumentato negli anni, come conseguenza di temperature mediamente più elevate.

Come può intervenire l’uomo?

Ci sono tanti modi per fare qualcosa nella giusta direzione. Nelle Aree Marine Protette dove si pesca meno e meglio o nelle zone A dove non si pesca, ci sono tanti pesci, alcuni molto grandi che sono predatori efficaci e possono nutrirsi di quelli che entrano dal Canale di Suez, limitandone l’espansione.

L’uomo stesso può far qualcosa. Queste specie invasive possono esser pescate e proposte attraverso un’attività di promozione nei ristoranti. Esistono ormai ricette fatte col pesce leone, il Lion Fish, che è uno scorfano tropicale entrato dal Mar Rosso. Sono pesci molto buoni. Dopo un’iniziale diffidenza, lentamente si stanno affermando sul mercato.

Ma non si può intervenire se si raddoppia l’ampiezza del canale di Suez, come è successo in Egitto, e se si preferisce fare delle scelte in funzione di un’economia di ritorno a breve termine.

La pesca e la necessità dei fermi biologici. Perché è importante rispettarli?

Quello che si dovrebbe fare è arrivare ad un equilibrio tra quello che gli ecosistemi marini offrono come risorse e quello che noi possiamo prelevare. Perché quando la pesca è aperta ed è eccessiva si fa un danno ambientale. Se si ferma siamo noi con le nostre tasse che paghiamo la flotta perché stia ferma, ciò non ha nessun senso. Io voglio bene alla categoria dei pescatori artigianali, ma poi c’è tutta la componente semi-industriale o industriale del Mediterraneo e quelle sono spesso grosse aziende. Se un negozio non riesce a vendere pomodori o cornici di quadri chiude. Non è che il negozio resta chiuso e attraverso convenzione fondi pubblici il titolare guadagna lo stesso. Siamo in una condizione di dover affrontare un’economia della pesca industriale che non ha una sua economicità, che sta in piedi grazie ai sussidi. Non ha senso. Paghiamo per avere un danno.

Una situazione diversa si palesa se si parla di supporto alla gestione per la pesca locale, artigianale. Primo perché la pesca artigianale è un’attività economica, ma ha anche grosse implicazioni culturali. Come si può pensare a certi borghi marinari senza i pescatori. Quanta immagine di borgo marinaro attira turisti che vedono nei nostri borghi autenticità, genuinità…essi creano economia.

Relativamente alla gestione degli stock, i pescatori locali non si muovono tanto, pescano localmente. Quindi quando si parla con loro  – ho avuto la fortuna di conoscerne tanti dotati di grande intelligenza e capacità – utilizzano dei sistemi di autocontrollo. Infatti sanno che se pescano tutto oggi, domani fanno la fame. Mentre un grosso peschereccio che dipende da una grande compagnia sfrutta a fondo le risorse in un tratto di costa e poi si muove verso un altra zona, il pescatore di Castelsardo, per esempio, non andrà in Tunisia, ha quindi interesse a conservare e gestire meglio le sue risorse locali.

Inseriti in un contesto un po’ più moderno, l’idea di “pescatore” può essere interessante per mantenere quell’immagine di borgo marinaro che funziona dal punto di vista turistico. Infatti il ristorante “Il pescatore” lo si trova un po’ ovunque. Si può integrare in loghi di sostenibilità se si pesca come si deve e integrare in una struttura come un’Area Marina Protetta se viene ben pianificata. Implicando i pescatori anche nella gestione e non dando sussidi a fondo perduto, ma aiutandoli ad evolvere verso qualcosa che sia più adeguato ai nostri tempi.

Altro punto importante è che se si guardano le specie target, la piccola pesca non si focalizza su poche, ma è una pesca multi-specifica. L’impatto del prelievo, quindi, non si concentra su alcuni stock che vengono devastati. Il pescatore professionale locale conosce bene il suo mare, sa che in alcuni mesi deve usare un certo strumento perché arrivano le seppie, poi cambia attrezzo perché arrivano le triglie, etc… e facendo così tutti gli stock hanno un pochino di tempo per riprendersi.

Per contro la pesca al tonno rosso viene fatta da grandi imbarcazioni e si mira solo a quella specie perché ha un grande rendimento economico. E purtroppo, anche se sono state fissate delle quote, spesso si pesca più del dovuto.

E quindi, parliamo di pesca sostenibile.

Noi lavoriamo sulla pesca sostenibile che risponde ai seguenti criteri. Quello ecologico: pescare con attrezzi che non impattino l’ambiente, che non impattino i pesci troppo piccoli che lascino i pesci grossi perché sono i riproduttori, non solo poche specie, cercando di non pescare troppi pesci predatori per non intaccare l’ecosistema. Facciamo programmi educativi per insegnare a pescare e consumare più specie, anche quelle che non si conoscono e non si cucinano più, specie che  un tempo si conoscevano e mangiavano.

Poi c’è la sostenibilità sociale ed economica: scegliendo specie che sono pescate localmente invece di andare a nutrire l’economia di un grande investitore di chissà dove, facciamo vivere meglio il pescatore locale che è quello più interessato a gestire meglio il proprio stock, vettore di una cultura importante e che è colui che contribuisce all’economia locale.

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Parablennius Pilicornis ph.©Egidio Trainito

La plastica e i suoi immensi danni ambientali è un problema da affrontare con una certa urgenza. Tutti siamo rimasti colpiti dalla morte del Capodoglio, rinvenuto nei pressi di Cala Romantica,  a causa dei tanti chili di plastica ingeriti. Bisogna dire che si sta lentamente diffondendo una certa coscienza ecologica. L’ONU ha dato dei parametri ma alcuni paesi ancora non li rispettano. 

Il problema grave, oltre a quello evidente delle macro-plastiche che tutti vedono, è che tutte le plastiche si frantumano e diventano microplastiche. Le microplastiche entrano nelle catene trofiche, nelle catene alimentari, entrano negli organismi. E alcuni di questi organismi vengono mangiati da noi, entrano dentro il nostro corpo. Si è già cominciato ad osservare dei residui di microplastiche nel sangue umano di cui non si conoscono (ancora) gli effetti. Ma ciò non è sicuramente positivo.

Il discorso della plastica è ora di moda e ognuno nella vita quotidiana dovrebbe fare la sua buona azione che non è unicamente di non gettare la plastica in mare. Ogni volta che facciamo la spesa portiamoci una sacchetto di tela e facciamo estrema attenzione a comprare confezioni che non abbiano imballaggi di plastica. Non dobbiamo solo riciclare la plastica, ma dovremo arrivare a non produrla o a produrne il meno possibile.

Come potrebbe intervenire la comunità internazionale su questo problema?

Diciamo che ci sono due modalità d’intervento, una top-down dall’alto al basso, e l’altra bottom-up dal basso verso l’alto. L’Europa, le Nazioni Unite si sono date dei target a cui molti paesi aderiscono, anche se spesso non soddisfano questi criteri nella realtà. Si vede una certa propensione a risolvere il problema, ma non si è arrivati alla questione fondamentale. Come diceva Einstein ”Non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato”. Quindi finché i paesi seguiranno globalmente un modello economico che è teso alla persistente e continua crescita economica con conseguente misurazione attraverso indicatori come il PIL (prodotto interno lordo) che hanno una meccanica molto precisa non andremo da nessuna parte. Nel senso che siamo ad una crisi economica, ecologica e sociale per una contraddizione fondamentale: la terra ha delle risorse che hanno dei limiti, non sono infinite e noi pretendiamo che i sistemi economici dei paesi perseguano una crescita infinita.

Questa è una contraddizione che non può continuare a lungo. Non c’è stato un cambiamento culturale che possa permettere di cambiare i nostri obbiettivi. Se l’obbiettivo è la crescita persistente possiamo alleviare problemi, possiamo ridurli, ma la direzione non è coerente con le risorse  che il pianeta può metterci a disposizione.

La questione bottom-up è relativa al fatto che le scelte non si fanno solo ai piani alti. Se, come già dimostrato, nelle persone si sviluppa una certa cultura a livello di società e se le persone adottano un certo approccio culturale al consumo delle risorse, il mercato non può che adeguarsi. Se domani non compriamo più alcun prodotto che abbia un involucro di plastica  di conseguenza il produttore non produrrà più tali involucri.

Ho molta fiducia nella capacità che hanno le persone di indirizzare il mercato e le scelte politiche perché il politico ascolta l’elettorato. Ben venga, Greta, la bimba svedese e tutti i giovani che coinvolge. È uno strumento di comunicazione magnifico.

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Epinephelus costae maschio  ph. ©Egidio Trainito

Siete impegnati in tantissimi progetti. Ma quale idea soggiace ai vostri progetti?

L’idea progettuale del nostro laboratorio è un laboratorio che fa socio–ecologia ovvero la conservazione delle risorse, la protezione dell’ambiente vengono fatte non tenendo l’uomo al di fuori, ma coinvolgendo l’uomo all’interno del sistema, fare Possiamo escludere l’uomo in zone limitate, ma come modello da perseguire, dobbiamo arrivare ad un modello di sostenibilità in cui l’uomo e la società siano presenti ma interagiscano e sfruttino l’ambiente in modo assolutamente sostenibile.

La sostenibilità viene declinata attraverso le sue tre colonne: la sostenibilità ambientale con tutti i principi ecologici che partono dal diritto stesso delle diverse specie di esistere, noi non siamo l’unica che ha il diritto di esistere e giovarsi del pianeta poi c’è la sostenibilità sociale ed economica. E questa sociale ed economica fa riferimento ai diritti e all’equità, per cui anche quando un’area marina protetta viene istituita, non ci si può dimenticare che in quel territorio c’erano delle persone e delle categorie che avevano una loro economia. Se  non si riesce a supportare una certa economia locale perché incoerente rispetto ai principi di conservazione, bisogna supportare la sua conversione. Quindi la socio-ecologia prende in considerazione la conservazione dell’ambiente, la valutazione degli impatti, cercando di fornire soluzioni.

Mi parli nello specifico del censimento visivo dei pesci di cui si occupa il vostro laboratorio.

È una metodica di acquisizione di dati sulla fauna ittica standardizzata dalla metà degli anni 80 che non prevede alcuna raccolta, alcun campionamento di pesci. Bisogna avere una competenza subacquea in primo luogo. Si raccolgono i dati usando una tavoletta con dei fogli A4 plastificati e matite, ma bisogna saper riconoscere le specie, contare gli individui e valutare le taglie ‘ad occhio’. Noi raccogliamo dati in diversi habitat marini, censiamo le specie che sono presenti, valutiamo la loro abbondanza e la loro taglia individuale per poi stimare una variabile sintetica che è la biomassa, misurata come peso su superficie standard (ex., g/m2). Sembra semplice, ma non lo è.

Stimare la biomassa ci permette di comprendre quanto bene o male stia un ecosistema costiero in relazione, per esempio, alla pressione di pesca.

Personalmente ho condotto studi usando il censimento visivo presso diverse Aree Marine Protette sarde come Tavolara, Villasimus, Asinara, Capocaccia e Sinis, oltre ad alcune Zone Natura 2000. La Sardegna ha un patrimonio naturale costiero notevolissimo, un vero punto di forza, in cui la parte culturale e storica si itreccia con quella ambientale. Presso l’AMP di Tavolara, per esempio, eseguiamo due campagne all’anno per monitorare la fauna ittica dal 2005. Abbiamo una serie di dati che è storica e straordinaria, unica nel Mediterraneo.

La fauna ittica oscillare cambia molto nel tempo, ma ciò che si vede chiaramente è la capacità di recupero della fauna ittica soprattutto nelle zone A. All’interno delle zone A la biomassa di pesci è molto più elevata rispetto ai conteggi che facciamo fuori dall’area marina protetta, con valori intermedi nelle zone tampone (zona B e C). L’effetto riserva è limpido, chiaro, indiscutibile.

L’effetto riserva innesca poi il cosiddetto effetto spillover: quando la zona A è piena di pesci, essendoci troppa competizione all’interno, molti pesci escono e si muovono verso altre zone. Sono così esposti alla pesca e questo è un vantaggio per i pescatori.

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Secca Papa ph. ©Egidio Trainito

L’uomo ancora non ha capito che il mare è fonte di vita e mostra sempre meno attenzione. Si dovrebbe iniziare a parlare fin dalle scuole primarie. Cosa ne pensi.

L’idea che si ha della figura del ricercatore è che sia uno che ha la testa piena di numeri e cose complesse. In realtà oggi un ricercatore ha fallirebbe la sua missione se non avesse come fine anche quello di interagire con i più giovani, non solo con gli studenti universitari, ma anche i bimbi, a partire dalle scuole elementari o anche prima.

Ci sono modalità di trasmissione di informazioni che bisogna acquisire perché quando si parla con un bimbo si parla con una personcina molto attenta, che assorbe velocemente e naturalmente gli inputs. Così come per le lingue o per la musica quando si comincia a 5 anni i bambini sono incredibili, acquisiscono informazioni con rapidità e con una naturalezza di cui un adulto non è capace, non si devono sforzare.

La stessa cosa vale per il rispetto dell’ambiente, così come il rispetto per ciò che è bene comune e pubblico. Se si lavora con i bimbi e si inizia ad incanalarli verso questo tipo di approccio, inoltre, quando il bimbo che torna a casa e vede il papà o la mamma che usano la busta di plastica o fanno qualcosa che non va, è il bimbo che ha una capacità d’intervento efficacissima.

Sarebbe interessante avere gruppi di laureati che si dedichino alla comunicazione con i bambini e i ragazzi nelle scuole.

Le ricerche sul campo sono indispensabili per capire dinamiche e valutare eventuali soluzioni? Ci parli di eventuali differenze tra l’approccio scientifico francese e quello italiano? 

Diciamo che è indubbio che una nazione come la Francia abbia molta più capacità organizzativa, cioè riesce ad agire a livello di sistema. Mentre l’Italia ha molte punte di diamante, però ha scarsa capacità organizzativa e non è capace di agire come “sistema”.

In Sardegna ci sono delle AMP che sono dei punti di riferimento anche per altri paesi europei, i cui dati dimostrano che l’efficacia è evidente e più chiara ripsetto ad altre realtà non italiane. In Italia, tuttavia, ci sono anche alcune Aree Marine Protette che lo sono solo sulla carta e questo va cambiato, in meglio.

L’esempio un AMP in Puglia, in provincia di Brindisi, l’AMP di Torre Guaceto, dove io lavoro da tanto tempo, è famoso uno tra gli esempi più noti al mondo per la cogestione della pesca locale. I pescatori andando a pescare meno, ma meglio, quando escono pescano molto di più e valorizzano meglio il pescato.

Si potrebbe fare qualcosa per migliorare la ricerca, secondo te?

Se si usano bene i fondi della ricerca, si potrebbe fare di più. Una cosa che sarebbe fondamentale fare – e anche qui la differenza è tra mentalità europea e anglo-americana – è finirla con l’immensa burocrazia attuale, perché quando facciamo un progetto europeo il report economico-finanziario, con tutti i vari scontrini, costituisce l’80 percento e la parte scientifica è quasi marginale. Invece quando si ragiona con un approccio “americano” il processo è più fluido: io cerco un finanziatore, propongo un’idea e dico quanto costa. Il finanziatore accetta ed esige soprattutto “i risultati”.

Per i progetti EU trascorriamo la maggior parte del tempo a giustificare le spese. Io preferisco cercare finanziamenti da fondazioni private che vanno ad obiettivo, ma non si può non stare nello spazio EU della ricerca, quindi ben vengano ovviamente anche i finanziamenti europei.

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Dotto Posidonia ph. ©Egidio Trainito

Quali progetti futuri?

Ho alcuni piccoli progetti innovativi in corso, come lo studio dei rumori dei motori marini in acqua, ma ormai la mia strada è quella di cercare di fornire informazioni e soluzioni per risolvere le forme d’impatto che l’uomo produce in ambiente costiero, gestire le risorse e l’ambiente nel modo più adeguato possibile, per preservare la biodiversità e nel contempo far sì  che le comunità locali possano trarre il giusto beneficio.

Ti piacerebbe stabilizzarti definitivamente in Sardegna?

Non solo mi piacerebbe. Vengo qui il più spesso possibile. Ho avuto tante offerte per rientrare in Italia, in sedi universitarie, ma ho sempre dichiarato che non rientrerò salvo in Sardegna che non è la mia terra nativa, ma la mia terra d’adozione, dove mi sento bene.

 

 

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(pubblicato su Olbia.it il 26 Maggio)

Una conversazione con Anna Mazzamauro, icona del teatro italiano

Incontrare Anna Mazzamauro non è stato semplice perché, oltre ad essere attrice sul palcoscenico, è una donna manager molto dinamica con un’agenda fitta di tantissimi impegni, telefonate, incontri.

Ma, ci ha concesso questa lunga intervista, come segno di ringraziamento verso tutte le persone che le hanno mostrato grande affetto e stima, assistendo alla sua ultima commedia “Nuda e Cruda”, inserita nel circuito della Grande Prosa 2018-2019 del CeDAC, rappresentata nei vari teatri della Sardegna, oltre a varie regioni d’Italia.

BA96EC68-D634-4843-8709-31947A4D9982Courtesy Archivio Anna Mazzamauro ph. ©Pino Miraglia

Qui continua a svelarsi con la sua intelligenza e autoironia di sempre, da cui traspare consapevolezza del suo talento artistico e a tratti scopre un velo d’inquietudine e malinconia;  ma oltre alla sua delicata sensibilità, predomina un innato senso di libertà, che si può riscontrare in alcune sue grandi interpretazioni come la Lysistrata di Aristofane, La locandiera di Carlo Goldoni o il Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand fino alle commedie più attuali come Belvedere. 

Non mancano dei piccoli doni, quasi sfumature di luce della sua anima profonda e introspettiva, intervallati dal fluire delle parole: piccole riflessioni sulla vita. 

Iniziamo l’intervista con una risata spontanea, di quelle che servono per allentare tensioni e ti riportano alla realtà. Ora non si recita a soggetto, ma ci si palesa come si è autenticamente veri.

È lei che gioca d’anticipo da grande star, dicendo: «Se proprio vuoi esser onorata comincia a darmi del tu, perché così ci onoriamo a vicenda». Da queste poche parole avevo intuito che ci sarebbero state belle sorprese da questa donna minuta, agile, carismatica, grintosa, empatica, libera che ama l’autenticità e fugge dall’ipocrisia: Anna Mazzamauro.

 

C4035585-D66A-4E17-9B33-C9F329EABA88Courtesy Archivio Anna Mazzamauro

Sei un interprete molto apprezzata e stimata. Hai trascorso una vita sulle scene fin dalla tua giovane età. Con grande versatilità e talento hai dato voce a personaggi con  sfumature caratteriali complesse, affrontando generi differenti dal comico al tragico.

Come è nata la passione per la recitazione e quali sono stati i tuoi insegnanti?

[Risata contagiosissima] La voglia, la sensazione di esser attrice è nata con me. Credo che il talento nasca con noi. Io non so fare nient’altro. Sono una donna assolutamente inutile se non sto sul palcoscenico. Come tu stessa avrai constatato per quello che è successo durante lo spettacolo [allude allo spettacolo “Nuda e Cruda” durante il quale si erano verificati problemi tecnici e lei ha continuato a recitare tra realtà e finzione in modo brillante strappandoci risate e grandi applausi, ndr]. Se fosse successo in un altro contesto, io non avrei potuto reagire in quel modo (naturale e spontaneo). Quando sono sul palco assumo una specie di divinazione. Il desiderio di esser attrice è nato con me e non ho avuto nessun maestro se non il mio specchio, perché non ho frequentato nessuna scuola.

Credo che le scuole di Arte Drammatica non siano inutili, ma necessarie quando si ha un’inflessione dialettale molto accentuata. Quando si parla in calabrese, siciliano, lombardo e veneto. Il dialetto va curato, eliminato per purificare la lingua italiana. Allora è giusto avere degli insegnanti. Ma nessuno può insegnarti a recitare se non sai recitare.

I tuoi genitori avevano assecondato la scelta di diventare attrice o l’osteggiavano?

Avendo manifestato fin dall’asilo questa inclinazione alla recitazione, loro ritenevano che il desiderio di diventar attrice fosse una “malformazione”. Ma io sono nata con questa malformazione sia fisica che mentale! [Ridiamo sonoramente] sai che amo fare autoironia!

Hanno tentato di allontanare questo démone dostojeskiano del teatro, mandandomi all’asilo dalle suore. Ma i miei genitori, come penso tutti i genitori, non cercano di ostacolare il talento del proprio figlio se questo è presente, in caso lo possono indirizzare verso qualcosa che loro ritengono sia più giusto.

Nel mio caso,  pur non essendo nata nell’800, i tempi non erano storicamente pronti rispetto alla cultura di entrare a far parte del mondo dello spettacolo con disinvoltura. Quando ero piccola occorreva il permesso dei genitori.

Conoscevo il mio istinto anche se non sapevo dove mi avrebbe portato. Così studiai, frequentai  il liceo classico dalle suore. Anche se ci sono stati attori meravigliosi che erano dotati di grande espressività e intuito, che avevano fatto pochi anni scolastici.

Un ricordo di quegli anni.

In classe, il mio banco era sotto la finestra e davo le spalle alle mie colleghe. Guardavo il cielo e immaginavo. Disegnavo locandine. Davo le spalle perché sia le suore che le madri delle mie compagne di classe, fanciulle in fiore, pensavano che io le potessi rovinare parlando di ciò che desiderassi fare da grande.

L’amore per la recitazione ti indusse ad aprire un piccolo teatro Il Carlino. Puoi parlarci di questa esperienza? 

Avevo già alle spalle varie esperienze teatrali con Giorgio Albertazzi, il Teatro Stabile di Torino e altre.

Il mio aspetto induce  i “depositari” della cultura artistica italiana a relegarmi intenzionalmente – anche se io non gliel’ho permesso – ai caratteri all’italiana, che sono ad esempio: se tu non sei più giovane devi parlare come se avessi la dentiera, oppure devi esser cecato, sordo, zoppicante, claudicante. Queste cose orrende da cinepanettone, che spero di non fare mai più.

Ma ritornando al mio Teatro Il Carlino, poiché potevo aspirare a diventare al massimo l’antagonista della protagonista, – ma per carità, io sono nata protagonista – scelsi di aprire questo teatrino. E così scritturai i Vianella, Bruno Lauzi e tanti altri bravi artisti.

M’impegnai con tutte le mie forze. Gestii completamente da sola – sia economicamente che artisticamente – il mio piccolo teatro che poi mi bruciarono. Ma, non ne voglio parlare.

[segue un istante di silenzio, intenso, come il ricordo ancorato ad un dolore indelebile, scolpito nella sua anima]

Comunque hai trovato la forza di reagire. Come hai superato questo momento?

Come immagine ricordo di  aver aiutato i pompieri a spegnere l’incendio. Questa è naturalmente un immagine retorica, infatti non l’ho fatto materialmente.

Si dovrebbe capire che le tragedie della vita vanno spente aiutandosi pesantemente con forza, come spegnere un fuoco. Certo dipende dall’intensità della tragedia, non voglio entrare nel merito. Ma dopo l’incendio del teatro, io non sarei riuscita a stare a casa e fare la casalinga. Avvalendomi dell’immagine allegorica di aver collaborato allo spegnimento del fuoco ho superato il trauma e ho ricominciato.

Diceva Sant’Agostino “Beato chi sa ridere di sé stesso perché non finirà mai di divertirsi”. In sintesi mai prendersi sul serio e tu in questo sei stata una grande insegnante.

Questo mi fa molto piacere. Non conoscevo questa frase di Sant’Agostino, non pensavo fosse così intelligente e che mi avesse quasi ispirato.

11DC3AEE-A455-46E1-9102-3668F96950CFCourtesy Archivio Anna Mazzamauro

Un riferimento alla tua interpretazione della celebre signorina Silvani donna con un profilo caratteriale di rilievo, spigliata, esuberante, di cui il Ragionier Fantozzi – interpretato da Paolo Villaggio – si era innamorato. Questo personaggio ha lasciato traccia sulla tua personalità e/o influenzato scelte future?

È un personaggio che ha lasciato traccia negli altri. Premetto che io non rinnego mai niente di ciò che ho fatto. Posso dire che mi ha dato notorietà. E per ciò sono riconoscente alla Silvani e l’ho sbattuta in palcoscenico durante il mio spettacolo per raccontare una donna sola, disperata e anche un po’ stronza.

Quando la gente mi ferma e mi dice: «Tu sei un mito» – forse esagerano – perché un mito è Sofia Loren, non io. Io posso essere una bella interprete di me stessa e dei personaggi che scelgo. Quando mi dicono queste parole, comunque si riferiscono sempre alla signorina Silvani. Così quando mi chiedono gli autografi. Una parte della gente viene a teatro, ma la maggior parte mi ricorda come la signorina Silvani. Ma finché mi chiederanno le fotografie e i famosi selfie mostrando affetto sarà sempre un bene, quando non me li chiederanno più, vuol dire che mi avranno dimenticata.

Come vivi i ricordi? I ricordi implicano una crescita interiore o sono luoghi di memorie sbiadite dal tempo? 

Molti ricordi li vorrei annullare completamente, rinnegarli. Però immaginiamo di salire una scalinata di un tempio antico. Questi gradini possono esser sbeccati, possono far sdrucciolare, però è sempre una scala. Dobbiamo imparare a salire anche sui gradini rotti, in quanto poi troveremo quelli integri che aiutano a salire.

[un bellissimo dono questa metafora]

Hai dato voce e anima ad uno dei caratteri più difficili della storia del teatro Cyrano de Bergerac, – pièce di Edmond Rostand – Quanta importanza hanno il talento e lo studio nell’introspezione psicologica di un personaggio? Perché hai scelto questo carattere intenso ed estremo?

Si, è il mio fiore all’occhiello. Possiamo dire che se si unisce il talento allo studio si raggiunge un risultato eccellente.

Nella mia vita artistica ho sempre privilegiato, al di là del sesso, personaggi che mi hanno donato grandi emozioni. Cyrano potrebbe essere una donna con il naso lungo. Ama ma non è riamato. Lotta in duello. Muore per amore e per aver duellato con la spada. Queste sono caratteristiche che potrebbe avere anche una donna. Sono l’unica attrice al mondo che ha interpretato Cyrano, che ho scelto perché mi ha dato grandi emozioni così come sono riuscita a trasmetterle al pubblico.

I miei spettacoli più importanti della mia vita sono stati Cyrano e lo spettacolo su Anna Magnani, Raccontare Nannarella.

Ora voglio darti una notizia: ho scritto la nuova commedia per la prossima stagione teatrale, un inno alla libertà, il cui titolo è Belvedere. È la duplice storia di Santa, una grassa, enorme signora che sarei io, che sarò infilata in una specie di sarcofago e di una trans autentica Cristina Bugatti. Queste due donne rappresentano il senso della libertà, rispecchiano i loro più reconditi desideri, voleri. Esprimono il diritto – senza disturbare o ledere il prossimo – di vivere in libertà come loro stesse desiderano, senza condizionamenti, nel puro rispetto di sé stesse e degli altri.

Io detesto i giudizi, come detesto quelli che sono tutti buoni, bravi e belli quando rilevano un tuo difetto come se loro non ne avessero.

Belvedere è il luogo scelto da questa grassissima e enorme signora che è felice delle sue condizioni, però è costretta a vivere su un belvedere di un palazzo dove ha ricostruito il suo mondo e incontra una trans che si sta per uccidere. Riesce a salvarla e da qui nasce il rapporto tra queste due donne. La commedia è un inno alla libertà di esser come ti pare.

Calvino diceva che bisognasse “capire d’ogni persona o cosa al mondo, la pena che ognuno e ognuna ha per la propria incompletezza”. Questa potrebbe essere la chiave che permette di definire i personaggi caratterialmente? Che cosa pensi al riguardo considerato che l’incompletezza fa parte dell’essere umano?

Possiamo ricollegarci alla nuova commedia  ed aggiungere che Santa si avvicina al Barone Rampante costretto a vivere sugli alberi perché non trova la sua dimensione per terra.  È Belvedere.

 

Hai fatto dell’ironia un faro di riferimento nel mare a volte burrascoso dell’esistenza, con grande intelligenza ed umiltà ti sei riscattata. La tua è una bellezza interiore autentica a tratti lirica. Oggi sembra che la bellezza interiore sia un po’ subordinata a quella esteriore.

Non solo subordinata, ma la bellezza esteriore sembra abbia prevaricato sulla bellezza interiore. Ma ho una dolcissima invidia verso le bellissime. Ogni tanto, un minuto l’anno penso fra me: «ma se io fossi stata bellissima forse avrei vinto prima, avrei vinto di più?» Ma questo solo un minuto poi torno sul palcoscenico e mi sento bellissima, intelligentissima, giovanissima tutti i superlativi assoluti. La priorità adesso penso si dia attraverso i social, attraverso i grandi fratelli e le grandi sorelle…

Cosa pensi dei social?

Quando si scopre un mezzo così potente per rapportarsi con gli altri lo si deve sfruttare fino in fondo. Penso sia una transizione. Dopo si capisce che dare in pasto la propria intimità agli altri, anche alle persone intelligenti, è sbagliato. E si ritorna nella propria dimensione.

Carismatica, autoironica, oggi non più trentenne t’imponi sulla scena con armonia e agilità uniche. Hai qualche segreto da svelarci?

Io vivo sempre con la sensazione di avere trecento anni davanti a me. Sto sempre facendo progetti, scrivendo, leggendo. Ogni tanto vengo assalita dal terrore della morte, però cerco di controbatterlo con l’ironia. Dormo poco perché il letto è uno dei posti più pericolosi del mondo perché ci muoiono tante persone. Gioco sulla vecchiaia, in fondo c’è questo dolore, questo smarrimento. Io non riesco a capire perché devo morire, visto che mi piace tanto stare in vita. Mi piace proprio la vita. L’amo moltissimo e perché devo morire? Non voglio. In contrapposizione a questa orrenda sensazione cerco delle altre emozioni più belle, più festose, più lungimiranti, progettuali. Io amo fare progetti, allora mi sento viva. E tu avrai visto una giovane donna in scena perché stavo facendo il progetto di mostrare al pubblico di essere bravissima.

Calvino considerava la letteratura “un mezzo per introdurre ordine nel caos” io lo accosto alla grande potenzialità dell’ironia e della comicità. Possiamo dare questo valore uniformante alla comicità che allinea, livella? Che valore ha secondo te?

La comicità è un emozione, come la tragedia quello che provoca la tragedia e la comicità. Sono emozioni. L’una ti fa ridere l’altra ti fa piangere però ti viene sempre da dentro.

“Ogni vita è un campionario di stili, – diceva Calvino – ove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.”  Ma ciò non è forse l’anima del teatro? Che suggerimenti potresti dare ai ragazzi che vorrebbero studiare recitazione?

Direi lascia perdere, ovvero non cominciare, perché fare l’attore adesso come intendo io è molto difficile: non ci sono più le grandi compagnie dove si poteva imparare; non ci sono più i soldi per metter su delle grandi compagnie, e i gestori e gli impresari scelgono gli artisti.

Io  per esempio ho proposto uno spettacolo in cui ero sola con due eccellenti musicisti.

Nell’ultimo tuo spettacolo fai riferimento al femminicidio e al dolore straziante della madre di Melania Rea. Un messaggio forte che incide l’anima.

Un rifiuto del pensiero che ti possano uccidere una figlia. Io sono madre e solo all’idea… di pensare di parlare della madre di Melania Rea, prima di metterla nella Macelleria, ho detto «io non riesco a darmi una risposta».  E continuo «mio Dio ma se io fossi lei». Rifiuto l’idea che mi massacrino mia figlia e tutti rifiutiamo l’idea di accettare che gli assassini restino impuniti.

Che cosa conteneva la tua “valigia dell’attrice” ieri e cosa contiene oggi?

Tutti i cambi di cui sono proprietaria, di cui sono capace, tutti i cambi senza costumi. Io apro la valigia e ti sembra che non ci sia niente, ma ci sono io con tutti i miei desideri di raccontare i vari personaggi.

Ritornerai in Sardegna?

Io mi auguro di ritornare perché un pubblico così affettuoso è raro, che vale la pena d’incontrarlo ogni anno.

Anche noi tutti, dalla redazione ai lettori di Olbia.it ci auguriamo di rivederti presto nell’isola. E ti ringraziamo, cara Anna, perché da questa pagina hai continuato a farci emozionare, sorridere e se anche la scrittura può creare limiti, mancando di segni sonori e visivi, tu sei riuscita con la forza della tue parole a far af/fiorare la tua anima bella. Ma fossi proprio tu Cyrano! Ti aspettiamo!

©Lycia Mele Ligios

(articolo pubblicato su Olbia.it)

Olbia, 4 Maggio 2019

English Version

Meeting Anna Mazzamauro was not easy because, in addition to being an actress on stage, she is a very dynamic manager woman with a busy schedule full of commitments, phone calls, meetings.

But, she gave us this long interview, as a sign of thanks to all the people who showed her great affection and esteem, attending her last comedy “Nuda e Cruda”, inserted in the circuit of the Grande Prosa 2018-2019 of CeDAC, represented in the various Sardinian theaters, as well as various regions of Italy.

Here she continues to reveal herself with her usual intelligence and self-mockery, from which she becomes aware of her artistic talent and at times discovers a veil of restlessness and melancholy; but in addition to his delicate sensitivity, an innate sense of freedom predominates, which can be found in some of her great interpretations such as Aristophanes’ Lysistrata, Carlo Goldoni’s The innkeeper or Edmond Rostand’s Cyrano de Bergerac and the more current comedies like Belvedere . Little gifts are not lacking, almost shades of light of her deep and introspective soul, interspersed with the flow of words: small reflections on life.

We begin the interview with a spontaneous laugh, one of those that serve to release tension and bring you back to reality. Now we do not act as a subject, but we are revealed as we are: authentically true. It is her who plays in advance as a great star, saying: “If you really want to be honored, start saying you, because in this way we honor each other”. From these few words I realized that there would be nice surprises from this petite, agile, charismatic, spirited, empathic, free woman who loves authenticity and flees hypocrisy: Anna Mazzamauro.

You are a highly appreciated and respected interpreter. You’ve spent a lifetime on the scene since you were young. With great versatility and talent you have given voice to characters with complex temperaments, facing different genres from the comic to the tragic.

How did the passion for acting come about and who were your teachers?

[Very contagious laughter] The desire, the feeling of being an actress was born with me. I believe that talent is born with us. I can’t do anything else. I am an absolutely useless woman if I am not on stage. As you yourself will have seen for what happened during the show [alludes to the show “Nuda e Cruda” during which technical problems occurred and she continued to recite between reality and fiction in a brilliant way, snatching laughter and great applause]. If it had happened in another context, I could not have reacted in that way (natural and spontaneous). When I’m on stage I take on a kind of divination. The desire to be an actress was born with me and I had no teacher but my mirror, because I didn’t go to any school.

I believe that the schools of Dramatic Arts are not useless, but necessary when there is a very pronounced dialect inflection. When speaking in Calabrese, Sicilian, Lombard and Veneto. The dialect must be cured, eliminated to purify the Italian language. Then it is right to have teachers. But nobody can teach you to act if you don’t know how to act.

Did your parents support the choice of becoming an actress or not?

Having shown this inclination to acting since asylum, they believed that the desire to become an actress was a “malformation”. But I was born with this physical and mental malformation! [We laugh loudly] you know I love making self-mockery!

They tried to remove this Dostojeskian demon from the theater by sending me to the nursery school. But my parents, as I think all parents, do not try to hinder their child’s talent if it is present, in case they can direct it towards something they think is more right.

In my case, although not born in the 1800s, the times were not historically ready with respect to the culture of becoming part of the entertainment world with ease. When I was a child, parental permission was required.

I knew my instinct even though I didn’t know where it would take me. So I studied, I attended the classical high school at the nuns. Although there have been wonderful actors who were endowed with great expressiveness and intuition, who had made few school years.

A memory of those years.

In class, my desk was under the window and my back was to my colleagues. I looked at the sky and imagined. I drew posters. I turned my back so that both the sisters and the mothers of my classmates, girls in bloom, thought I could spoil them by talking about what I wanted to be when I grew up.

Love for acting led you to open a small Il Carlino theater. Can you talk about this experience?

I already had various theatrical experiences with Giorgio Albertazzi, the Teatro Stabile of Turin and others.

My appearance induces the “custodians” of Italian artistic culture to intentionally relegate me – even if I didn’t allow it – to Italian characters, which are for example: if you are not young you have to talk as if you had dentures, or you must be blinded, deaf, limping. These horrible things from cinepanettone, which I hope I will never do again.

But returning to my Teatro Il Carlino, since I could aspire to become the protagonist’s most antagonist, – but for heaven’s sake, I was born a protagonist – I chose to open this little theater. And so I would write the Vianella, Bruno Lauzi and many other good artists.

I committed myself with all my strength. I managed completely by myself – both economically and artistically – my little theater which then burned me. But, I don’t want to talk about it.

[follows an instant of silence, intense, like the memory anchored to an indelible pain, carved in his soul]

However you have found the strength to react. How did you overcome this moment?

As a picture, I remember helping the firefighters put out the fire. This is naturally a rhetorical image, in fact I did not do it materially.

It should be understood that the tragedies of life should be turned off by heavily helping each other, such as putting out a fire. Of course it depends on the intensity of the tragedy, I don’t want to go into it. But after the theater fire, I wouldn’t be able to stay at home and be a housewife. Taking advantage of the allegorical image of having collaborated in extinguishing the fire, I overcame the trauma and started again.

Sant ‘Agostino said “Blessed is he who knows how to laugh at himself because he will never cease to have fun”. In summary, never take yourself seriously and you have been a great teacher in this.

This makes me very happy. I did not know this phrase of Saint Augustine, I did not think he was so intelligent and that he had almost inspired me.

A reference to your interpretation of the famous Miss Silvani woman with a prominent, breezy, exuberant character profile, of which Ragionier Fantozzi – interpreted by Paolo Villaggio – had fallen in love. Has this character left traces on your personality and / or influenced future choices?

It is a character that has left its mark on others. I state that I never deny anything of what I did. I can say that it gave me notoriety. And for that I am grateful to Silvani and slammed her on stage during my show to tell a lonely, desperate and even a bit bitch woman.

When people stop me and say: “You are a myth” – perhaps they exaggerate – because a myth is Sofia Loren, not me. I can be a beautiful interpreter of myself and the characters I choose. When they tell me these words, they always refer to Miss Silvani. So when they ask me for autographs. Some people come to the theater, but most of them remind me of Miss Silvani. But as long as they ask me for photographs and the famous selfies showing affection it will always be good, when they won’t ask me again, it will mean that they will have forgotten me.

How do you live the memories? Do memories imply inner growth or are they places of memories faded by time?

I would like to cancel many memories completely, to deny them. But let’s imagine we climb a stairway of an ancient temple. These steps can be chipped, they can cause slipping, but it is always a ladder. We must learn to climb even on broken steps, because then we will find those intact that help to rise.

[a beautiful gift this metaphor]

You gave voice and soul to one of the most difficult characters in the history of the theater Cyrano de Bergerac, – pièce by Edmond Rostand – How important is talent and study in a character’s psychological introspection? Why did you choose this intense and extreme character?

Yes, it’s my buttonhole. We can say that if we combine talent with study we achieve an excellent result.

In my artistic life I have always privileged, beyond sex, characters who have given me great emotions. Cyrano could be a woman with a long nose. He loves but is not loved in return. Fight in a duel. He dies for love and for dueling with the sword. These are features that a woman could have. I am the only actress in the world who played Cyrano, which I chose because it gave me great emotions as I managed to convey them to the public.

My most important shows of my life were Cyrano and the show on Anna Magnani, Raccontare Nannarella.

Now I want to give you some news: I wrote the new comedy for the next theater season, a hymn to freedom, whose title is Belvedere. It is the twofold story of Santa, a fat, enormous lady who is me, who will be slipped into a kind of sarcophagus and an authentic trans-Cristina Bugatti. These two women represent the sense of freedom, they reflect their most hidden desires, wishes. They express the right – without disturbing or harming others – to live in freedom as they themselves desire, without being conditioned, in pure respect for themselves and others.

I hate judgments, as I hate those who are all good and beautiful when they detect your fault as if they had none.

Belvedere is the place chosen by this fat and enormous lady who is happy with her condition, but she is forced to live on a lookout of a building where she has rebuilt her world and meets a tranny who is about to kill herself. she manages to save her and from here the relationship between these two women is born. Comedy is a hymn to the freedom to be as you like.

Calvino said that it was necessary “to understand every person or thing in the world, the pain that each and every one has for their own incompleteness”. Could this be the key to defining the characters? What do you think about it considering that incompleteness is part of being human?

We can reconnect with the new comedy and add that Santa approaches the Baron Rampante forced to live on trees because he does not find his dimension on the ground. It’s Belvedere.

You made irony a reference lighthouse in the sometimes turbulent sea of ​​existence, with great intelligence and humility you redeemed yourself. Yours is an authentic inner beauty, sometimes lyrical. Today it seems that the inner beauty is a little subordinated to the external one.

Not only subordinate, but external beauty seems to have prevailed over inner beauty. But I have a very sweet envy of beautiful women. Every once in a year I think to myself: “but if I had been beautiful, perhaps I would have won before, would I have won more?” absolute. I think the priority is now given through social media, through the great brothers and the big sisters …

What do you think about social media?

When one discovers such a powerful means of relating to others, it must be exploited to the full. I think it’s a transition. Afterwards we understand that feeding one’s intimacy to others, even to intelligent people, is wrong. And it returns to its own dimension.

Charismatic, self-deprecating, now no longer in your thirties you impose yourself on the scene with unique harmony and agility. Do you have any secrets to reveal?

I always live with the feeling of being three hundred years ahead of me. I’m always making plans, writing, reading. Every now and then I am assailed by the terror of death, but I try to counter it with irony. I sleep little because the bed is one of the most dangerous places in the world because so many people die. Game about old age, after all there is this pain, this bewilderment. I can’t understand why I have to die, since I love being alive. I really like life. I love it very much and why do I have to die? I do not want to. In contrast to this horrible feeling I look for other more beautiful, more festive, more forward-looking, planning emotions. I love making plans, so I feel alive. And you will have seen a young woman on stage because I was doing the project to show the public that I was very good.

Calvino considered literature “a means of introducing order into chaos”, I approached it with the great potential of irony and comedy. Can we give this uniforming value to the comedy that aligns, levels? What value do you think?

Comedy is an emotion, like tragedy, what causes tragedy and comedy. They are emotions. One makes you laugh the other makes you cry but it always comes from inside.

“Every life is a sample of styles, – said Calvino – where everything can be continually re-mixed and rearranged in all possible ways.” But isn’t this the soul of the theater.   What suggestions could you give to kids who would like to study acting?

I would say let it go, or not start, because being an actor now, as I understand it, is very difficult: there are no longer large companies where you could learn; there is no money left to set up big companies, and managers and contractors choose artists.

For example, I proposed a show in which I was alone with two excellent musicians.

In your last show you refer to the femicide and the excruciating pain of the mother of Melania Rea. A strong message that affects the soul.

A rejection of the thought that they can kill a daughter. I am a mother and only with the idea … to think of talking about the mother of Melania Rea, before putting her in the Butcher’s, I said “I can’t give myself an answer”. And I continue “my God but if I were you”. I reject the idea that I am massacring my daughter and we all reject the idea of ​​accepting that the killers go unpunished.

What did your “actress’s suitcase” contain yesterday and what does it contain today?

All the changes I own, of which I am capable, all changes without customs. I open my suitcase and it seems that there is nothing, but I am there with all my desires to tell the various characters.

Will you return to Sardinia?

I hope to come back because such an affectionate audience is rare, which is worth meeting every year.

We too, from the editorial staff to the readers of Olbia.it hope to see you again soon on the island. And we thank you, dear Anna, because from this page you have continued to excite us, to smile and if even writing can create limits, lacking sound and visual signs, you have succeeded with the strength of your words in bringing out your beautiful soul . But were you really Cyrano !? We are waiting for you!

©Lycia Mele Ligios

Gabriella Greison e la sua grande intuizione: democratizzare la fisica

Ricordo bene quel giovedì pomeriggio. In Biblioteca c’era la presentazione del libro su Albert Einstein di una scrittrice che conoscevo poco.

Ma, ci andai, attratta dal grande genio della teoria della relatività e dalla simpatia che traspariva da una sua foto – la linguaccia più famosa del mondo –  e  con la speranza che non si parlasse di fisica.

Non eravamo tantissimi ma posso dire che l’attenzione mostrata dai presenti era come un velo di silenzio, ci avvolgeva tutti, catturati dalla capacità interpretativa di questa ragazza dai capelli ramati con outfit un po’ retrò, dagli occhi verdissimi, espressivi con una bella voce squillante, limpida.

IMG_7042Courtesy Archivio Greison ph. ©Marina Alessi

Recitava un monologo tratto da un suo libro “Einstein e io” edito da Salani, in cui con un linguaggio fresco, semplice e scorrevole raccontava la tormentata storia d’amore tra Albert Einstein e sua moglie, grande scienziata anche lei, Mileva Marić,  prima donna ad esser stata ammessa al corso di fisica al Politecnico di Zurigo,  – un corso per antonomasia maschilista. – Ma, la grande sorpresa fu che la scrittrice, oltre ad esser una fisica affermata, era anche attrice per giunta autodidatta, come scoprii in seguito.

Tutti eravamo chiusi in un silenzio quasi rigoroso, religioso. In realtà “contemplavamo”. Volevamo r/accogliere tutte le  parole.   Non volevamo perderne neanche una.

Sì, la sua voce  s’immergeva nei caratteri dei personaggi e diveniva coinvolgente,  compassionevole, concitata, energica, limpida, ironica, minacciosa, pacata, sottomessa, spaurita e poi vogliamo parlare della voce graffiante, originale, suasiva, virile di Giancarlo Giannini  – che penso riconoscerei anche se distante mille miglia – nelle vesti di Albert Einstein?  Forse, eravamo ipnotizzati.

IMG_7962Courtesy Archivio Greison – ph. ©Gianbattista Turla

La sua voce si diffondeva invadendo il nostro senso, l’udito e la nostra immaginazione quella di averli tra noi. Ammaliati da questa performance quando finii – quasi ci  rimanemmo male – io come spinta da una forza innaturale dissi: “Mi hai ricordato i monologhi di Franca Rame ai tempi dell’università”.

Mi sarei pestata la lingua. Da timida, improvvisamente ero diventata loquace. Applausi scroscianti, lunghi, lunghississimi come lo stupore e la meraviglia che aveva ammaliato un po’ tutti.

Ricordo le parole del direttore, Marco Ronchi,  dal sapore di una promessa “Verrà quest’estate” . Ed eccoci al firma copie e con una sfacciataggine che mai avrei creduto di avere le chiedo un’intervista.

Ero certa che non solo dai suoi testi ma dalla carica di energia, dalla capacità didattica, dalla sottile delicatezza con cui faceva introspezione psicologica dei personaggi che si legavano alla sua esperienza di vita, tutti avremmo potuto imparare qualcosa che forse era sfuggito.

Consiglio di leggere tutti i testi che lei cita, perché è una rarità trovare una fisica che trasmette con semplicità e leggerezza argomenti complessi, ma anche per  la riabilitazione della donna in un contesto storico che ancora la relegava ai margini.

E ancora, per la sottile ironia – con la quale Gabriella descrive i personaggi vissuti – in un’ epoca di grande fermento culturale e di innovazioni scientifiche. Infine per l’umanità che avvicina il fisico all’uomo normale, semplice, con i suoi limiti e sfumature caratteriali, riflessi del nostro essere umani. E ora, le sue parole.

Dalla tua lunga biografia si evince una vita subordinata ad una passione intensa verso tutto ciò che hai fatto e che fai, forse l’inquietudine dell’uomo moderno alla ricerca di un qualcosa che gli faccia capire e assaporare il vivere. Come se tu stessa non avessi trovato ciò che cercavi. O forse una sfida con te stessa. Comunque si denota la grande capacità di mettersi in gioco in attività lavorative con sfumature differenti.

Come ti ri/vedi se pensi agli anni in cui lavoravi in radio o facevi la reporter? Vuoi raccontarci qualcosa di questa esperienza?

È stato strano: quando mi sono laureata in fisica a Milano mi è venuto il desiderio grande di dire a tutti quanto è stato bello: i professori che ho seguito, con cui ho studiato, da cui mi sono fatta inebriare di racconti erano strepitosi. Loro mi hanno fatto vedere la fisica, prima – al liceo – non se ne ha minimamente la percezione di quanto tutto quello sia bello. Loro mi hanno fatto conoscere i grandi fisici del XX secolo come se fossero amici con cui parlare ogni giorno. Ed erano personaggi molto interessanti. Decisi di andare a Parigi per lavorare in un gruppo di ricerca internazionale, perché l’ambiente scientifico mi attraeva parecchio: e così è stato all’Ecole Polytechnique, dove ho conosciuto fisici molto in gamba e di livello eccezionale. Con il merito che prevaleva su ogni altro aspetto. Sono tornata in Italia con l’idea di portare il racconto della fisica, come lo avevo vissuto io, in una forma leggibile per tutti. Volevo creare la narrativa della fisica: che mancava in Italia, come in Europa. Mi proposi ai grandi quotidiani, ma mi presero per una spocchiosa pivella. Io dicevo: “ma io sono laureata in fisica”, insistevo con loro, dicendo che mancava questo punto di vista. Ma, niente.

E così entrai nelle porte che mi si aprivano più facilmente: quindi iniziai con Radio Popolare, e anche con Il Manifesto. Entrambi i posti sono stati accoglienti per me. Lì potevo fiorire. E iniziai il mio percorso. In Radio creai “42 la scienza in cerca di domande”. E sul quotidiano scrivevo. Crescevo di giorno in giorno. Divenni giornalista professionista. Nel frattempo presi l’abilitazione per l’insegnamento e insegnavo nei licei, fisica e matematica. Collaboravo anche con l’università. Dopo due anni così, potevo ancora continuare con la trasmissione e i miei articoli, se volevo, ma capii che per crescere ancora dovevo cambiare. E così entrai in altre porte che mi si aprirono. Radio Tre, poi Radio Due. E poi iniziai a scrivere di tutto, non solo di fisica e di scienza. Perché se uno ha la passione della scrittura, e gli piace scrivere, se con la scrittura esprime qualcosa che non c’è, se con la scrittura sta correndo in una prateria che sa solo lui qual è, non importa di cosa scrive. È una regola che mi hanno insegnato i grandi giornalisti.

L’amore per la scrittura si è palesato intorno ai 30 anni quando lavoravi a Radio Popolare. Allora facevi la giornalista e avevi pubblicato L’insostenibile leggerezza di Effenberg in cui parlavi del mondo che ruota attorno al calcio. Intorno al 2017 inizi a focalizzare la tua scrittura sul mondo legato alla fisica.

Quando hai sentito l’esigenza di riscrivere e narrare eventi come il Congresso di Solvay  del 1927 o storie di personaggi a cui hai dato un’anima e qualità umane che spesso non traspaiono dalle biografie?

Quando mi sono laureata in fisica avevo la fissa per la foto scattata nel 1927, la vedevo ovunque. Poi a Parigi, all’Ecole Polytechnique era una gigantografia all’ingresso. Era un’ossessione quella foto per me. E così appena capii che poteva essere il momento giusto, andai a Bruxelles e mi misi a fare le ricerche per approfondire quella foto. Ricerche che durarono anni. Andavo avanti e indietro dall’Italia in Belgio. Finalmente, quando le cose stavano cambiando e tirava l’aria giusta, capii che quelle ricerche potevano diventare un romanzo. Il romanzo è stato “L’incredibile cena dei fisici quantistici”, edito da Salani. Un buum pazzesco. È tutt’ora in continua ristampa. Pochi mesi fa ho anche registrato l’audiolibro per Audible.it .

E dopo il romanzo ho creato “1927 Monologo Quantistico”, perché alle presentazioni del mio romanzo nel 2016 venivano centinaia di persone, e allora un regista milanese (Emilio Russo) si è incuriosito e mi ha proposto di portare nel suo teatro il monologo che da sola portavo nelle librerie, negli auditorium. Facemmo un lavoro, e creammo la versione teatrale. Da allora abbiamo fatto oltre 170 repliche nei teatri di tutta Italia, quasi tutti sold out, soltanto a Milano siamo arrivati a 50 repliche. Continuiamo ancora, malgrado io sia poi arrivata a creare altri tre monologhi, da altrettanti romanzi. Sul mio sito www.greisonanatomy.com c’è il dettaglio di tutti questi miei lavori e dove trovarmi nel calendario, con tutte le prossime date. (clicca qui)

Courtesy Archivio Greison – ph. ©Gianbattista Turla

Hai lavorato 4 anni come reporter de Il Fatto Quotidiano occupandoti di varie tematiche estranee al tuo mondo di fisica. Interessanti i dossier sulla Silicon Valley, sul quartiere di Bruxelles in cui l’Isis recluta adepti e in vista dei Mondiali 2022 ti sei recata a Doha.

Ci vuoi parlare dell’esperienza che ti ha più colpita e che ti ha lasciato tracce indelebili. Non mi riferisco solo alle differenze socio-culturali ma al valore umano non visibile ma importante. Inoltre, come vivevi le tue trasferte all’estero?

Mi sono semplicemente incuriosita al mondo. Esattamente come mi ha insegnato la fisica. Io viaggio da sola fin da quando avevo 18 anni, quindi per me è stato naturale. Come ho detto prima, non importa l’argomento, se ti piace scrivere, lo puoi fare con tutti i temi. E quelli erano temi che mi incuriosivano, e c’era la notizia. E nessuno ne scriveva. Il fiuto per la notizia mi ha portato ovunque, è stato divertente. È stato un gioco, per me. Sono stata l’ultima ad aver intervistato Giulio Andreotti. Sono stata l’ultima ad aver intervistato Rita Levi-Montalcini. Sono stata l’ultima ad aver intervistato Margherita Hack. Pazzesco, non credi?

Hai visitato la Silicon Valley, centro avanguardistico dell’informatica e di tutto ciò che concerne l’web, dove a parte l’efficenza lavorativa si hanno ritmi di lavoro che limitano la vita privata. Cosa pensi al riguardo?

È molto interessante. Mi ha incuriosito parecchio, anche perché nessuno me la raccontava bene: dunque, ci sono andata di persona. E una volta che io vado in un posto, e trovo una notizia, è inevitabile che la scriva.

Analizzando quei sistemi lavorativi, per esempio Google che tu hai visitato, potresti suggerire elementi che potrebbero giovare ad avviare start up nella nostra isola?

Non so.

Dopo il periodo giornalistico sei ritornata alla tua vocazione/passione originaria. Raccontaci, anche tu folgorata sulla via del ritorno?

Non c’è una via di ritorno, perché in realtà non l’ho mai abbandonata. Ad un certo punto, è stato il momento di pubblicare “L’incredibile cena dei fisici quantistici”. Prima non era possibile. Prima, era come se i fisici dovevano parlare solo come i fisici accademici, quelli che Einstein chiamava i ‘paludati accademici’. Poi, il successo del libro di Carlo Rovelli ha aperto la strada, e io mi sono messa in scia. Avevo già tutto, avevo la storia che era una bomba, ero pronta. Ed ero donna. Un primato pure il mio.

La bellezza dei tuoi testi risiede oltre che in una scrittura coinvolgente, briosa a tratti leggera, ironica, nella semplicità con cui permetti a tutti noi di avvicinarci ad un mondo per complessità, rigoroso, impostato, rigido. O come noi pensavamo fosse. E così doni umanità a questi grandi scienziati. Ne accorci le distanze. Gli spazi si annullano e un po’ le differenze. Anche loro con menti acute e intelligenti sono simili a noi. E anche la loro vita è stata segnata da luci e ombre, un po’ come la nostra. Sembra quasi che tu gli permetta di rinascere. Epifanie di umanità.

C’era un progetto legato alla riscrittura? A parte le scoperte scientifiche che hanno migliorato la nostra contemponeità. Possiamo dire che i tuoi testi li hanno resi nostri contemporanei?

Sì, mi piace quando mi viene attribuita questa conquista. Questo primato. Ho creato una narrativa della fisica che non c’era. Dopo “L’incredibile cena” è stato il momento di “Sei donne che hanno cambiato il mondo” (per Bollati Boringhieri) da cui ho fatto nascere il monologo “Due donne ai Raggi X – Marie Curie e Hedy Lamarr, ve le racconto io”, lo porto anche a Vienna a marzo, nella città natale di Hedy. Dopo ho pubblicato “Hotel Copenaghen” (per Salani) sulla scuola di Copenaghen creata da Niels Bohr, un posto magnifico che non potevo non raccontare. Ecco le mie esigenze: scrivo romanzi perché ci sono storie che ‘non posso non raccontare‘. Poi ho pubblicato “Einstein e io” da cui ho fatto nascere “Einstein & me” il monologo teatrale sulla vita di Mileva Maric, ho fatto un lavoro con la regista (Cinzia Spanò) strepitoso, lei è bravissima, e io con lei di fianco ho imparato tanto: l’ho portato in due teatri da mille posti, pieni, è stata un’emozione che non ha eguali. Lo porto anche a Zurigo a fine marzo, esattamente dove ho fatto le ricerche, e poi anche a Novi Sad, nella città natale di Mileva, dove mi hanno invitato e dove tradurranno il libro in serbo. I cerchi si chiudono sempre. L’ultimo romanzo è “La leggendaria storia di Heisenberg e dei fisici di Farm Hall”, in cui racconto di una storia formidabile e che nessuno conosce, all’interno della villa di Farm Hall: il nuovo monologo debutta il 10 maggio al Teatro di Sori, è prodotto dal Teatro Pubblico Ligure e ha la regia di Sergio Maifredi. Farm Hall è stato il primo Grande Fratello coatto della storia, fatto solo con i fisici. A corredo faccio anche la storia di Lise Meitner, e l’approfondisco in uno spazio a parte. Il racconto delle grandi donne della scienza, visto il periodo che stiamo vivendo, è il mio faro.

IMG_9081Courtesy Archivio Greison – ph. ©Gianbattista Turla

Dai tuoi libri traspare una forza di semplificazione e umanizzazione straordinaria. Semplicità, coinvolgimento, capacità didattica sono i tre elementi che personalmente mi hanno colpito. Hai seguito corsi di scrittura creativa per definire i personaggi? Che ruolo hanno i dettagli?

I dettagli sono tutto. Ho lavorato su me stessa. Da sola. Autodidatta. Anche Einstein faceva così… L’ho fatto per tanti aspetti della mia vita. Anche quando volevo imparare ad andare su un surf da onda, guardavo ore, osservavo i più bravi, e poi emulavo.

L’analisi di forme matematiche sembra sorreggere dinamiche caratteriali, di personalità o sociali. Ovvero sembra che tu voglia tradurre le formule in istanti di vita. Lo trovo magnifico. Ci vorresti parlare di questi passaggi?

Si, parlo di formule, di teoremi e li mischio al lato umano dei fisici. Il mio racconto è sui fisici del XX secolo perché loro mi piacciono più di tutti gli altri: sono quelli che hanno creato il nostro mondo.

Dalla scrittura alla recitazione. Oggi incanti platee. Ricordo bene il tuo monologo tratto dal libro Einstein ed Io alla Biblioteca Simpliciana di Olbia che ha folgorato tutti i presenti. Rapiti dalle tue parole e quelle di Giancarlo Giannini. Seguendoti sui social tutta l’Italia sembra si stia innamorando della fisica merito dei tuoi libri e dei tuoi brillanti monologhi. Tutti sold out. Penso che il segreto dipenda oltre dalla capacità interpretativa, dall’empatia e molto dalla tua semplicità e umiltà, valori che ti hanno sempre contraddistinto.

Cosa pensi al riguardo? Perché questo amore verso la fisica? Inoltre per essere vincenti e realizzare i propri sogni, come nel tuo caso, quali suggerimenti daresti ai giovani d’oggi?

Ho lavorato molto sul mio modo di parlare in pubblico, sul linguaggio. All’inizio emulavo quelli più bravi di me. Inizio sempre così una cosa che non so fare. Per la scrittura, agli inizi, copiavo gli attacchi di Hemingway. Per il racconto orale, agli inizi ho trovato la mia ispirazione più grande in Carlo Lucarelli: sono sempre stata affascinata dai suoi libri, e dal suo modo di parlare. La gente a teatro mi diceva che gli ricordavo lui: eh certo, io a casa mi mettevo davanti allo specchio e cercavo di parlare come lui! Poi ho trovato la mia strada, ho lavorato su me stessa su come cambiare, su come trovare la personalità che mi rispecchiasse meglio. Ma continuo ad adorare Carlo Lucarelli, non ci posso fare niente, appena lo vedo in tv mi fermo e ascolto con molta attenzione cosa dice. Poche persone catalizzano la mia attenzione come lui: un’altra è Francesco De Gregori. Sogno un’ora a teatro con lui: lui che mi fa domande sulla fisica e io che gli faccio domande sulla vita, sulla sua spiritualità. A me mancano esattamente le cose che lui racconta, ho letto tutte le sue interviste. Lo stimo molto. Io nel camerino prima di ogni spettacolo canto le sue canzoni per caricarmi: una volta un tecnico simpatico mi ha ripreso e lo ha messo sui social: ti dico solo che quel video ha migliaia più visualizzazioni di quando parlo di fisica. Ma torniamo a me: ora ho creato la mia narrativa della fisica, e quindi posso esprimermi lì dentro. A teatro poi su di me hanno lavorato fior fiori di registi teatrali bravissimi, e di lunga esperienza: devo tantissimo a loro. La mia sicurezza sul palco, il mio modo di occupare gli spazi. Io continuo a crescere, inarrestabile, giorno dopo giorno, non mi fermo un attimo, di crescere, di imparare, vado sempre avanti. Sono fatta così.

Un consiglio da dare ai ragazzi? Gliene do tutte le volte che mi fermano dopo un monologo nei teatri. Dico a tutti di oziare. E poi: non state dove non potete fiorire.

L’eroine dei tuoi libri. Tra desiderio di emancipazione e soffocamento di una società maschilista. Ieri e oggi. Possiamo dire che le differenze si stiano armonizzando?

Sì, io racconto le donne del passato che hanno dato la possibilità a me e a tutte noi oggi di realizzare i nostri sogni. È come se ricevessimo un testimone da loro, e io lo porto in giro fiera nei teatri. Nel mio nuovo monologo “La leggendaria storia di Heisenberg e dei fisici di Farm Hall” c’è il racconto nella seconda parte di Lise Meitner, che potrebbe avere uno spazio tutto suo, se me lo chiedono. Le donne della scienza che racconto sono le mie eroine. E specchiandomi nelle loro vite vedo riflessa la parte di me stessa di cui prendermi cura come il più prezioso dei regali della vita.

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Courtesy Archivio Greison – ph. ©Marina Alessi

La vita come mezzo di conoscenza: con questo principio nel cuore si può non solo vivere valorosamente, ma anche vivere gioiosamente e gioiosamente ridere.” Con queste parole di Friedrich Nietzsche voglio sintetizzare ciò che si evince dalla vita di un’artista creativa con una weltanschauung  molto aperta e curiosa. Si può riflettere sulle implicite potenzialità della stessa. Ogni momento vissuto ci modifica. L’esperienza acquisita, sia positiva o negativa, aiuta ad intravvedere  sempre nuovi orizzonti e vivere la vita come una sorta di avventura e crescita,  a trovare quella forza che ci aiuta a ri/trovare nuovi percorsi alternativi. Ma con un grande faro davanti ai nostri occhi la passione autentica aiuta a districare i sogni. E infine a realizzarli. E per usare le parole di Gabriella verso i ragazzi “non state dove non potete fiorire”.

Ringrazio a nome di Olbia.it Gabriella Greison per la sua gentile disponibilità nel permettere questa intervista. La rincontreremo questa estate nella rassegna letteraria estiva della Biblioteca Sempliciana – Sul Filo del Discorso – con un nuovo brillante monologo teatrale. Non mancate!

©Lycia Mele Ligios 2019